Strane presenze
La dimora avita della famiglia Strafford si ergeva imponente su una piccola collina ai margini di una vasta pianura attraversata da un ruscello che scendeva ripido dalle non lontane montagne. Come in tutti i castelli, l’ingresso era il ponte levatoio che sovrastava un fossato. Il retro confinava con l’inizio di una folta boscaglia che proseguiva fino ai piedi dei monti.
Teatro di scontri e d’assedi aveva vissuto la sua stagione d’oro fra la fine del XVII/ e il XVIII secolo. Passato il momento storico le varie generazioni che si erano succedute nella conduzione della dimora avevano portato il maniero verso un degrado inesorabile.
Oggi il castello è meta di visite da parte di turisti frettolosi e di scolaresche distratte, l’intero complesso è passato in proprietà allo Stato che ha pensato bene di sfruttare la situazione aprendolo al pubblico. L’unico inconveniente per l’amministrazione è stato una clausola inserita nel contratto d’acquisizione che prevedeva la presenza sine die, dell’ultima discendente della famiglia, la contessa Clara.
Questa non aveva voluto lasciare la sua casa, riservandosi l’usufrutto di una piccola parte degli appartamenti nell’ala destra , quella che dava sul retro con la vista del bosco poco distante e le montagne dietro a fare da scenografia.
La donna ormai quasi novantenne voleva morire fra le mura amiche aiutata dal suo fedele maggiordomo Arthur, anche lui molto avanti con gli anni.
La loro vita si svolgeva a ritmi lenti e riservati, un incaricato del comune si preoccupava di rifornire del necessario la loro cucina e il servitore si incaricava di preparare il necessario alla sopravvivenza.
Lui, in pratica, viveva in cucina e dormiva in una camera attigua, mentre la padrona aveva due camere al piano alto e l’intera torre a disposizione. Isolati dal mondo i due vivevano in simbiosi l’uno dell’altra, non potevano immaginare una vita diversa da quella che conducevano.
Come tutti i pomeriggi, Arthur era seduto in cucina con il bricco dell’acqua sul fornello, il vassoio con le sei tazze pronte allineate, la zuccheriera e il piattino con i pasticcini. Aspettava il gracchiare del cicalino che l’avvisava di poter servire il tè. Puntuale come un cronometro, lo sportellino con il numero 22 si attivò ed emise quel suono sgraziato che lo richiamava al dovere.
La sua faccia impassibile non si mosse mentre versava l’acqua in una delle tazze per preparare il tè, le altre restarono vuote, sul vassoio d’argento Sheffield. Terminata l’operazione, il maggiordomo prese il vassoio e ondeggiando sulle gambe malferme si avviò verso le scale tenendo in bilico il vassoio con tutto il suo contenuto.
“Buon pomeriggio milady”, disse entrando nella stanza e posando il vassoio su un piccolo tavolino davanti il grande divano, sul quale era seduta la nobildonna
“Grazie Arthur, servi pure, i miei ospiti sono impazienti di assaggiare la tua specialità. Ho detto loro che questo tè viene direttamente dai nostri possedimenti in India, è una qualità rara e si coltiva solo in quella zona che è di proprietà della nostra famiglia. Avrai portato anche gli squisiti pasticcini che sai fare solo tu, vero?”
“Certo, madame, non avrei potuto fare altrimenti, sono a conoscenza dei gusti dei suoi ospiti e mi sono sforzato di essere all’altezza della situazione”.
“Sei troppo modesto, caro Arthur, conosciamo tutti il tuo senso del dovere e il tuo attaccamento alla famiglia, senza di te sarei persa. Bene, allora se hai servito tutti, puoi servire anche me, oggi le mie ossa fanno i capricci e una buona tazza di tè sarà un vero toccasana”.
Arthur versò il tè nella tazza della signora e fece finta di versarlo anche nella altre. Porse la tazza piena e rimase in piedi, in attesa che la sua padrone finisse di sorbire la bevanda.
Sentiva sempre di più dolore alle gambe, fare quelle scale infinite volte al giorno stava diventando una vera tortura per lui, ma sapeva bene che non c’erano alternative, il suo destino era legato alle stramberie di quella povera donna, sull’orlo della demenza senile.
La signora immaginava che nel suo salotto venissero a trovarla a turno i parenti ormai defunti da tempo e gli amici di sempre, defunti anche loro.
La cerimonia del tè non era la sola a cui si sottoponeva per compiacere l’anziana donna. Molte volte doveva approntare un pranzo, o una cena, all’improvviso milady chiamava e ordinava il pranzo per dodici persone, toccava a lui apparecchiare in pompa magna la tavola con tutti i servizi di piatti, bicchieri e posate per dodici, fortunatamente il cibo poteva evitarlo e preparava il menù solo per la donna e per lui. Lui, però, il suo pasto lo consumava nella cucina, come si conviene ad un maggiordomo.
Era ancora in piedi, mentre la signora aveva iniziato una fitta conversazione con alcuni dei suoi ospiti, si era immersa nel dialogo dimenticandosi del tutto del povero maggiordomo che adesso sul serio cominciava a tentennare sulle gambe malferme.
“Come le dicevo caro duca, lei ha ragione, sua maestà è davvero troppo indulgente con le popolazioni locali, laggiù in India il popolo è davvero ingrato, con tutto quello che stiamo facendo per loro, gli stiamo portando la civiltà, il progresso e quelli per riconoscenza si ribellano, inaudito”.
“Madame Janet, non verrà al ballo di corte? Non mi dica. È una vera jattura, se non viene lei non vado nemmeno io, mia cara, lei è la sola che vale la pena di vedere in quei balli noiosi”.
Arthur, al limite delle forze, tossicchiò per richiamare l’attenzione della milady che come d’incanto si accorse di lui.
“Scusa Arthur, hai ragione, sono proprio una sbadata, puoi sparecchiare e ritirarti, io intratterrò ancora un po’ gli ospiti. Dopo che saranno andati via farò un riposino fino ad ora di cena, forse non mangerò questa sera, questo tè e i tuoi fantastici pasticcini sono stati sufficienti, nel caso ti chiamerò per una cena frugale. Addio caro!”
Arthur si affrettò a liberare il tavolo, prese il vassoio e allungando il passo strascicato si allontanò. Era sicuro che la serata fosse finita, poteva finalmente riposarsi. Dopo la cerimonia del tè, tutte le volte la dama si addormentava e non la risentiva fino al mattino successivo.
Tornato in cucina rimise in ordine le tazze. Lavò l’unica che era stata usata, ripose i biscotti nella scatola di latta per non farli deperire e tolte le scarpe si allungò sul divano che aveva fatto mettere nell’enorme cucina.
Era stanco, disperava di poter continuare ancora per molto quella pantomima, la donna era fuori di senno e lui, se continuava a starle dietro, correva lo stesso rischio.
Non voleva certo la morte della vecchia aristocratica, era stata una buona padrona anche se un po’ sopra le righe per la sua eccentricità, non si poteva lamentare, aveva avuto anche lui i suoi giorni buoni. Ora la vecchiaia doveva dividerla con le bizze della donna e dei suoi immaginari compagni.
Prima di addormentarsi nella sua mente prendevano forma le strane presenze che alimentavano, la fantasia della sua padrona; fantasmi di personaggi che lui aveva conosciuto e servito per molti anni.
Doveva convenire con la padrona, però, che madame Janet era sempre una bella donna, l’aveva vista prima in salotto ed era davvero in splendida forma.
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