TEZAN FARTHAN – la via del Genio
Aveva tanti nomi, il suo popolo, ma per lei erano semplicemente i Rasna. Quella dove Larthia viveva era una delle terre più ricche che fossero mai esistite, invidiata da tante altre civiltà.
Granaglie, viti e ulivi prosperavano nel terreno fertile; tanti buoi e perfino cavalli pascolavano in allevamenti ben organizzati. I boschi rigogliosi davano selvaggina in abbondanza e legname in quantità. Il lago pullulava di un’infinità di pesci, e uccelli acquatici di tutti i tipi costruivano i loro nidi tra i canneti delle rive. Chi abbracciava con lo sguardo quel panorama rimaneva senza fiato tanto i colori intorno erano vivi e pulsanti.
Nel passato Bisenzio era un piccolo insediamento di capanne, ma adesso era diventata una vera città e non erano rare le case quadrangolari in muratura; la popolazione aveva raggiunto le sessanta mila unità e si trovavano perfino maestri di pittura e scultura che avevano scelto di stabilirsi definitivamente lì per la grande richiesta.
La casa di Larthia era moderna e arredata con raffinati manufatti orientali. Figlia di un vasaio molto affermato, aveva ricevuto un’educazione approfondita e si dedicava alla musica con tale passione da averla resa la sua professione. I Rasna erano abituati ad accompagnare ogni azione quotidiana con la musica, la usavano perfino durante la caccia o le esibizioni di pugilato, e non mancavano gli eventi pubblici o privati dove erano richieste le sue prestazioni. La lira e l’aulos erano le sue specialità.
Tra due giorni si sarebbe svolta l’annuale cerimonia per celebrare la primavera in onore della dea Voltumna, colei che tutto decide. Banchetti, giochi, gare atletiche e spettacoli si sarebbero susseguiti per cinque giorni. E l’isola Bisentina, che ospitava il santuario della Lega delle Dodici Città, sarebbe stata affollata di persone provenienti da ogni angolo della Tuscia, venute per accompagnare i loro rappresentanti alla rituale adunanza. Era una gran fortuna che l’evento più importante per i dodici popoli si tenesse proprio lì, a pochi minuti di piroga da casa sua.
Non è una semplice terra, è una benedizione degli Dei, pensava commossa la ragazza mentre le sue dita pizzicavano le corde. Stava seduta su un gradino davanti casa, e quella mattina di marzo inoltrato un tiepido sole sorto da poco faticava a riscaldare l’aria ancora pungente.
“Larthia!”
Si avvicinava quasi correndo la sua amica dal sorriso sincero, i capelli neri, lunghi e setosi sobbalzavano a ogni passo spargendo nell’aria una avvolgente fragranza di zafferano. Attirava l’attenzione di tutti, e la cosa non le dispiaceva, se fosse stato diversamente non avrebbe potuto essere la migliore danzatrice di tutti i villaggi intorno al lago.
“Thanakvil, così mattiniera? – esclamò Larthia smettendo di suonare.
“Non sto più nella pelle, tu non sei emozionata? – la invitò ad alzarsi tendendole la mano – Indovina? Mio padre mi lascia la piroga!”
“Magnifico! Cosa aspettiamo allora? Prendo le mie cose e ti seguo.”
I cuori di entrambe mossi dallo stesso entusiasmo; le attendeva un’intensa giornata di ripasso e di allenamento. Le coreografie che avrebbero portato alla cerimonia dovevano essere perfette.
La piroga, ricavata da un unico tronco di faggio scavato con il fuoco e rifinito a scalpello, era semplice ma elegante allo stesso tempo, ed era abbastanza lunga da accoglierle comodamente entrambe. Come era stato insegnato loro, prima di prendere posto invocarono Urcla, antica divinità del lago, chiedendo la sua benedizione.
Il legno scivolava sull’acqua limpida e calma. Thanakvil era esperta a condurre la piroga, aveva fatto ormai decine di volte il tragitto che portava all’isola Bisentina. I suoi occhi castani, valorizzati da una spessa riga nera di pigmento secondo la moda orientale, erano stretti per difendersi dal riverbero dell’acqua.
Dietro di lei Larthia, con gli occhi chiusi e la felicità nel petto, respirava a pieni polmoni, i suoi lunghi ricci color castagna cavalcavano la brezza pungente.
Sotto lo scafo banchi di pesci si rincorrevano ebbri di vita; oltre le nuvole le prime rondini ricamavano il cielo. Le due amiche scivolavano sospese sulla loro libertà, quella libertà di cui poche donne fuori dall’Etruria potevano godere.
In breve tempo arrivarono all’isola. Si portarono fin sotto lo sperone roccioso ai piedi del quale si apriva un piccolo antro e assicurarono la piroga al tronco di un cespuglio.
Gettarono una presa di sale nell’acqua alle loro spalle, per scoraggiare i geni malvagi, poi accesero la torcia ed entrarono nella grotta. Procedevano spedite, conoscevano la strada. Fecero scorrere di lato una lastra ben mimetizzata con la roccia circostante che occludeva un passaggio grande come una piccola finestra. Si calarono dentro e Larthia chiuse l’apertura dietro di sé rimettendo la lastra al suo posto.
Scesero i gradini a ridosso del piccolo ingresso e lasciarono la torcia in una nicchia apposita, non serviva più, dato che lungo le pareti delle piccole torce diffondevano una luce azzurrina. Avanzarono decise lungo l’ampio corridoio scavato nella pancia della Terra. Maioliche con raffinati motivi geometrici rivestivano il pavimento e bassorilievi dai colori sgargianti adornavano le pareti. Aquile, cavalli alati e tritoni, del tutto simili a quelli che i pittori di Bisenzio riproducevano nei loro affreschi, si susseguivano in una spessa fascia in alto, subito sotto la volta.
“E se fossero gli Dei in persona? – esclamò Larthia senza rallentare.
“Ancora che insisti! Anch’io lo credevo all’inizio, ma poi mi hanno spiegato bene le loro origini. Non sono Dei, ma come noi appartengono a loro, in qualche modo siamo fratelli. La loro conoscenza così vasta e la loro raffinata saggezza sono doti che hanno appreso dagli Dei, questo sì… e che noi impariamo da loro” rispose Thanakvil con una punta di orgoglio.
Larthia lo sapeva, per quanto bizzarre potessero apparire, le storie tramandate dai saggi non erano frutto dell’immaginazione. La lingua che parlavano ogni giorno e la scrittura, la disciplina che permetteva di interpretare il volere degli Dei leggendo i fulmini e il volo degli uccelli, questo e molto altro era stato trasmesso loro dal magnifico popolo che entro pochi minuti le avrebbe accolte.
In un lontano passato gli Agarthiani vivevano in superficie insieme alla sua gente, le relazioni tra loro erano solide e il loro sapere veniva tramandato alla luce del sole. Con il passare del tempo, però, l’abbondanza partorì nel cuore delle persone le sue figlie degeneri: avarizia, ignoranza e stupidità. Così gli Agarthiani avevano scelto di celare la loro presenza, ritirandosi a vivere nelle viscere della terra in un mondo sotterraneo che nulla aveva da invidiare a quello in superficie.
Gli Agarthiani però non intendevano abbandonare a sé stessi gli esseri umani, continuarono a portare il loro messaggio di pace e armonia tramite il contatto diretto con persone pure di cuore e meritevoli, delle quali potevano fidarsi, e alle quali affidare un incarico che creasse valore nel mondo.
I primi umani a godere di un contatto privilegiato furono gli apicoltori, custodi di vita. Poi fu la volta dei maestri, degli artigiani e degli artisti; Thanakvil e Larthia erano tra questi, e la loro missione era portare armonia, gioia e energia vitale con la musica e la danza.
Alla fine del corridoio un’inferriata sbarrava un salto vertiginoso non tanto per l’altezza dell’abisso, quanto per la sua innaturalezza. Verso il basso si apriva il cielo azzurro e la luce intensa del sole, ma in alto si potevano vedere colline, boschi, campi e fiumi rovesciati a testa in giù. Uno spettacolo al quale non ci si abituava mai.
Thanakvil suonò energicamente una campanella fissata alla parete. Dopo pochi secondi una voce chiese “chi è?” in una lingua molto simile alla loro. Le ragazze scandirono urlando i propri nomi, con il cuore in gola per l’eccitazione.
“Bentornate! Preparatevi – le invitò la voce.
Sapevano bene cosa fare ma era tutto così bizzarro che le mani sudavano dall’emozione.
Si arrampicarono sulla grata, e quando furono arrivate in cima portarono i piedi il più possibile vicino alle mani, poi urlarono alla voce che erano pronte.
Sentirono il lieve ronzio, e avvertirono il peso spostarsi dalle gambe alle braccia e alla testa. Le loro chiome cascarono verso l’alto si trovarono a testa in giù; gradualmente lasciarono andare le gambe tornando in posizione allungata e si lasciarono cadere su una piattaforma che, con un sibilo, si era posizionata a pochi centimetri sotto il loro piedi.
Dopo il salto si misero a ridere divertite e aspettarono che la piattaforma le condusse al livello del suolo.
Un Agarthiano con un sorriso serafico le salutò inchinandosi con le mani giunte davanti al petto e fece strada lungo un sentiero sterrato.
Attraversarono una radura e arrivarono all’albero-fonte. Nel mezzo di un laghetto vegetava una maestosa quercia dalla cui chioma sgorgavano un’infinità di rivoli d’acqua che cadevano tutt’intorno generando uno stagno. Da qui nascevano i quattro fiumi principali di Agartha, era il luogo sacro per eccellenza. Intorno al tronco dell’albero un grande anello di soffice prato accoglieva le scuole delle quattro arti: pittura, poesia, musica e danza. Era il luogo dove l’Arte nasceva e si perfezionava, e Larthia e Thanakvil avevano un posto d’onore.
In riva allo stagno l’accompagnatore si congedò da loro. Le amiche saltarono sul sentiero di pietre che affioravano dall’acqua e raggiunsero i maestri. La coppia se ne stava in piedi sorridente nei loro lunghi chitoni color corda: la donna teneva le mani infilate nelle ampie maniche e aveva il capo coperto da un telo turchese, il marito con un mantello rosso sulle spalle si accarezzava la lunga barba bianca acconciata con fini treccioline. Sarà stato per la loro statura, che superava del doppio quella dei Rasna, come tutti gli Agarthiani, per la loro pelle color avorio, o per la durata estremamente lunga della loro vita, ma incutevano una sorta di timore reverenziale.
Immediatamente le ragazze si erano fatte serie, consapevoli della loro missione. Erano lì per dare gli ultimi ritocchi alla coreografia che allenavano da mesi. Larthia impugnò l’aulos, mentre Thanakvil infilava ai polsi i crotali e si riscaldava i muscoli.
Era chiesto loro di concentrarsi al massimo, non era semplice realizzare una danza gradita agli Dei. In passato era accaduto che, in seguito a esibizioni mediocri, i villaggi del lago avessero subìto annate funeste. Gli Dei erano suscettibili e permalosi, soprattutto Horta, la dea dell’agricoltura, i cui capricci potevano avere conseguenze catastrofiche. La responsabilità delle artiste, durante la cerimonia, era molto grande.
Gran parte della giornata era trascorsa, quando Thanakvil diventò insicura e distratta.
“Cosa ti preoccupa, Thanakvil? Non ti vergognare, vediamo che il tuo cuore è oscurato” chiesero i maestri.
“Gli Dei …– spiegò mortificata la danzatrice – so che loro ci osservano, ma vorrei poter essere io, per una volta, a vedere loro.”
Larthia sgranò gli occhi e la guardò con fare di rimprovero, ma l’amica continuò.
I maestri la osservarono attentamente e con un cenno del capo la invitarono a proseguire.
“So che sembra superbo, e che la maggior parte di loro detesta essere visti da noi, ma per me sarebbe importante. Gli anni scorsi abbiamo ottenuto ottimi risultati, lo so, ma sento che potrei dare il meglio di me se potessi vederli come succede con gli altri spettatori. Sarei più … sicura.”
“Molto audace, piccola Rasna. Fammi consultare con gli altri. Intanto continuate a ripetere, tra non molto calerà il sole sulla superficie, non abbiamo molto tempo.” Detto ciò i Saggi si ritirarono dentro il tronco del grande albero.
“Ma che ti salta in testa! Non è questo il momento di farsi prendere dalla paura. Loro sono in contatto diretto con gli Dei, lo sai, magari…magari ti hanno sentita dire queste cose – Larthia non seppe resistere al fare una ramanzina.
“Calmati, in fondo è grazie a loro se abbiamo questa opportunità per migliorarci, quindi in qualche modo ci stanno già proteggendo, no?”
“Non sentiamo il flauto” la voce lontana del maestro le richiamò al loro dovere.
Recuperarono la concentrazione e si rimisero al lavoro.
Dopo un tempo che sembrava non finire mai, gli Antichi si palesarono innanzi a loro.
“Vi confesso che è stato difficile raggiungere un accordo su cosa fosse giusto fare, ma siamo arrivati a una conclusione – disse l’uomo, lisciandosi la barba.
La moglie si avvicinò alle ragazze e porse un pendente a ognuna. Una magnifica acquamarina per Larthia e un lapislazzulo con bagliori dorati per Thanakvil.
“Indossateli soltanto durante la cerimonia, sono protetti da un incantesimo che renderà il vostro potere nascosto agli occhi degli Dei. Mi raccomando cercate di non tradirvi, non dovete mai guardarli negli occhi, sanno di essere invisibili, e se voi dimostraste di poterli vedere, l’incantesimo a protezione degli amuleti sarebbe del tutto inutile. Nessun altro oltre voi deve indossarli, o le conseguenze sarebbero molto gravi – la voce del maestro risuonava decisa – Siamo sicuri che farete un magnifico lavoro. Adesso andate e buona fortuna.”
Le ragazze presero in custodia i talismani, ringraziarono e si inchinarono riconoscenti verso i maestri. Poi furono scortate di nuovo alla piattaforma, dalla quale fecero il percorso a ritroso. Erano entrambe stanche e taciturne, per l’ansia dovuta alla responsabilità.
“Non so spiegarti perché, ma in qualche modo sento che è importante, anche se penserai che sono sciocca.”
“Assolutamente no, anzi, scusami per prima, ho avuto paura. In fondo anche io ho sempre desiderato vederli. – ammise Larthia – I maestri nutrono molta fiducia in noi, dobbiamo impegnarci al massimo per non tradirla.”
All’uscita dalla grotta salirono sulla piroga senza perdere altro tempo. Stralci di nuvole tappezzavano il cielo, e dagli squarci lame infuocate di sole morente bruciavano l’orizzonte. Difficilmente il tramonto poteva essere più bello di così, bagnato dal lago di Bolsena.
Il momento dei festeggiamenti era arrivato. Il primo giorno era quello più importante; l’apertura della cerimonia meritava le attenzioni maggiori.
Sull’isola la grande radura che circondava il santuario brulicava di una folla variopinta e indaffarata. Perfino il bosco di lecci tutto intorno vibrava delle voci dei suoi abitanti, che correvano e saltavano in preda a una strana euforia.
All’alba il sommo augure declamò pubblicamente la previsione per l’anno a venire, poi i dodici lucumoni presero posto nel tempio insieme ai sacerdoti e si consultarono per breve tempo. Le faccende diplomatiche erano sempre molto veloci tra i Rasna, anche loro erano impazienti di partecipare ai festeggiamenti che si aprirono immediatamente dopo.
Prelibatezze di ogni tipo erano apparecchiate su lunghe tavole a disposizione di tutti. L’arena ospitava sfide di pugilato e lotta, e su un grande palco si susseguivano rappresentazioni di satire e danze armate.
Nell’aria rimbombavano i colpi profondi delle percussioni, il più argentino tintinnio dei crotali ritmava gran parte dei movimenti e melodie di flauto accompagnavano i giochi e le sfide agonistiche.
Larthia, vestita di una tunica sobria bordata di rosso e adornata solo dal suo pendente, era sistemata su uno sgabello con l’aulos in mano e la lira al suo fianco.
Thanakvil, splendida, sembrava brillare nel suo abito azzurro rifinito di argento. Spalle e braccia scoperte, la vita stretta da una cintura dorata sotto la quale una gonna di lunghi veli separati lasciava vedere le gambe ad ogni movimento. Delle cavigliere con sonagli metallici accentuavano ogni suo passo e numerosi bracciali tintinnavano ad ogni spostamento delle braccia. Le labbra dipinte di un rosso vivace e dei bellissimi pendenti d’oro ai lobi delle orecchie. Il lapislazzulo appeso al collo, a valorizzare la scollatura, era perfettamente in tinta con il vestito. La moda greca voleva che le ballerine portassero i capelli raccolti, ma Thanakvil amava usare la chioma corvina a mo’ di mantello.
Le divinità erano abilmente camuffate tra le persone comuni, tanto che agli occhi di tutti non vi era nulla di strano. Quelli che si palesavano come anonimi uomini e donne che prendevano parte a giochi, danze e banchetti si rivelavano, agli occhi delle portatrici degli amuleti, per quello che realmente erano, grazie alla visualizzazione degli attributi propri di ciascuna divinità. Le ragazze infatti individuarono subito le presenze divine, e il loro cuore prese a battere all’impazzata dall’eccitazione. Quello che si presentava ai loro occhi fu qualcosa di unico.
La coppia regale Uni e Tinia, seduti vicino a Voltumna, conversavano serenamente davanti a un pasticcio di cinghiale al miele. Thanakvil li aveva sempre immaginati assisi su in trono, alteri, ma quello che vedeva oltrepassava ogni aspettativa.
Feronia, dea della natura e delle bestie, danzava in coppia con un uomo dalla barba e i capelli di foglie, Selvans, e a ogni salto si assicurava il copricapo cornuto sulla testa. Fufluns con il naso rosso e un largo sorriso barcollava al ritmo della musica rovesciando vino su chi gli capitava a tiro. Volevano solo divertirsi, come loro.
Larthia, sbalordita, si osservava intorno mentre suonava. Quel giovane seminudo armato di tutto punto che fomentava i giocatori di astragali non poteva che essere Laran, che invece della guerra portava la competizione sportiva, cercando di coinvolgere Taitl, il dio ingegnere preso da chissà quale calcolo.
Appena calò il sole si presentarono Losna e Artume, la Luna e la Notte, si misero in prima fila ad ammirare estasiate Thanakvil, vagamente contrariate per il suo abito che sembrava voler competere con loro. La ragazza con grandissima difficoltà continuò a volteggiare facendo finta di niente.
Sethlans si divertiva a mettere un po’ di pepe tra i giocolieri facendo sollevare alte fiamme durante i loro esercizi.
Poi arrivò Turan, splendida dea dell’amore, scortata dalle Lase, patrone delle arti, che abbracciarono le due amiche in un girotondo danzante tra risolini e schiamazzi. La dea raggiunse la ballerina e avviò con lei dei magnifici passi a due.
Larthia sentì che stava sul punto di commuoversi. Thanakvil si muoveva flessuosamente carica di un’energia mai avuta prima, e sul viso aveva il sorriso più bello di sempre.
Quel sorriso colpì un ragazzo tra la folla; era di media statura, con il pizzetto grigio e gli occhi sinceri. Non riusciva a toglierle lo sguardo di dosso.
“L’hai notato? – chiese Larthia quando si concessero una breve pausa.
“Non so chi sia, ma … sì”
Il ragazzo si fece avanti.
“Mi chiamo Velthur. Complimenti – balbettò a bassa voce – vorrei sapere come fai”, il rossore sulle sue guance mostrava un cuore puro.
Thanakvil sorrise e il suo sguardo cascò sulle braccia di lui: numerosi pizzichi rossi le martoriavano. Si bloccò un attimo colta da un’illuminazione, poi lo fissò intensamente negli occhi e rispose
“Proprio come fai tu, seguo la Via del Genio.”
Adesso fu lei ad arrossire. Gli strinse le mani come se lo conoscesse da sempre e si congedò con gli occhi che brillavano.
“Turan! Smettila di importunare questi poveretti” tuonò una voce maschile. La dea, sgomenta, a bocca spalancata con il naso gocciolante di vino e il vestito macchiato, imprecò furente contro Fufluns.
“Sempre il solito zotico!”
Larthia soffocò a stento una risata; Thanakvil, completamente catturata dall’apicoltore, non si era accorta di nulla. La povera Turan era fuori di sé e fu necessario l’intervento di Menrva, dea della saggezza, per placarla.
La festa andò avanti fino all’Alba, più che altro per aspettare la dea Thesan, solita ritardataria.
Fu un successo per tutti, Rasna e Dei. Thankvil e Larthia si esibirono al massimo delle loro abilità, assicurando anche per l’anno seguente la benevolenza delle divinità.
Ispirato alla leggenda per cui sull’isola Bisentina si aprirebbe uno dei passaggi per Agartha, regno sotterraneo descritto in “Il Dio Fumoso” di W. G. Emerson.
Il racconto “Tezan Farthan – la via del Genio” ha ricevuto l’encomio del Presidente del Premio Letterario Nazionale Città di Viterbo Tuscia Libris 2ª Edizione
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