Le origini della prosa d’arte
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Le origini della prosa d’arte
Il Duecento è il secolo delle grandi trattazioni filosofiche ed enciclopediche, della nascita di una nuova storiografia, delle narrazioni agiografiche e delle prime raccolte novellistiche; tutti questi cambiamenti si preparano a Bologna.
A fianco della produzione lirica che già conosciamo, si assiste a una ricchissima produzione estremamente varia, che va dalle encicliche papali alle costituzioni imperiali; dall’epistolografia curiale alla trattatistica; dalle summae filosofiche alla prosa giuridica dei glossatori; dai documenti dei notai all’attività didascalica dei dettatori.
Gli autori di questi testi sono i membri di un’aristocrazia dell’intelletto che vive e opera nell’ambito delle istituzioni, di varia origine sociale ma costantemente di formazione clericale; si tratta di un’orbita sociale ormai molto diversa da quella feudale.
Nei primi decenni del XIII secolo la produzione è prevalentemente in latino, invece verso la seconda metà del secolo iniziano a fiorire veri esempi di prosa in volgare. Il latino verrà gradualmente relegato alla prosa di carattere formale.
Proprio i dettatori bolognesi sono i primi a scendere a patti con il volgare. In questo periodo la scuola cessa di essere monopolio del clero e diventa mezzo di affrancamento laico. Alle scuole vescovili vengono ad affiancarsi scuole organizzate dai Comuni per la vita del Comune stesso, non più dedicate alla carriera ecclesiastica, nelle quali si studia il latino sul fondamento del volgare.
Nasce allora un nuovo pubblico che può esprimersi sia in volgare che in latino.
La figura professionale che assume la funzione mediatrice tra la tradizione latina e la nuova spinta culturale è rappresentata dal notaio. Secondo le disposizioni degli Statuti bolognesi del 1246 il perfetto notaio deve sapersi esprimere bene anche in volgare per far fronte meglio ai problemi pratici.
Questa nuova aria si respira in tutta l’Europa colta e civile. All’antica ricchezza feudale e terriera, dominio di pochi, si è ormai sostituita la nuova potenza mercantile e capitalistica, cittadina e bancaria, dominio di molti; una nuova ricchezza che parla in volgare.
La letteratura torna ad essere considerata come fine, più che come mezzo; l’opera d’arte può di nuovo essere diretta al godimento e all’intrattenimento, spesso di carattere mondano, più che all’elevazione spirituale o all’insegnamento morale.
La crescita della popolazione urbana colta stimola la nascita di una prosa di intrattenimento in volgare che ha tra le sue fonti il ciclo arturiano, le storie di Tebe, Roma e Troia.
Alcuni tra i notai, grammatici, giuristi e retori che hanno redatto testi degni di nota furono Accursio Bolognese, Rolando Dei Passeggeri, Giovanni Da Bonandrea, Guido Faba e Boncompagno Da Signa.
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