I “Nostoi” – La guerra di Troia – 4di6
4.
I discendenti di Enea
Dopo la fine della guerra con i Rutuli (con la quale termina il poema virgiliano, l’Eneide), il figlio di Anchise si adoperò per riunire sotto una stessa autorità i Troiani e le popolazioni aborigene affinché diventassero un unico popolo: i Latini.
Di Enea si racconta che dal matrimonio con Lavinia ebbe un altro figlio maschio, cui venne dato il nome di Ascanio (l’altro figlio, nato dalla madre Creusa, fu il capostipite della gens Julia, una delle famiglie più importanti dell’antica Roma; ne faceva parte anche il famoso Giulio Cesare), e che in omaggio alla sua sposa fondò la città di Lavinio.
Lo storico Tito Livio (che citeremo spesso nel corso di questo capitolo) nella sua opera Ab Urbe Condita ci riferisce anche che il principe dei Troiani perì durante uno scontro tra Latini ed Etruschi, lasciando i figli ancora giovani.
Ascanio, il secondo figlio di Enea, dopo aver passato la giovinezza sotto la tutela della madre Lavinia, una volta giunto alla maggiore età decise di fondare una nuova città sotto il monte Albano, cui venne dato il nome di Alba Longa; si dice anche che tra la fondazione di Lavinio e la costituzione della nuova colonia, secondo la tradizione, trascorsero trent’anni.
A quell’epoca venne sancita una pace tra Etruschi e Latini e fu stabilito che il fiume Albula diventasse il confine naturale tra i due popoli.
Alla morte di Ascanio, su Alba Longa regnò suo figlio Silvio; quindi sul trono salirono Enea Silvio, Alba, Ati, Capi, Capeto e Tiberino, che annegò nel fiume Albula dandogli il proprio nome.
Poi la città venne governata da Agrippa, da Romolo Silvio – che perì colpito da un fulmine – e da Aventino, che venne sepolto in quel colle che ancora oggi porta il suo nome; in seguito regnò Proca, che generò due figli maschi: Numitore e Amulio.
Secondo le volontà paterne, il trono sarebbe dovuto passare a Numitore; riferisce però Tito Livio, cui lasciamo volentieri la parola, che “la violenza valse più della volontà del padre o della deferenza dovuta all’età. Esiliato il fratello prese il potere Amulio, che aggiunse delitto a delitto: egli eliminò la discendenza maschile di Numitore e fece vestale la di lui figlia Rea Silvia; con la scusa dell’onore, le venne tolta la speranza di generare figli, con il vincolo di una verginità eterna[1]”.
La vestale Rea Silvia, tuttavia, diede alla luce due figli; forse perché era più decoroso ritenere un dio autore della colpa, la paternità dei gemelli venne attribuita al dio Ares (Marte).
Il crudele Amulio, a quel punto, ordinò che la sacerdotessa venisse rinchiusa in prigione e che i figli fossero gettati nelle acque del fiume Tevere; egli affidò quindi i bambini a due schiavi, con l’ordine di metterli in una cesta, portarli nella parte più alta del fiume e affidarli alla corrente.
A causa delle recenti piogge, il fiume era straripato ed aveva allagato i campi circostanti, ragion per cui i due schiavi abbandonarono i due neonati in uno degli stagni che si erano formati, confidando che la corrente li trascinasse facendoli annegare.
Il caso volle, tuttavia, che la cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenasse in una pozza d’acqua sulla riva, ai piedi di un albero di fico detto Ruminale.
Si racconta, a questo punto, che una lupa assetata, scesa dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli.
Di lì a poco un pastore di nome Faustolo scorse i due fanciulli, ne ebbe pietà e li porto con sé, facendoli allevare dalla moglie Acca Larenzia[2].
I bambini crebbero così nella capanna di Faustolo e di Acca Larenzia e vennero chiamai Romolo e Remo. Sempre a sentire Tito Livio, essi “irrobustitisi nel corpo e nello spirito, non affrontavano solo le fiere, ma tendevano imboscate ai banditi carichi di bottino. Dividevano il bottino delle rapine con i pastori e dividevano con loro cose serie e ludiche, mentre cresceva giorno dopo giorno il numero dei giovani al loro seguito”.
Si racconta che i due fratelli, un giorno furono assaliti dai predoni, adirati per la perdita dei bottini più volte perduti. Romolo si difese energicamente, ma Remo fu catturato e condotto di fronte al re Amulio, con l’accusa di aver compiuto numerose scorribande nelle terre di Numitore.
Remo venne quindi consegnato a Numitore perché lo punisse; questi, mentre teneva in prigionia il giovane, venne a sapere che aveva un fratello gemello; comparando la loro età ed il carattere per nulla sottomesso, fu toccato nell’anima e capì di trovarsi di fronte al nipote.
Nel frattempo, Faustolo (che aveva intuito da tempo che i gemelli da lui salvati fossero i discendenti del re, esposti alle insidie del fiume per ordine di Amulio), si era deciso a raccontare a Romolo le sue vere origini.
Romolo radunò, pertanto, un gruppo consistente di compagni e si diresse da Amulio; raggiunto da Remo, che era stato liberato dal nonno e portava anche lui con sé una schiera di seguaci, i due sobillarono le genti contro il crudele prozio. L’usurpatore venne quindi ucciso e Numitore ritornò re di Alba Longa.
Romolo e Remo furono quindi presi dal desiderio di fondare una città nei luoghi in cui erano stati esposti e poi cresciuti.
Siccome i due erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio selettivo, Romolo e Remo ritennero che toccasse agli dei del luogo indicare, attraverso gli auspici, chi dovesse dare il nome alla nuova città e regnarvi dopo la fondazione. Così, per interpretare gli auspici divini, Romolo scelse il colle Palatino e Remo l’Aventino.
La tradizione riferisce che, per primo, fu Remo a scorgere sei avvoltoi (segno benaugurale), mentre Romolo ne scorse subito dopo un numero doppio.
A quel punto, la folla si mise ad acclamare come sovrano ciascuno dei due gemelli: alcuni ritenevano più importante la priorità nel tempo del presagio, mentre altri ritenevano più rilevante il numero degli uccelli intravisti; ne nacque una zuffa, al termine della quale prevalsero i seguaci di Romolo.
Secondo una leggenda assai diffusa, mentre Romolo stava tracciando il solco delle future mura della città, Remo ne scavalcò i confini in segno di scherno. Romolo, preso dall’ira, avrebbe ucciso il fratello, gridando: “Così patisca chiunque abbia ad oltrepassare le mie mura!”.
Romolo conquistò quindi il comando e diede il suo nome (Roma) alla città appena fondata: era il giorno 21 aprile del 753 a.C.
A questo punto la mitologia passa il testimone alla storia; l’Autore ritiene di aver ultimato l’ambiziosa opera di tradurre in un linguaggio semplice un’epopea che parte dal dominio del cosmo per giungere alla fondazione della città in cui è nato;
non me ne voglia chi si è annoiato sfogliando queste pagine che parlano di eventi trapassati e distanti; mi auguro invece che il lettore più attento mi ricordi in futuro tra coloro i quali lo hanno aiutato ad aprire un piccolo spiraglio nella porta della curiosità;
ai più pazienti si chiederà ancora un piccolo sforzo per cercare di scoprire cosa si nasconde dietro il mantello delle leggende narrate sinora…
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