Le statue di Acate
Questo racconto risale al periodo 2006-11 quando scrissi il nucleo di storie che poi ha costituito L’era della dissonanza, romanzo pubblicato da Kipple. Prima che prendesse la direzione giusta, il libro conteneva ancor più personaggi e linee narrative.
Come succede per i film, anche durante la genesi (e poi l’editing) di un romanzo, e soprattutto nel caso di un mosaico come L’era della dissonanza, ci si accorge che certe parti non ci azzeccano più tanto con il quadro generale, o sono semplicemente di troppo.
Di solito si tratta di piccolezze, paragrafi o frasi, che una volta fuori dal contesto originale perdono di senso. Nel caso di questo racconto, invece, si trattava dell’incipit di una storia poi non sviluppata, leggibile autonomamente.
Per poterlo far rivivere come racconto l’ho rivisto e arricchito di un contesto che lo rendesse ancor più autosufficiente, ma il novanta percento è lo stesso di allora. Credo che Le statue di Acate non contenga niente di innovativo o di indimenticabile, ma è un racconto basato sull’atmosfera sospesa e traslucida (la stessa che caratterizza il romanzo).
Rileggendolo col senno di poi, mi pare che si sposi bene con i concetti descritti e l’ambientazione desertica (con il cenno a un’Italia e un’Europa che soccombono alla desertificazione). Tanto basta per impedirmi di lasciarlo morire in un cassetto. Conto che almeno vi possa regalare una lettura piacevole e veloce.
MB
Le statue di Acate
La notte stellata e la città di fango sotto la montagna, inondata di musica, straripante di profumi.
Nell’immenso anfiteatro della roccia color cremisi di Acate, a metà del Ventiduesimo Secolo furono scolpite le statue di Hamza. Sorsero a rappresentare il popolo di Acate, uno dei tanti insediati al centro dell’isola della Sicilia, parte del Territorio Libero del Sud Europa.
A quell’epoca mio nonno era un bambino. Alcuni magnati patrocinanti del Territorio Libero avevano donato le statue alle comunità. Se il concetto di tolleranza nella storia dell’umanità ha mai assunto una forma concreta e dei contorni geografica, è qui che si trova.
Centinaia di icone delle più disparate religioni, culture e filosofie, costellavano il Territorio Libero. Le statue erano molto più che semplici gusci di arenaria: custodivano la musica millenaria grazie ai nuclei sonici installati al loro interno.
Prima di giungere ad Acate non ne avevo mai vista né sentita una.
Sono le statue sonore che Safar sta guardando ora, lasciando che i suoni (qualcosa di simile a note musicali basse e profonde) attraversino il suo corpo e plachino la sua mente. A me fanno ancora lo stesso effetto straniante di quando sono arrivato qui, due anni fa.
«Musica, sempre musica. Ci piace.» dice Safar. «Da qui le statue vegliano la piantagione e il villaggio. La loro voce… ci tiene in contatto.»
Le statue sonore sono in funzione da quasi un secolo, mentre Safar ha solo quindici anni. Siamo diventati amici capaci di grande rispetto l’uno per l’altro, forse data la nostra diversa provenienza.
Domani tuttavia le cose cambieranno perché siamo al momento cruciale. Il tempo è terminato. Lo sa Safar come lo so io. Una conclusione mette sempre a repentaglio molte cose. Dio non voglia che sia così anche per l’amicizia e il rispetto che Safar mi ha concesso.
Vorrei che mio nonno fosse qui: lui saprebbe cavarsela in questa situazione molto meglio di me. Lui li ha vissuti di prima mano, la dichiarazione e il popolamento del Territorio Libero. Era tra quelli che ha patrocinato all’apertura delle frontiere, pur sapendo che sarebbe stata una soluzione momentanea.
Certo, un centinaio d’anni sono abbastanza lunghi da non preoccuparsi del dopo: chi gli poteva dar torto? Il deserto era solo una minaccia, soffiava giusto qualche granello di sabbia nel vento, ai tempi di mio nonno. Oggi è arrivato per davvero. È già qui da un po’, in effetti.
Scendiamo lungo il canale d’irrigazione, tra piantagioni e filari ormai secchi, lasciandoci alle spalle le statue. Le note fluttuano come liquido nell’aria, sospingendoci. La sensazione è questa, sempre: abituarsi o non farci caso è impossibile. Il raccolto è ancora sufficiente agli Acate, nonostante la scarsità di acqua e di braccia per zappare, tra cui quelle di Safar, instancabili.
Ora che si fa sera, mentre tutti si sono ritirati nelle dimore di fango, Safar cammina per la sua terra come se dovesse ascoltare la sua parola per poi rispondere. Sono le ultime notti del villaggio.
Al limite orientale della piantagione si scorgono le cime delle case di un altro villaggio, defunto da oltre un decennio. Spuntano dal deserto come concrezioni improbabili nate per cattiva sorte. Le case degli Acate sono protette dall’anfiteatro ai cui piedi ci sono i busti arenacei di Hamza, nella loro eterna veglia.
Nonostante questa protezione, a ridosso delle mura, sugli stipiti e sulle finestre, da tempo va accumulandosi sabbia. Riesce a penetrare all’interno delle case, talvolta affaticando il respiro di chi dorme. Nei campi rotolano sospinti dal vento i detriti più grossi. Con regolarità, il popolo pulisce e ripristina le cose. Tra uno o due mesi, quando se ne saranno andati, tutto sarà sommerso.
Safar torna a volgersi alle statue. Erano lì quando è nato: si può dire che è nato sotto di esse, letteralmente. Non prenderà mai in considerazione l’idea di andarsene, lo so.
Guardo il suo volto di sabbia e di sole, i suoi occhi lucidi e profondi. Aspetto che lui guardi me e mi sorrida, felice che io sia qui a condividere la sua visione e il suono che vibra nell’aria. Io, un occidentale, un tecnico, uno stupido sognatore di ipocrite utopie.
«Safar,» gli dico, «quante statue sonore pensi che ci siano?»
I suoi denti bianchi finalmente si espongono in un sorriso.
«Che domanda mi fai? Tre. I tuoi occhi vedono male al buio? I miei vedono benissimo. Sono sempre state tre.»
«Oh, anche i miei vedono bene. Ma sanno anche che quella di destra è l’unica statua sonora.»
«Ma che dici? Tre sono le statue.»
«Le altre due sono cave all’interno. Sono cisterne per l’acqua.»
Gli occhi di Safar perdono la loro naturale sicurezza.
«Cisterne per l’acqua?»
Faccio di sì con la testa. Lui torna a guardarle, poi guarda di nuovo me, incredulo, confuso, scettico. Dopo quindici anni scopriva proprio ora un segreto mai saputo riguardante la sua terra.
«Ma io sento la musica di tre statue.»
«È la tua immaginazione, perché credi che sia così. La statua con il nucleo sonico è solo una. Vent’anni fa hanno trasformato le altre in cisterne.»
«Nessuno me lo ha mai detto» dice con aria torva e dispiaciuta. «Ma in fondo non è niente di sbagliato. No? Depositi per l’acqua. È una cosa molto buona, un’idea di genio. Viene da te?»
Non posso fare a meno di sorridere, ma vorrei piangere.
«No, non da me. Ci ha pensato Yzar tanto tempo fa. Senza quelle cisterne non sareste sopravvissuti così a lungo. Questo posto non fornisce più gli elementi necessari alla vita, Safar, compresa l’acqua. Le cisterne sono vuote da un paio di stagioni. Non c’è speranza di riempirle di nuovo. Non si potrà sopravvivere un’altra stagione.»
«Cattureranno altra acqua durante le settimane delle piogge. Se il consumo diminuirà, ce ne sarà abbastanza» disse senza sicurezza.
«Quest’anno io non scommetterei sulla stagione delle piogge. E anche se fosse così, per quanto basterebbe? Un mese? E poi che succederà? È finita, amico mio. Non puoi pensare davvero di rimanere qui.»
Pensieroso e vigile, lui ha gli occhi solo per le statue, ormai stemperate nel buio quasi totale.
«Se non accetti di partire mi arrabbierò molto» gli dico.
«Perché ti arrabbi?» mi chiede con ferocia. «Non è onorevole che io voglia restare nella mia casa?»
«Non in questa situazione. Non c’è onore nel condannarsi a morte. Abbiamo già fatto questo discorso e lo hai fatto anche con tua madre e con Yzar. Speravo che sapere la verità sulle statue ti facesse aprire gli occhi. Ma se non è così mi incazzerò, Safar. Perché domani non ci saranno più né l’acqua, né le cisterne, né le statue. Domani la nave partirà e qui non resterà che sabbia. Hai capito? Deserto, Safar. Il deserto ricoprirà tutto.»
Lui sembra offeso, ma è solo abbattuto perché gli ho parlato in questo modo. Dovevo farlo, Dio mi perdoni. Mi risponde, mogio, che ci deve dormire sopra. Frase che deve aver sentito da me. Lo seguo mentre fa ritorno al villaggio, tenendomi alla distanza opportuna per non invadere il suo raccoglimento.
Ricordo i carri e i banchi del mercato, le carni secche, le verdure fresche, le erbette profumate e le spezie. La via principale del villaggio era gremita di persone quando sono arrivato qui. Ora, per tornare alla capanna che mi ospita, percorro solo una strada di fantasmi. Respiro la polvere sollevata da un vento che neanche avverto sulla pelle. La sento graffiarmi i polmoni.
Senza farlo apposta, anche io, come loro, mi muovo ondeggiando al ritmo del suono, ogni falcata corrisponde a un’onda che attraversa il suono sprigionato dalla statua. Non so immaginare il silenzio sotto questo cielo. Non oso farlo. Ma domani il silenzio calerà: è per arrivare a questo punto che sono venuto qui. Devo fare ciò che è meglio per loro. Siamo in molti, giunti negli anni passati in vari villaggi del Territorio Libero per assemblare le piste, i velivoli, i porti destinati all’esodo.
Quella di domani dovrebbe essere una rinascita, un secondo inizio. Nessuno di loro la vede così, è comprensibile. Ma almeno gli Acate sono riusciti ad accettarlo, grazie al mio sudore e alla mia cocciutaggine. Tutti a parte Safar. Domani il popolo partirà: sarà l’ultima comunità a lasciare l’isola un tempo nota come Sicilia, oggi un deserto di dune dalle quali spunta il solitario cono dell’Etna, sulla cui alta cima la neve è diventata una leggenda.
Dubito che il sonno venga da me, stanotte. Ho dormito per due anni in un giaciglio eretto con fango e sputo. Non è molto, ma è abbastanza per ripensare a questo posto come una seconda casa. Anche meglio della prima, a onor del vero. Resto sdraiato sul mio panno e fisso la stanza, illuminata da una piccola fiammella e sommersa nell’armonia millenaria degli Hamza, per imprimerla nel fondo dei miei occhi.
I tre Acate a capo del villaggio compaiono alla mia porta e uno di loro mi porge il piatto con la colazione. La trovo ottima come sempre. Parliamo: io espongo le mie decisioni e loro le rispettano. Li vedo ansiosi, impreparati, sperduti. Tuttavia i loro occhi non si nascondono, non si ritirano, non supplicano, e soprattutto non rimpiangono la scelta fatta tempo addietro. Io sono dalla loro parte. Prima di lasciarmi, beviamo dalla stessa brocca in segno di augurio per una giornata buona e produttiva. Un gesto che si ripete da secoli ma che forse solo oggi ha davvero importanza.
Poi esco e il sole è bollente, come sempre. Per la prima volta nella loro storia, oggi nessuno si reca alla piantagione. È tutto fermo. Safar è seduto ai margini delle colture, rivolto verso le statue. Questo mi tranquillizza. Per un attimo, ieri sera avevo temuto che potesse fare qualcosa di stupido come fuggire e dileguarsi, condannandosi così a morte.
Quando il sole è alto vedo i tre Acate recarsi alle cisterne con capienti vasi stretti tra le mani. Li riempiranno d’acqua e la porteranno alle case perché tutte le anfore e i piatti siano pieni, un’ultima volta. La berranno in famiglia, pronunceranno preghiere e verseranno lacrime. Safar rientra al villaggio assieme a Yzar, fratello di sua madre Aliia.
Haza, uno del villaggio, mi ferma per strada. Ha portato da bere agli animali perché anche loro verranno con noi. Lo invito a casa, parliamo come vecchi amici, mi dice come si sente, io gli dico come mi sento. Cerco di non far trasparire il fatto che mi sento un demone giunto a marchiare a fuoco la parola fine su di loro. So che non è così, semmai è il contrario, ma una parte di me la vede così, la stessa parte di me che capisce cosa sta provando Safar.
Prima di uscire afferro la grossa sacca di cuoio che ho preso con me quando sono rientrato dal porto, quattro giorni fa. Guardo all’interno: gli ordigni mi sembrano omaggi assurdi e tremendi da porgere alla divinità. Mi chiedo come andrà, non sentendomi affatto pronto a una cosa del genere.
Mentre passo per villaggio, diretto alla piantagione, incontro Safar. È evidente che mi stava aspettando. È taciturno e vigile nei miei confronti, quasi fossi ritornato lo straniero dai troppi capelli arrivato due anni fa dal nulla del deserto.
«Hai preparato un bagaglio con le tue cose?» chiedo. Non risponde.
«Hai parlato con Yzar?» chiedo. Ancora silenzio da parte sua.
Io sbuffo d’impazienza. «Sei ragionevole, Safar? Ti ritieni un uomo ragionevole?»
Lascio trascorrere molti istanti di silenzio, rotto solamente dal fluido sonoro che ci permea, durante i quali ci guardiamo negli occhi.
«La riunione è tra poco. Vai da tua madre, adesso. Ci vediamo tra pochi minuti.»
Mi volto e proseguo per la mia strada. Quando sono alla piantagione sento una voce alle mie spalle. È Safar, silenzioso come un rapace.
«La vita non è morta ad Acate.»
Lì per lì mi chiedo cosa intenda dire. Poi il pensiero si cancella e l’ira mi travolge come acqua gelata. In un istante sono furioso.
«Sei uno stupido!» gli urlo in faccia.
Lo spavento si dipinge sul suo volto.
«Ora ti spiego cosa devi fare, Safar. Vai a casa, prendi le tue cose, ti metti a fianco di Yzar e Aliia e non muovi un passo che non segua il loro. Mi hai capito? Vai! Ora!»
Quasi lo spingo via. A passo deciso e denti serrati percorro l’ultimo tratto della piantagione. Penso: che assista, che veda pure tutto. Mi sfilo lo zaino per afferrare la prima bomba. Neanche a pensarlo, appena scendo nel canale d’irrigazione sento che Safar sta correndo per raggiungermi. Ha capito cosa voglio fare. Si sente tradito. Peggio, si sente furibondo. Comincio a correre stringendo sul fianco le bombe.
«Maledizione!» grido nell’aria così densa di suono vicino alla fonte. Le note dicono che tutto va bene, che non c’è niente a parte la vacuità, ma non è così. È tremendo. Salto oltre l’ultima coltura. Sono a venti metri dalla roccia, gli Hamza con i loro vacui occhi arenacei. Mi fermo e armo l’ordigno. Safar mi ha quasi raggiunto.
«Vattene! Safar, vattene! Non resterà niente!» grido.
Lancio con tutta la forza che ho. La traiettoria s’inarca verso la base della prima statua-cisterna. Penso che non succederà niente, non so cosa aspettarmi. Faccio in tempo a gettarmi a terra e la bomba esplode. Il fragore è irreale, una raffica di schegge e sabbia. Sento Safar urlare.
Innesco il secondo ordigno mentre mi rialzo e riprendo la corsa, poi lo tiro. La seconda statua-cisterna si disintegra a metà della sua altezza. Mi aspetto che Safar mi balzi addosso come un cane rabbioso, invece mi volto indietro ed è là, immobile tra gli arbusti stremati, ad assistere paralizzato.
Come sarà il silenzio, mi domando, dopo un secolo permeato dal canto, nel sonno e nella veglia? Safar non ha mai sentito il silenzio, non sa che cosa sia. D’un tratto mi rendo conto quanto questo piccolo, in apparenza insignificante dettaglio cambierà la sua vita.
La mia mano esita. Mi avvicino alla statua sonora e innesco la terza bomba. Non so come sia fatto un nucleo sonico: è opera di scienziati ma rasenta la magia. Mille domande mi attraversano il cervello.
Tiro. Esplode. La pietra viene polverizzata e la musica ha un sobbalzo, come un rantolo di disperazione e sorpresa, poi cessa di botto. Quando i frammenti finiscono di cadere e rotolare, e l’eco si è smorzata, si odono solo le finissime cascate di sabbia. E restano le note profonde che ancora mi avvolgono la mente, tenaci anche se ormai prive di fonte. Presto si affievoliranno fino a scomparire dall’esistenza.
Mi volto: Safar sta tornando verso il villaggio. Mi incammino dietro di lui.
Il popolo mi aspetta ai margini del villaggio. Hanno visto tutto. I tre capi mi fanno un cenno, come a dirmi che capiscono quanto sia stato difficile. Sono con me, ma il loro volto è teso, scosso da impercettibili tremori che ne rivelano la pressione interna.
Tocca a me dare l’annuncio, e lo faccio: possono partire. Cominciano a muoversi verso la via che ho tracciato nel deserto grazie a pali, tronchi secchi, reliquie dei villaggi sepolti e qualunque altro oggetto a disposizione. A mezz’ora di cammino c’è il porto. Al centro del porto c’è la nave che li attende.
Aspetto che la fila sia in marcia, quindi mi metto in coda. Ogni passo è un dolore al cuore, per tutti loro. Yzar ha un braccio sulle spalle di Safar, e c’è anche Aliia. Si sono trattenuti per restare vicino a me. Safar non mi guarda e non mi parla.
Camminiamo fianco a fianco, il mio cuore si apre ma ho perso un amico. Mi auguro che possa perdonarmi con il passare degli anni, quando la possibilità di una vita ancora lunga e soddisfacente gli renderà più facile accettare ciò che è stato.
Il sole tramonta sulla sabbia. Il porto, la pista e il velivolo sono enormi in confronto al villaggio. I loro occhi, nati in giacigli in pietra e paglia, mi dicono che superfici perfette, metalliche, tecnologiche come quelle che stanno sfiorando ora non saranno mai qualcosa di ammissibile.
Adesso sono tutti nelle mie mani, proprio come cento anni fa sono stati nelle mani di mio nonno, che li ha portati qui all’alba di un’era. Li osservo salire verso il rettangolo luminoso del portellone. La procedura di partenza richiederà poco tempo. Allo scoccare della mezzanotte ci alzeremo sopra la sabbia.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.