Il Vello d’oro – 1 di 3
L’impresa degli Argonauti
La saga degli Argonauti è una delle più antiche leggende della mitologia greca; le loro imprese sono citate dapprima nei poemi omerici e in quelli esiodei, per venire poi narrate in numerose opere dell’antichità classica.
Gli eruditi citano un componimento attribuito al leggendario Orfeo, andato perduto; a noi moderni sono giunte le Argonautiche del poeta greco Apollonio Rodio (che costituirà per noi la principale fonte di ispirazione per la narrazione) e l’Argonautica di Valerio Flacco.
Numerose citazioni sono presenti anche nei carmi di Pindaro, nei tragici greci, nelle Metamorfosi di Ovidio e nelle opere di Apollodoro e Igino.
1.
Frisso ed Elle
La storia degli Argonauti, narrata da poeti e cantori di tutte le epoche, è strettamente legata alla leggenda del Vello d’Oro, che rappresenta così l’antefatto di quanto andremo a raccontare.
Occorre sapere che tra tutti i figli di Eolo[1] vi fu Atamante, che regnò in Beozia e si unì in matrimonio con la dea Nefele (la “Nuvola”), da cui ebbe un figlio maschio, Frisso, ed una figlia femmina, Elle.
In seguito, tuttavia, il sovrano sposò Ino, figlia di Cadmo, che gli generò Learco e Melicerte (v. Capitolo II); come spesso capita nella favolistica antica e moderna, la matrigna concepì un odio profondo nei confronti dei figli di primo letto del marito e cercò di disfarsi della prole di Nefele.
La perfida Ino convinse così le donne della Beozia a far seccare tutti i semi di frumento e la terra, quell’anno, non diede il consueto raccolto di grano.
Atamante inviò allora a Delfi una sua delegazione, per chiedere al dio Apollo come allontanare la carestia, ma Ino convinse i messaggeri a riferire un falso responso: e così al figlio di Eolo venne riferito che la terra sarebbe tornata fertile solamente se Frisso fosse stato immolato.
Il re udì il responso e ne fu agghiacciato; non potendo esimersi dai suoi doveri di sovrano e messo sotto pressione anche dagli abitanti della regione, disperati per la carestia, egli acconsentì a portare suo figlio all’altare dei sacrifici.
Poco prima della celebrazione del rito, tuttavia, Nefele inviò un ariete alato, dal vello d’oro (dono di Hermes)[2], per salvare il fanciullo; Frisso ed Elle vi montarono sopra e l’animale si librò in cielo, superando terre e mari.
Quando l’ariete giunse sopra il tratto che separa l’Europa dall’Asia Minore, nei pressi del Chersoneso (corrispondente a quelli che oggi vengono chiamati gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli), Elle cadde negli abissi delle onde ed annegò in quel braccio di mare, che da allora venne chiamato Ellesponto.
Frisso invece raggiunse la Colchide, una terra ad oriente del Ponto Eusino (il Mar Nero) dove regnava Eete, figlio di Helios nonchè fratello della maga Circe e di Pasifae, futura moglie di Minosse.
Eete lo accolse con benevolenza e gli diede in sposa una delle sue figlie, Calciope. Frisso allora sacrificò l’ariete a Zeus protettore degli esuli e regalò il Vello d’Oro al suocero, il quale lo appese ad una quercia in un bosco sacro ad Ares, guardato a vista da un drago.
Di Ino ed Atamante, va aggiunto solamente che essi verranno colpiti dall’ira della dea Hera per aver allevato Dioniso, figlio di Zeus e Semele; la regina degli dei condusse alla follia il discendente di Eolo, che uccise il figlio Learco e costrinse la moglie Ino e l’altro figlio Melicerte a gettarsi in mare;
bandito dalla Beozia, Atamante su consiglio dell’oracolo di Apollo riparò in una regione ai confini dell’Ellade, che da lui prese il nome di Atamanzia.
2.
La stirpe reale di Iolco
La nostra storia si sposta quindi in Tessaglia, nella regione nord-orientale della Grecia, patria originaria degli Eoli. Un altro dei figli di Eolo, infatti, fu Creteo che sposò la nipote Tiro (figlia del fratello Salmoneo) ed ebbe tre figli: Esone, Ferete ed Amitaone; egli adottò anche i due gemelli che la moglie aveva avuto da una relazione con il dio Poseidone: Pelia e Neleo.
Creteo fondò la città di Iolco e ne divenne il sovrano, facendola diventare in breve tempo un centro fiorente; alla sua morte, lo scettro sarebbe spettato legittimamente al suo primogenito Esone, ma questi venne spodestato dal fratellastro Pelia.
Il nuovo sovrano regnò incontrastato per diversi anni ma, quando consultò un oracolo, gli venne profetizzato di guardarsi da un uomo con un solo calzare; il dio Apollo, inoltre, vaticinò che Pelia sarebbe stato ucciso da un discendente di Eolo.
Per questo motivo, il re di Iolco fece sterminare od esiliare chiunque avesse un rapporto di discendenza con il suo progenitore, ma risparmiò Esone perché era molto amato dalla loro madre comune.
Esone nel frattempo ebbe un figlio cui venne dato il nome di Diomede; per evitare l’ira di Pelia, il bambino fu segretamente trasportato fuori dal palazzo e affidato alle cure del centauro Chirone, che lo allevò e gli cambiò il nome in Giasone.
Un bel giorno, nella città di Iolco si tenne un grande sacrificio in onore di Poseidone; molti erano i partecipanti e tra di loro c’era anche Giasone che, per assistere al rito, si era recato in città e, nell’attraversare il fiume Anauro, aveva perso un sandalo nella corrente.
Vi è chi sostiene che Giasone avesse perso la calzatura aiutando una vecchia ad attraversare le acque fangose del fiume: sotto le vesti di quella povera donna si nascondeva in realtà la dea Hera, che da quel giorno divenne la protettrice del figlio di Esone.
Quando Pelia vide lo sconosciuto, si ricordò del responso del dio; egli si avvicinò a Giasone e gli chiese: “Se tu avessi il potere e ti venisse rivelato da un oracolo che uno dei cittadini ti ucciderà, che cosa faresti?”.
Forse per caso o forse perché ispirato dagli dei, il figlio di Esone così rispose: “Lo manderei alla ricerca del Vello d’Oro!”.
Subito Pelia approfittò delle parole del giovane e gli ordinò di andare a cercare quell’oggetto tanto prezioso: il figlio di Poseidone narrò di essere tormentato dall’ombra di Frisso, a cui mai era stata data degna sepoltura.
Pelia aggiunse che, secondo un oracolo, la terra tessalica sarebbe rimasta sterile sino a quando non fosse stato riportato in patria il vello, custode dell’anima di Frisso.
Solo quel punto, Giasone riconobbe nel suo interlocutore il re usurpatore e pretese il trono; Pelia promise così al figlio di Esone che, se questi avesse accettato l’incarico, gli avrebbe restituito la corona qualora fosse ritornato vittorioso dalla sua impresa.
[1] Figlio di Elleno e nipote di Deucalione, fu il capostipite di una delle stirpi elleniche (gli Eoli, appunto).
[2] Secondo altre versioni, ad inviare l’ariete fu Hera per affetto nei confronti di Nefele; le due dee, infatti, si somigliavano come due gocce d’acqua.
3.
Gli Argonauti
Per questa missione, Giasone chiese l’aiuto di Argo, figlio di Frisso; questi, su ispirazione di Atena, costruì una nave a cinquanta ordini di remi, che venne chiamata con il nome del suo costruttore. Atena stessa adattò alla prua una polena di legno parlante, fatta con una delle querce sacre di Dodona.
Giasone inviò quindi araldi in tutte le terre vicine chiedendo agli uomini più valorosi dell’Ellade di partecipare all’impresa. Molti furono gli eroi che si unirono alla spedizione cui venne dato il nome di Argonauti: per non fare torto a nessuno lasciamo direttamente la parola al poeta Apollonio Rodio, che li enumera uno ad uno:
“Io voglio qui dire la stirpe degli eroi ed il nome e i lunghi viaggi per mare, e tutte quante le imprese che essi compirono nel loro errare. Siano le Muse ministre del canto.
Primo fra tutti ricorderemo Orfeo, che un tempo Calliope, unita al trace Eagro, secondo quanto si dice, partorì presso il monte Pimpleo. Narrano che egli ammaliasse col suono dei canti le dure rocce dei monti e le correnti dei fiumi.
Subito accorse Asterione, a cui diede la vita Comete: abitava presso le acque del vorticoso Apidano, a Piresia, nei pressi del monte Filleo, là dove, venendo da molto lontano, s’incontrano e uniscono insieme il grande Apidano e l’Enipeo.
Venne dopo di loro da Larisa il figlio di Elato, Polifemo, che quand’era più giovane aveva lottato assieme ai forti Lapiti, al tempo che i Lapiti erano in guerra contro i Centauri: gli s’appesantivano già le membra, ma gli restava un cuore guerriero come in passato.
Né molto tempo rimase a Filace lo zio materno di Giasone, Ificlo: Esone infatti aveva sposato sua sorella Alcimede, figlia di Filaco, e la parentela lo spinse a unirsi anche lui alla schiera d’eroi.
E Admeto, signore di Fere ricca di greggi, neppure rimase colà, ai piedi del Calcodonio.
Non rimasero ad Alope i ricchissimi figli di Ermes, Erito ed Echione, abili, esperti d’inganni; e terzo con loro, quand’erano pronti a partire, s’aggiunse l’altro fratello, Etalide: a lui diede la vita, presso l’Anfrisso, Eupolemea di Ftiotide, figlia di Mirmidone, agli altri Antianira figlia di Menete.
E venne, lasciando la ricca Girtone, Corono, figlio di Ceneo, un prode guerriero, ma non migliore del padre.
E venne anche Mopso Titaresio, che più di tutti gli altri il figlio di Leto istruì nella scienza di trarre presagi.
Venne Euridamante, figlio di Ctimeno, il quale abitava Ctimene, città dei Dolopi, presso il lago Siniade.
Attore poi mandò da Opunte il figlio Menezio, perché partisse in compagnia dei nobili eroi.
Seguirono Eurizione ed il possente Eribote: di Teleonte era figlio il glorioso Eribote, Eurizione di Iro.
E terzo venne con loro Oileo, che fra tutti spiccava per il suo coraggio, esperto nell’inseguire i nemici dopo averne spezzato le file.
E dall’Eubea venne Canto, che Caneto, figlio d’Abante, mandò, compiacendo il suo desiderio: ma non doveva più tornare indietro a Cerinto, perché il suo destino, suo e di Mopso, l’eroe esperto dei vaticini, fu di ricevere morte, errando in terra di Libia.
Si unirono a lui Clizio e Ifito, signori di Ecalia, figli del terribile Eurito, al quale Apollo saettante donò l’arco, ma quello non trasse profitto dal dono, perché anzi di sua volontà osò sfidare il dio donatore.
E vennero anche i figli di Eaco, ma non insieme e non dallo stesso luogo; fuggiti lontano da Egina, giacché per errore uccisero il loro fratello Foco, Telamone abitava nell’isola di Salamina, Peleo aveva posto lontano la sua casa, nella fertile Ftia.
E venne anche dalla Cecropia il fortissimo Bute, figlio del prode Teleonte, e il valoroso Falero. Ma Teseo, che era il più grande fra tutti i figli di Eretteo, una catena invisibile lo tratteneva sotto la terra del Tenaro, poiché aveva seguito per un’inutile strada Piritoo. Entrambi avrebbero reso più facile a tutti l’impresa.
Tifi, figlio di Agnia, lasciò la terra tespia di Sife: era abilissimo nel sapere già prima i flutti del vasto mare, abilissimo nel sapere le tempeste di vento, nel guidare la rotta guardando al sole e alle stelle.
Dopo di loro venne Fliante, dalla città di Aretira; vennero poi da Argo Talao ed Areo, i due figli di Biante, il forte Leodoco e il nipote di Eolo, Melampo.
Non possiamo dire che il cuore magnanimo e forte di Eracle abbia deluso il desiderio di Giasone: quando ebbe notizia dell’adunanza di eroi, era tornato allora ad Argo portando con sé il cinghiale che pascolava presso la grande palude Erimanzia; entrò appena nella piazza della città di Micene e, contro il volere di Euristeo, si mise in cammino.
Andava in sua compagnia il giovinetto Ila, il suo valoroso scudiero; portava le frecce e custodiva il suo arco.
Dopo di lui venne Nauplio, discendente del nobile Danao. Fu ultimo Idmone, tra quanti abitavano Argo, e venne, pure sapendo dagli uccelli il proprio destino, per non perdere nulla della sua fama gloriosa tra il popolo.
L’Etolide Leda mandò da Sparta il valoroso Polluce e Castore, esperto di cavalli dai piedi veloci: li generò in una doglia sola dentro la casa di Tindaro, e li ebbe carissimi.
I figli di Afareo, il tracotante Ida e Linceo, giunsero dalla terra di Arena, entrambi superbi del loro immenso vigore, ma Linceo si distingueva per la vista acutissima.
Con loro si mise anche in cammino Periclimeno, figlio di Neleo, il più anziano dei figli che nacquero a Pilo da Neleo; il dio Poseidone gli diede una forza infinita e il potere di mutarsi in ciò che voleva, nella stretta della battaglia.
E dall’Arcadia vennero Amfidamante e Cefeo, che abitavano Tegea: un terzo eroe li seguiva, Anceo: lo mandò insieme ai due il padre Licurgo.
E venne Augia, che la fama diceva figlio del Sole; regnava sugli Elei, orgoglioso della sua ricchezza, ma forte era il desiderio di vedere la terra dei Colchi.
Asterio e Anfione, i due figli di Iperasio, vennero da Pellene d’Acaia.
Giunse dopo di loro, lasciando il Tenaro, Eufemo, il più veloce di tutti. Quest’uomo correva anche sopra le onde azzurre del mare, e non immergeva i rapidi piedi, bagnava soltanto la punta, e da sé lo portava la liquida via.
Vennero i due figli del dio Poseidone: Ergino dalla città dell’illustre Mileto; l’altro, il superbo Anceo, da Partenia.
Anche il figlio di Oineo si mosse da Calidone e raggiunse gli eroi, il forte Meleagro, e con lui Laocoonte, fratello di Oineo per parte di padre.
Lo zio materno lo accompagnò per la stessa strada, Ificlo, figlio di Testio, esperto nel giavellotto.
Venne con lui Palemonio, figlio di Lerno Olenio di nome, ma generato da Efesto.
Dalla Focide venne Ifito, figlio di Naubolo, figlio di Ornito.
Giunsero poi Zete e Calais, i due figli di Borea. Levandosi, entrambi scuotevano alle tempie ed ai piedi, dall’una parte e dall’altra, grande stupore a vedersi, ali nere lucenti di scaglie dorate, e sul dorso, dalla cima del capo e da ambo i lati del collo, s’agitavano ai soffi del vento le nere splendide chiome.
Non volle restare nella casa del padre neppure Acasto, figlio del re Pelia, né Argo, operaio di Atena, ma l’uno e l’altro andarono a unirsi allo stuolo d’eroi. Tanti compagni si radunarono dunque attorno a Giasone[1]”.
A comando della spedizione fu inizialmente proposto Eracle, ma il semidio rifiutò e propose la candidatura di Giasone che, benché giovane, aveva organizzato l’impresa.
Appena la nave ebbe preso il largo, gli Argonauti sacrificarono due buoi ad Apollo; alcuni degli eroi, inebriati e resi violenti dalle libagioni, stavano per venire alle mani e avrebbero così compromesso l’esito del viaggio, ma Orfeo placò gli animi dei compagni con il dolce suono della sua lira.
[1] Altre fonti (APOLLODORO) riferiscono che alla spedizione parteciparono Tifi, figlio di Agnio, che tenne il timone della nave; Orfeo, figlio di Eagro; Zete e Calaide, figli di Borea; Castore e Polideuce, figli di Zeus; Telamone e Peleo, figli di Eaco; Eracle, figlio di Zeus; Teseo, figlio di Egeo; Ida e Linceo, figli di Afareo; Anfiarao, figlio di Oicleo; Ceneo, figlio di Corono; Palemone, figlio di Efesto o di Etolo; Cefeo, figlio di Aleo; Laerte, figlio di Arcisio e futuro padre di Odisseo (Ulisse); Autolico, figlio di Ermes; Atalanta, figlia di Scheneo; Menezio, figlio di Attore; Attore, figlio di Ippaso; Admeto, figlio di Ferete; Acasto, figlio di Pelia; Eurito, figlio di Ermes; Meleagro, figlio di Eneo; Anceo, figlio di Licurgo; Eufemo, figlio di Poseidone; Peante, figlio di Taumaco; Bute, figlio di Teleone; Fano e Stafilo, figli di Dioniso; Ergino, figlio di Poseidone; Periclimeno, figlio di Neleo; Augia, figlio di Elio; Ificlo, figlio di Testio; Argo, figlio di Frisso; Eurialo, figlio di Mecisteo; Penelo, figlio di Ippalmo; Leito, figlio di Alettore; Ifito, figlio di Naubolo; Ascalafo e Ialmeno, figli di Ares; Asterio, figlio di Comete; Polifemo, figlio di Elato.
di Daniele Bello
Grazie , ora posso leggermi la storia degli argonauti , seduto tranquillo in casa