Passi nel buio
Passi nel buio, secondo capitolo della saga Blood on my name
Col tempo i nostri ricordi d’infanzia giungono nell’oblio, cominciando a sbiadirsi, fino a divenire pallide immagini alle quali cerchiamo d’aggrapparci durante i periodi più bui delle nostre esistenze.
Quella sera però, Darian, mio fratello, non l’avrebbe mai più dimenticata, poiché fu durante quella notte che mi affacciai al mondo mutandone per sempre le sorti.
Se già un normale parto umano provoca dolori atroci, figuriamoci quello che prevede la nascita di un mezzo sangue; specialmente se si tratta della commistione tra umani ed esseri della razza che in parte mi caratterizza. In questo caso è del tutto inimmaginabile il tormento provocato dal travaglio alla madre del futuro nascituro.
Tre difatti ne sono le possibili conseguenze: la morte della partoriente; lo stato di follia perenne ai danni della madre, con il conseguente abbandono del figlio; infine, seppur accada raramente, la madre, rimanendo illesa da tale indicibile sofferenza, accetta il nascituro come proprio figlio.
Seline mi mise al mondo tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre, durante la notte di Ognissanti, senza subirne alcuna temibile conseguenza, amandomi come ogni madre ama il proprio figlio.
La notte d’autunno nella quale feci il mio ingresso nel mondo sembrava una nottata come tutte le altre, difatti Darian, come era solito fare, giocava accanto al focolare, stringendo tra le sue mani da bambino una rozza trottola in legno, mentre osservava le fiamme lambire un grosso pentolone ripieno d’acqua bollente.
Vi si poteva quasi specchiare, mirando la propria immagine distorta sul lucido metallo. Egli era biondo e di carnagione estremamente chiara, i suoi grandi occhi azzurri sembravano laghi sui cui poter nuotare. Il suo sguardo trasmetteva una serenità insolita per un bimbo di appena cinque anni.
Mentre era immerso nell’innocenza infantile, sentì tutto ad un tratto le urla strazianti di sua madre provenire da una stanza attigua, dove una vecchia levatrice, l’unica di cui Seline potesse fidarsi, l’assisteva durante il parto cercando di porre termine al suo terribile dolore e alle sue implacabili sofferenze.
Allo scadere della dodicesima ora prima dell’alba, le urla cessarono ed un vagito si sentì provenire da quella stanza. Ma la vecchia che assistette Seline, rimase visibilmente scossa da ciò che uscì dal ventre della povera donna.
Ella, infatti, dopo aver urlato come se avesse visto un fantasma, spalancò le porte, che separavano la camera da letto da quella del focolare, scappando via dall’umile dimora, con le mani aggrinzite portate verso il volto, ora bianco e perlaceo, mentre ripeteva tutta tremante, come se fosse in stato di trance: «Costui è un demonio!».
Fuggì via come se fosse svanita nell’oblio. L’indomani mattina, però, la ritrovarono esanime, riversa entro una ripida scarpata con il collo rotto, probabilmente a seguito di una brusca caduta. I suoi occhi, si disse, che fossero anneriti e spenti, come se il suo ultimo sguardo fosse stato diretto alle fiamme dell’inferno.
Darian non capiva ciò che stava accadendo, anche se la sua curiosità infantile fu ben presto saziata. Egli avanzò lentamente verso la stanza, ove vide, tra i panni e le lenzuola insanguinate, Seline, sua madre, che reggeva un piccolo fagotto. Ella gli disse, emettendo un flebile suono: «Avvicinati, ma fai silenzio».
Così Darian, annuendo, avanzò lentamente, temendo di far rumore. Ciò che vide, però, era ben diverso da quell’immagine che in cuor suo si era fatto di me. La mia pelle era ruvida e grigiastra, come una pietra appena bagnata dall’acqua del mare, i miei capelli erano bianchi, nivei, quasi argentati, gli occhi si presentavano sgranati, di uno strano colorito rosso… sembrava che qualcuno li avesse stropicciati così tanto da non poter più far scomparire quel colore.
Ecco come si presenta a voi, un piccolo mezz’elfo oscuro, per metà umano per metà drow.
Tremante mi si avvicinò, porgendo verso quello strano corpicino le sue tenere mani, cercando quasi un contatto fisico, non ancora conscio di ciò che ero e che sono, ritraendole per istinto quasi subito. Tremava dal capo fino ai piedi, come se il male stesso avesse posato su di lui un veto, come se le mie lacrime e le mie urla giungessero dal più profondo degli abissi, lì dove giacciono sogni perversi ed incubi senza fine.
Quella sera mio fratello non riuscì facilmente ad assopirsi a causa del trauma provocatogli dalla mia oscura ed insolita visione. Passò molto tempo prima le braccia di Morfeo lo accolsero, portandolo nel mondo onirico, nel quale sogni e realtà si mescolano fra loro mentre il sonno si fa sempre più profondo, ove quella notte, però, non trovò pace.
Infatti egli vide il buio e occhi rossi come sangue spillato guardarlo fisso, senza mai staccare lo sguardo su di lui; inoltre vi erano ragni, ragni ovunque, che lo ghermivano nell’oscurità, e due mani aguzze, nere come l’ebano, che cercavano di prenderlo e farlo proprio. Un grido, il suo, lo destò da quell’incubo che un giorno, non troppo lontano, sarebbe divenuto il mio sogno perpetuo. Quasi un monito di un futuro, seppur ancora remoto.
Con il tempo, forse, si abituò alla mia presenza fra quelle mura che lui chiamava casa, vedendomi così piccolo ed ancora impacciato. Forse cominciò anche ad affezionarsi a quello che lui chiamava fratello, anche se per il resto del mondo non ero un umano, ma solo lo scherzo beffardo del crudele destino.
Di giorno Darian poteva muoversi liberamente entro il nostro villaggio, recandosi quotidianamente dai nonni paterni, in quanto sua madre era ormai orfana da troppo tempo. Il padre di suo padre era un fabbro molto conosciuto fra gli abitanti del borgo, ed egli era molto affezionato al nipote, sembrava, infatti, che nel piccolo potesse rivedere il suo adorato figlio, ucciso la notte in cui la mia vita iniziò germogliare nel ventre di mia madre.
Grazie a lui cominciò, fin da piccolo, a conoscere quegli antichi segreti, che si tramandano da generazione a generazione, sulla lavorazione del ferro e degli strumenti adatti alla forgia; comprese quale dovesse essere la giusta temperatura della fornace a quando il ferro dovesse essere battuto per renderlo abbastanza resistente.
Io, invece, durante il giorno restavo nella casa materna, dove, sicuro e protetto, potevo crescere pian piano, senza che sguardi indiscreti e commenti infami potessero infangare il mio nome.
Qualcuno, infatti, diceva che Seline avesse partorito il figlio del demonio, altri ancora che il fato le aveva donato una pietra viva al posto del marito defunto, ma nessuno di quegli stolti aveva capito chi fossi in realtà.
Solo una figura però venne spesso a farci visita, proveniente dai boschi e dalle foreste: Lazarus, l’ultimo druido. Egli, infatti, sapendo chi realmente fossi, iniziò a farmi da mentore fin da subito, e ancor prima di mia madre si accorse della mia scarsa vista durante le ore diurne, diversamente dalla notte, in cui ero ben più attivo e desto. Ben presto sarei venuto a conoscenza di quale fosse la mia vera natura, poiché il vecchio druido mi avrebbe spiegato da quale anfratto di terra provenisse la razza che in parte mi apparteneva.
Ma prima di quel momento, ogni specchio ed ogni forma di ammennicolo in cui potessi vedere il mio volto, mi veniva celata… difatti ero troppo piccolo per capire e comprendere che ero differente da qualunque altro essere che risiedeva in quelle lande.
Ma chi mi stava realmente vicino, però, ben presto scorse quale fosse la mia vera natura. Un dì, forse per caso, mi fu fatto dono di un piccolo batuffolo bianco, un coniglio albino, dagli occhi stranamente simili ai miei. Ricordo ancora il calore del suo corpo ed il suo soffice pelo, leggero, come fosse neve nel vento. Le mie mani accarezzavano la sua testolina, fino a giungere al muso, piano, sia per non fargli del male che per non destarmi troppo presto da quel torpore e quel calore che sentivo a me vicino.
Avevo tre anni quando scoprì i volti della vita e della morte.
Ricordo la mia mano destra posarsi tra il capo ed collo di quell’animaletto, ricordo una leggera pressione ed un rumore sordo, secco, mentre dal quel musetto bianco e candido fuoriusciva un liquido rosso, che subitamente si riversò tra le mie vesti… i suoi occhi, che un attimo prima erano vivi e vispi, ora si spegnevano per non schiudersi mai più.
Seline e Lazarus mi fissarono attoniti dopo che, senza averne cognizione, avevo posto fine all’esistenza di quell’animale indifeso, per il cui delitto non provai alcun rimorso o senso di colpa. Seppur in maniera inconscia, la mia vera natura iniziò lentamente a palesarsi, reclamando ciò che apparteneva agli abitanti del sottosuolo, a chi aveva votato fede e prestato la propria vita alla signora delle ragnatele, la dea madre, Lolth.
Questi erano i miei primi passi verso il buio…
E già il sangue scorreva sulle mie mani.
Editing di Marianna Visconti
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