Riflessi di nulla
Tagliente.
Lassù in alto, sotto un nero di velluto sporco, le guance arrossate, irritate dal vento gelido che puzzava di fumo.
Luci e nastri di finto argento. Per questo lo abbiamo fatto?
Registrazioni, finzioni di musica e canti.
Per questo tanto sacrificio?
Frenetico guizzare di allegre fiammelle e ritmico lampeggio di automobili.
Qual è la differenza?
Il vento spingeva come un bambino ansioso di salire sulle giostre. La sua gonna stropicciata di pianto si gonfiava e le sussurrava: un altro passo, solo un altro passo. Laggiù in basso, e fino all’orizzonte, la via principale puntava al cielo. Tripudio di rami dorati, plastica lucida come conchiglie, campanelli di lamierino spruzzato di oro che non avrebbero visto il nuovo anno.
Un altro passo, solo un altro passo, le diceva il vento.
Svettano carichi di doni.
Alberi di plastica costruiti in fabbriche anguste, arricciati da mani piccole e sporche che dovrebbero giocare. Ticchettio di passi sul cemento, e dita che strisciano sulle vetrine colme di cianfrusaglie infiocchettate. Vocine cariche di capriccio e risate bonarie col portafogli in mano.
Per questo l’abbiamo fatto? Era per questo?
Occhi bassi, fasulli; si aspettava però qualche finta lacrima, qualche finto abbraccio. Giorni di festa, costi quel che costi, voltare lo sguardo dal lato opposto a ciò che ci toglie il sorriso. Una festa di massacro, di macelleria, mannaie di metallo su cosci d’agnello, lame di ghiaccio su chi soffre davvero.
Sola, ormai, e sbeffeggiata dal vento che cantava con l’allegria di un uccello in gabbia. Tutti festeggiano i buoni sentimenti, pompano a forza amore nei loro cuori ritagliando via la carità che non sanno gestire.
Polvere rossa e argento sull’asfalto bagnato, mista a grani di lordura, fragili e fulgenti sfere lucidate ad arte. Cadono, calpestate, ignorate. E’ questo il senso della vuota compassione: bearsi di splendore costruito, di gloria facile, e gettare quello che affatica l’anima. La festa del calore e della luce, scontate metafore, emozioni inscatolate in pacchi da sei da mettere in soffitta fino al prossimo Natale, da gettare nel sacco nero quando non più argentee e splendenti.
Ne è valsa davvero la pena?
Toglie le scarpe, umide, che olezzano del troppo camminare. Sotto i suoi piedi il metallo scivoloso di una grondaia, la sensazione ruvida dell’isolante gommoso. L’orizzonte è un danzare d’oro, in ogni sua fibra il mondo è pervaso di frenesia scintillante: mille finestre rilucono d’ambra, mille rami brillanti in ogni finestra, mille luci danzanti su ogni ramo. Ma nessuno le ha chiesto se le serviva qualcosa. Nessuno le ha chiesto se era troppo pesante, nessuno l’ha guardata per più di un istante.
Compassione misurata con un bicchierino, la misura è colma, ci spiace tanto. Chiudono le porte, tirano dentro i bambini con una mano sulla spalla, la indicano per educarli a quanto può essere ingiusta la vita. Ma non stanotte, non stanotte! Hanno acquistato il loro amore, in fila in un roboante centro commerciale, e non possono sprecarlo, sarebbe un peccato. Staccano la spina per guardare fuori e caricano il carillon della felicità domestica.
Stanotte nessuno ha freddo, nessuno ha fame. Stanotte tutti cantano, nessuna voce si spegne per il troppo pianto. Stanotte tutti hanno amici, tutti hanno soldi, tutti hanno speranza e famiglie strette in un abbraccio fin troppo sincero.
Fai un altro passo, tintinnava il vento, solo uno, e sarà di nuovo pace. Nessuno si accorgerà di te, perché stanotte nessuno muore.
L’Angelo alzò gli occhi al cielo, un velluto tempestoso e senza stelle, aprì le sue labbra mute cercando sfogo nell’ira che non gli era propria. Frastuono, solo frastuono, giungeva alle sue orecchie. Niente armonia, caos generato dalle singole azioni, il ronzio dell’umanità così attenta a chiudersi in cerchie sempre più piccole. Il dubbio è il veleno più potente per un angelo e avvertì un tuffo al centro del petto, lì dove albergava il calore della gioia.
Perché lo abbiamo fatto? Perché il sacrificio? Perché la speranza? Perché la coscienza? Per questo? Qual è il senso?
Guardò in basso, nell’intreccio di vie percorse da formiche cieche, inarrestabili, luminose come stelle.
Fermatevi, fermatevi. Ascoltate. Tacete.
Gatti randagi, ombre arruffate di brina, si azzuffavano nei cassonetti appena dietro un negozio coperto di neve di polistirolo. Il vicolo era un taglio netto, manicheo, tra ombra e luce, nessun crepuscolo. Ma la luce non era vera luce, in ogni piccola scintilla il ghigno della vera oscurità, dietro il rintocco di ogni campanello lo stillare di una piccola fredda lacrima.
Si voltò di scatto, non era sola sul ciglio del palazzo.
L’Angelo cadde in ginocchio sul tetto gommoso del palazzo spento e abbandonato. Le ali leggere che lo sostenevano nell’immensità dei Cieli erano pesanti di umidità appiccicaticcia, di canti di natale ripetuti da scatole a manovella. Si portò le mani al volto: il veleno correva nelle sue eteree membra e lacerava ogni fibra. Tutto inutile, tutto inutile. A cosa servono la speranza, la carità e l’intelletto? A cosa il sacrificio, la condivisione, l’unione? Meglio svanire, lasciare che la falsità regni su tutto, che l’apparenza governi e l’oblio aleggi su ogni cosa. L’Angelo si curvò, sfiorando con le labbra l’amaro pavimento di catrame. Non siete niente!
Gridava nell’universo cavo che era il suo cuore, siete polvere, meno che polvere. Siete meno che animali, custodi d’equilibrio, siete meno che piante, sigilli della vita! Le sue lacrime bruciavano la gomma nera del palazzo, scavando solchi come vermi di putrefazione. Meglio che non foste mai esistiti, meglio che l’Universo fosse rimasto muto.
Il vento continuava a trascinarle le vesti, e sprazzi di canzoni senz’anima le giungevano alle orecchie, ma poteva udire sopra quell’inutile frastuono, un sospiro sommesso di sconforto. E fece un passo avanti, scalza e disperata, tese le braccia che nulla avevano da dare se non loro stesse. Sfiorò la sua pelle fredda e avvelenata e sorrise.
L’Angelo avvertì un tocco leggero, poi lo scivolare di una mano, l’avvolgere di un braccio, il calore di un corpo, la sensazione di un bacio e di capelli sporchi che sfioravano il suo viso.
Si strinse forte, gli occhi chiusi umidi di lacrime, il cuore impazzito, impaurito, a battere.
Non sei solo, riuscì a dire, non sono sola.
L’Angelo dimenticò la rabbia, la avvolse con le sue ali violate e sorrise portando le stelle nel velluto liso del cielo.
Lo abbiamo fatto per questo, rammentò, lo abbiamo fatto per questo.
Penna d’oro a Valentino Eugeni! Che gioia leggerlo, che emozioni!