Salvador Dalì e il corpo martoriato del Genio
La ricerca artistica di Salvador Dalì è stata quella della bellezza assoluta, mediante la somma esaltazione del genio.
Può sembrare strano, viste le immagini inquietanti con cui ha animato i suoi dipinti; ma non ha adorato la Venere divina e risplendente, piuttosto la statua mozzata della Venere di Milo, poiché in quella drammatica incompiutezza ha trovato l’arbitrio di ogni possibile invenzione.
La sua lucida follia non si è fermata sulla copertina patinata dell’estetica, né ha aspirato al conforto del sogno spirituale, ma ha cercato altro: il martirio artistico da cui ha inteso trarre una rinascita inconsueta.
Non è stato compassionevole, Dalì, men che mai con se stesso; e in fondo è questa la sua crudele bellezza, potrei dire il suo glorioso errore.
Ha cercato il senso ultimo dell’arcano esistenziale nel pathos sovrano: non ha odorato la rosa, tanto elevata da parere un miraggio, ma ha affrontato le spine, più vicine alla Terra, esponendo i propri punti più sensibili con l’orgoglio di un martire auto-santificato.
Si è volontariamente crocefisso sull’asse verticale dell’Arte, come il Cristo di un suo famoso quadro, ma approfondendo l’abisso ed esibendo narcisisticamente le ferite pullulanti della propria immaginazione.
Da tale posizione estrema ha indagato gli anfratti oscuri ed eversivi della psiche, ponendo i fantasmi dell’inafferrabile in piena luce; questi sono inchiodati alla tela, rantolano negli spasmi a loro inflitti dall’esposizione impudica allo sguardo, perché il pittore ha dissipato le nebbie in cui si agitavano imprendibili e soggetti ad evoluzione.
Salvador Dalì ha pietrificato il mercurio dei filosofi, per eviscerarlo.
Che vi ha trovato?
Germi mitologici al momento della muta, fermentazioni erotiche subliminalmente paranoiche, discordanze di saggezza, eroismi illogici e funesti.
Tuttavia il pittore cercava un diverso e più alto disegno, scendendo agli inferi con totalità per far sì, come disse lui stesso, che la sua mano fosse guidata da un angelo.
Se è vero che il Divino s’incontra più facilmente guardando con intensità nei recessi della Vita, che non nell’astrazione volta idealisticamente al Cielo, è anche vero che in questo si deve trascendere se stessi, divenendo pienamente empatici.
Invece Dalì era traboccante di sé, ma è stato comunque premiato, investito dalla luce fosforica dell’Angelo Caduto. Dico questo su un profilo affatto religioso, bensì puramente simbolico e misterico: è di Lucifero una luminosità impietosa, che espone forzosamente senza l’abbraccio, quindi senza possibilità di comprensione.
Così è anche il caso di una spaziosità glaciale e metafisica della solitudine, moltiplicata sistemicamente per contenere il distacco sprezzante dell’ego.
L’artista ha esemplificato tutto questo al più alto grado, applicando a dismisura una galleria di specchi distorcenti in cui compiacersi degli ingegni ossessivi della mente.
Luciferina è infatti la natura delle sue contemplazioni, un voler farsi Dio arbitro dell’accadere; con tale orgoglio ci ha mostrato il capriccio di leggi cosmiche trascendenti, così come ha potuto intenderle facendosi, più che uomo, artista.
Ma a mio parere è rimasto uno spettatore soverchiato, attirato per gravità nel baratro caotico della creazione; in ciò si è difeso, con innegabile genio, a colpi di pennello, facendosi scudo dipingendo le immagini dell’Ombra. Con più umiltà si può lasciarsi portare nel gorgo, sino al non-essere; quando l’artista è scomparso, si sprigiona il profumo della rosa.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.