L’elefante impaziente
Gli insegnamenti di mamma Africa
Il continente africano non solo è la culla dell’umanità, ma anche la fucina che ha forgiato molte tra le fiabe più antiche del mondo:
protagonisti di questi racconti sono, in genere, gli animali della savana, ciascuno dei quali rappresenta una peculiarità del carattere umano (come il famoso “Chingula”, il coniglio, simbolo di astuzia e di intelligenza); ma non mancano le storie aventi come protagonisti gli esseri umani.
Ancora oggi le popolazioni che vivono in questo continente così misterioso (da cui un giorno i nostri progenitori partirono alla conquista del mondo) amano sedersi accanto al fuoco per ascoltare i vecchi saggi che raccontano una storia.
Chi avesse la voglia di leggere alcuni dei racconti popolari di queste terre straordinarie, scoprirà analogie sorprendenti con la favolistica moderna, come se le fiabe dell’Africa rappresentassero le radici comuni delle storie senza tempo[1].
Scegliere, tra le varie fiabe del patrimonio africano, quale proporre in questo libro era un’impresa ardua; per cui, alla fine, ha prevalso un criterio basato unicamente sulla soggettività dell’Autore.
Ho avuto la fortuna, infatti, di vedere all’opera un mediatore culturale di nome Clovis, proveniente dal Camerun, capace di ammaliare un vasto pubblico di bambini (tra cui mia figlia) raccontando storie e coinvolgendo grandi e piccini nelle danze tribali.
Questa favola, che ho udito dalle sue labbra, vuole essere un omaggio a lui e al continente che lui degnamente rappresenta.
L’elefante impaziente
Era un giorno come tanti, nella immensa savana africana; un nobile e poderoso elefante era alla ricerca di una fonte di acqua limpida per placare la sua sete.
Giunto in prossimità di un fiume, non riuscendo più a sopportare l’arsura che aveva in gola, si precipitò a capofitto verso l’acqua e bevve con avidità.
Dopo le prime abbondanti sorsate, l’elefante venne preso improvvisamente dal panico ed emise un forte barrito: “Cosa succede? Non riesco più a vedere bene”.
Alcuni istanti dopo, il pachiderma proruppe in un pianto disperato: “Il mio occhio! Il mio occhio! Non ho più il mio occhio destro! Deve essere caduto in acqua mentre bevevo!”.
Effettivamente, l’occhio destro dell’elefante era uscito fuori dalla sua orbita ed era caduto; il pachiderma si mise alla ricerca di quell’organo per lui così vitale in maniera convulsa, rimestando l’acqua del fiume, senza fermarsi un attimo: la rapidità era essenziale per risolvere il problema al più presto e lui non aveva alcuna intenzione di perdere tempo.
L’elefante cercò freneticamente l’occhio per ore ed ore, senza ottenere altro risultato se non quello di rendere più torbida l’acqua del fiume: ciò contribuiva a gettare maggiormente l’animale nel panico più totale, poiché i mulinelli di sabbia gli impedivano di vedere con chiarezza.
All’improvviso, nella savana echeggiò una risata. Furente, l’elefante si girò in tutte le direzioni per vedere chi osava burlarsi di lui e, con la coda dell’occhio, vide una piccola tartaruga, seduta su un ceppo, che rideva e rideva.
“Pensi che tutto questo sia divertente?”, gridò l’elefante: “Ho perso un occhio e questo ti fa ridere?”.
La tartaruga riuscì a ricomporsi e rispose con garbo: “Quello che è divertente non è quello che ti è successo, ma vedere come reagisci: sei totalmente sconvolto!”.
Il pachiderma replicò, offeso: “Ah, sì? Sentiamo allora cosa hai da suggerirmi. Sono tutti bravi ad essere saggi con i problemi altrui. Che cosa mi consigli di fare, dunque?”.
La tartaruga sussurrò con pacatezza: “Devi imparare ad avere pazienza. Calmati e tutto andrà bene”.
Anche se scettico, l’elefante decise di seguire il consiglio della tartaruga; in fondo, che cosa aveva da perdere? Smise di smuovere l’acqua del fiume, che tornò ben presto chiara e cristallina..
Di lì a poco, quale non fu la sorpresa del poderoso animale nello scoprire che il suo occhio era proprio lì, davanti a lui; l’elefante lo afferrò facilmente con la sua proboscide e se lo mise di nuovo nell’orbita.
Felice e contento per aver ritrovato quello che cercava con tanta ansia, l’elefante si girò in direzione della tartaruga e, con un pizzico di vergogna, la ringraziò per il prezioso consiglio.
Ma il piccolo abitante della savana era già scomparso tra le fronde emettendo un mormorio che, alle orecchie dell’elefante, suonava così: “La pazienza! Ricordati della pazienza!”.
Questo sia pur breve racconto contiene un messaggio semplice, ma certamente non privo di una grande saggezza.
Sicuramente non c’è nulla di divertente nel perdere un occhio, ma il panico e la fretta non ci aiutano. In realtà, è proprio la nostra ansia a renderci ciechi, per cui noi diventiamo per alcuni istanti totalmente incapaci di vedere il mondo che ci sta attorno in maniera obiettiva e razionale.
Per fortuna esiste un rimedio al panico: la pazienza. L’Africa ci insegna che in alcuni casi è meglio attendere sino a quando la situazione non diventa chiara e le nubi non si disperdono.
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