Il Vello d’oro – 3 di 3
6.
La rotta per il ritorno
Quando Eete si accorse dell’inganno, fece armare la sua flotta e si gettò all’inseguimento degli stranieri.
A questo punto, i mitografi ci danno due versioni diverse di quanto accadde: secondo Apollodoro, Medea aveva portato con sé il fratellastro Apsirto come ostaggio e, vedendo che il padre stava per raggiungerli, lo uccise senza pietà facendolo a pezzi e gettandone i resti in mare.
Eete, inorridito, costrinse le navi inseguitrici a fermarsi per recuperare i brandelli del figlio dilaniato.
Secondo altri autori (Apollonio Rodio), invece, Apsirto inseguì Giasone per ordine di suo padre e li raggiunse presso un’isola sacra ad Artemide; qui il giovane venne colpito alle spalle da Giasone ed ucciso a tradimento.
Fatto sta che gli abitanti della Colchide rallentarono il loro inseguimento consentendo agli Argonauti di prendere il largo. I Colchi tuttavia non desistettero ma si organizzarono in gruppi e iniziarono le ricerche su rotte diverse.
Fra i mitografi antichi e moderni non vi è accordo sulla rotta intrapresa da Giasone e dai suoi compagni per il ritorno: alcuni affermano che la nave risalì la corrente dell’Istro (Danubio), per poi giungere nel mare Adriatico attraverso l’Eridano (l’odierno fiume Po).
Altri ancora raccontano che, risalito il Danubio, gli Argonauti entrarono nel fiume Eridano; di là entrarono nel profondo corso del Rodano[1]. Usciti dal fiume, giunsero alle rive del mare, passando incolumi per volere di Hera in mezzo ai mille popoli dei Celti e dei Liguri.
Zeus, infuriato per l’assassinio di Apsirto, scatenò una tremenda tempesta; la polena della nave allora profetizzò che l’ira di Zeus non sarebbe cessata sino a quando gli Argonauti non si fossero diretti in Ausonia, dove Circe li avrebbe purificati.
Gli Argonauti costeggiarono la Tirrenia e giunsero nell’isola di Eea, dove si presentarono supplici a Circe (zia di Medea) e furono mondati dal terribile crimine commesso.
Attraversarono poi le isole delle Sirene e fu Orfeo a trattenere gli Argonauti, intonando un canto ancor più bello di quello delle creature incantatrici; solo Bute si gettò per raggiungerle, ma Afrodite lo rapì e lo portò con sè.
Superate le Sirene, la nave incontrò Scilla e Cariddi e le Rocce Vaganti, sopra le quali si vedevano fiamme infinite e colonne di fumo.
La nave Argo giunse in Trinacria (l’odierna Sicilia), dove pascolavano le mandrie sacre al dio Helios, e quindi a Corcira, l’isola dei Feaci, dove gli eroi vennero accolti dal re Alcinoo e dalla regina Arete.
Un gruppo dei Colchi che inseguiva gli Argonauti, nel frattempo, raggiunse l’isola e reclamò la restituzione di Medea e del Vello d’Oro.
Il re Alcinoo rispose che se la fanciulla si era già unita a Giasone era giusto che stesse con lui; se invece era ancora vergine, l’avrebbe riconsegnata al padre. Arete, la sposa di Alcinoo, di nascosto dal marito, si ingegnò per far sposare Medea con Giasone nottetempo così che i Colchi non potessero accampare diritti di alcun genere.
Ripreso il viaggio, gli Argonauti naufragarono sulla costa libica[2] poi raggiunsero Creta, dove faceva buona guardia Talos, la sentinella di bronzo opera del dio Efesto.
L’automa, non appena avvistò la nave, iniziò a bersagliare l’equipaggio con pietre, ma Medea ingannò il mostro e lo addormentò con una pozione. La strega si avvicinò poi al gigante e tolse il chiodo che turava la sua unica vena, facendolo morire dissanguato.
Dopo aver sostato per una notte, gli Argonauti arrivarono a Egina per attingere acqua, poi fecero rotta per la Tessaglia.
[1] Risulta evidente che le conoscenze geografiche dei Greci del III secolo a.C. sulla parte occidentale del Mediterraneo fossero ancora approssimative.
[2] In terra africana persero la vita due degli Argonauti: Canto e Mopso.
7.
Giasone e Medea
Gli Argonauti giunsero finalmente a Iolco, dopo aver navigato in tutto quattro mesi. Nel frattempo, re Pelia, non immaginando che gli eroi sarebbero mai ritornati, aveva tramato per uccidere Esone. Quando Giasone arrivò e consegnò il Vello d’Oro, egli poté solo constatare che il malvagio zio gli aveva massacrato tutta la famiglia.
Fu Medea, ancora una volta, ad inventare un modo per far pagare a Pelia le sue colpe; la maga andò alla reggia di Pelia e convinse le figlie a tagliare a pezzi il padre e a farlo bollire, promettendo che con i suoi filtri l’avrebbe fatto tornare giovane; ne diede anche una valida prova facendo a pezzi un ariete, che ritornò un agnellino.
Ormai convinte, le ragazze smembrarono il padre ed iniziarono il rituale magico; quando esse constatarono che Pelia era ormai morto e che non sarebbe affatto risorto, era troppo tardi: al segnale convenuto, gli Argonauti erano entrati a Iolco prendendo possesso della città.
La popolazione fu tuttavia inorridita per l’orribile morte del loro sovrano; Giasone, allora, preferì rinunciare al trono in favore del cugino Acasto (figlio di Pelia), che aveva partecipato alla spedizione verso la Colchide.
Giasone e Medea vennero banditi da Iolco ed andarono in esilio a Corinto, dove vissero tranquillamente per dieci anni sino a quando Creonte, il re della città, non propose a Giasone un matrimonio con sua figlia Glauce (che alcuni mitografi chiamano anche Creusa);
il figlio di Esone ripudiò Medea per sposare la principessa, dimenticando l’antica passione e quanto egli doveva, nel successo della sua impresa, all’amore della giovane maga.
Medea chiamò a testimoni gli dei nel nome dei quali Giasone le aveva giurato fedeltà e lo accusò di ingratitudine; la maga concepì quindi una terribile vendetta[1]: ella inviò in dono alla sposa novella un peplo intriso di veleni. Non appena la giovane l’ebbe indossato, subito morì consumata da un fuoco violento e con lei il padre, che tentava di aiutarla.
Non contenta di questo atroce delitto, per soddisfare la sua ira ella trucidò barbaramente i figli che aveva avuto da Giasone; poi salì sul carro di Helios, trainato da draghi alati, e fuggì ad Atene, dove divenne l’amante del re Egeo e gli partorì un figlio, cui venne dato il nome di Medo.
In seguito, avendo macchinato contro la vita di Teseo, erede al trono di Atene, ella fu bandita dalla città e andò in esilio insieme al figlio. Medea tornò allora nella Colchide, da suo padre Eete (secondo alcune fonti, ella aiutò il padre a riprendersi il trono, che gli era stato sottratto dal fratello Perse).
E Giasone? Disperato per la perdita della novella sposa e dei figli, egli condusse il resto della sua vita solo e malinconico, anche se alcune fonti riportano che, con l’aiuto di Peleo, egli avrebbe riconquistato il trono di Iolco.
Sta di fatto che il figlio di Esone, avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, perse i favori della dea Hera e visse il resto della sua vita solo e infelice.
Si narra che egli trascorresse spesso i giorni e le notti vicino alla ormai fatiscente Argo, che gli ricordava le antiche glorie e le avventure del passato; mentre egli dormiva sulla poppa della nave, una notte la nave cedette e l’eroe rimase ucciso all’istante: malinconica fine, che spesso perseguita i grandi eroi del passato.
Termina così, con l’infelice sorte di Giasone, la saga degli Argonauti; molti dei reduci dall’impresa parteciparono anche alla cattura del cinghiale calidonio, una fiera che terrorizzava gli abitanti dell’Etolia.
L’animale venne ucciso da Meleagro, figlio di Oineo e fratello di Deianira. Al di fuori di tali epopee gli Argonauti si incontrarono ancora e non furono mai episodi pacifici: i Dioscuri Casto-re e Polluce si scontrarono con i loro cugini Ida e Linceo, uccidendosi a vicenda (sopravvisse il solo Polluce); Eracle si scontrò invece con Augia e Neleo, come si è visto nel Capitolo I.
Altri membri della spedizione, da ultimo, fu-rono ricordati anche come i genitori di valorosi combattenti che parteciparono alla guerra di Troia: è il caso di Peleo, Laerte, Oileo e Telamone.
[1] Gli eventi narrati ispirarono ad EURIPIDE la famosa tragedia “Medea”. Anche il latino SENECA dedicò alla figura di Medea un’opera teatrale.
di Daniele Bello
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