Le Mille e Una Notte
Le Mille e Una Notte[1]
[1] Le Mille ed una notte (testo stabilito sui manoscritti originali, a cura di R.R. KHAWAM), Milano, Rizzoli, 1992, pp. 39-63.
Notti e profumi d’Oriente
Le “Mille e una notte” (titolo originale in arabo: “Alf laila wa laila”; la prima stesura viene fatta risalire al X secolo dell’era cristiana) è il classico della letteratura orientale più conosciuto al mondo.
Alcuni dei personaggi che animano i racconti di questo preziosissimo volume fanno ormai parte dell’immaginario di tanti bambini del mondo, come Alì Baba e i quaranta ladroni, Aladino e la sua lampada magica, Simbad il marinaio…
Non tutti, però, ricordano che anche il filo conduttore dei racconti narrati nelle “Mille e una notte” può essere letto come una storia a sé stante, tra le più belle mai raccontate: e parla di Shahrazàd, la “tessitrice delle notti”.
Si racconta che un tempo regnavano nelle isole dell’India e della Cina interna due fratelli, che avevano nome Shahriyàr (il maggiore) e Shahzamàn (il minore). I due regni erano talmente vasti che i due fratelli non poterono vedersi per anni, impegnati com’erano a sottomettere del tutto i popoli che abitavano i territori conquistati.
Un giorno Shahriyàr provò il desiderio di rivedere l’amato fratello, che dimorava nella città di Samarcanda; per questo motivo egli incaricò il suo visir di consegnare un messaggio a Shahzamàn e di convocarlo presso la propria corte.
Il visir fece i preparativi per il viaggio e quindi si mise in cammino, assieme al suo seguito: dopo giorni e giorni, arrivò finalmente in vista di Samarcanda e lì piantò il proprio campo.
Shahzamàn nominò uno dei suoi notabili affinché esercitasse il potere in sua assenza e andò incontro alla delegazione del fratello, accogliendolo con tutti gli onori: egli offrì in dono al visir cavalli, cammelli, provviste, foraggio e quanto necessario per il ritorno; poi fece ritorno a casa per congedarsi dalla sposa e preparare il viaggio che lo avrebbe condotto dall’amato Shahriyàr.
Quando Shahzamàn tornò nei suoi appartamenti, grande fu la sua sorpresa nello scoprire che la moglie lo stava tradendo con un servo delle cucine. Sconsolato, egli uscì immediatamente da Samarcanda con il seguito dei suoi servi più fidati, raggiunse il visir e diede il segnale per la partenza al rullo dei tamburi.
Dopo avere attraversato steppe e deserti per giorni e giorni i carovanieri giunsero finalmente nel paese del re Shahriyàr, il quale venne incontro al fratello per abbracciarlo, non appena i suoi occhi riuscirono a scorgerlo in lontananza.
Shahriyàr possedeva un enorme giardino, ai margini del quale aveva fatto costruire dei palazzi meravigliosi e confortevoli: lì venne fatto alloggiare Shahzamàn, il quale tuttavia non poteva fare a meno di ripensare al tormento che sua moglie gli aveva causato e ne soffriva segretamente, emettendo ogni giorno profondi sospiri.
Colpito dall’enorme turbamento del fratello, che languiva e si consumava sempre di più, Shahriyàr tentò di comprendere la causa di tanta infelicità ma non riuscì a convincere Shahzamàn a confidargli la sua pena.
Il caso volle che, di lì a poco, anche Shahriyàr scoprì le infedeltà della moglie: fu lo stesso Shahzamàn a scoprire, per puro caso, che giovani e prestanti uomini avevano continuo e libero accesso nell’harem del fratello e amoreggiavano con la consorte del sovrano e con le ancelle.
Amaramente deluso per il tradimento della moglie, Shahriyàr la ripudiò e, per un certo periodo, si ritirò in esilio volontario nel deserto assieme al fratello, al fine di poter ritrovare nella pace e nel silenzio di quella natura così selvaggia ed estrema le motivazioni per continuare a vivere mantenendo la fiducia nel prossimo, senza timore di essere nuovamente deluso.
Al contrario, il soggiorno nel deserto non fece che rafforzare in Shahriyàr e Shahzamàn l’odio mortale per l’intero genere femminile. I due fratelli si lasciarono abbracciandosi con affetto e tornarono ciascuno al proprio regno, promettendosi a vicenda di non farsi trascinare più nel vortice della passione amorosa, che tanta sofferenza aveva provocato nei loro cuori.
Tornato in patria, Shahriyàr ordinò al proprio visir di condurre al proprio cospetto ogni giorno una donna diversa: il sovrano avrebbe passato tutta la notte con lei e la mattina seguente ne avrebbe ordinato l’esecuzione.
Cominciò, così, per i sudditi dell’impero, uno dei periodi più tristi che la storia avrebbe ricordato; la strage delle donne innocenti continuò per ben tre anni, sino a quando la bella e saggia figlia del visir, Shahrazàd, non si offrì di passare la notte con il re dicendo al padre: “Ho deciso: o rimarrò in vita, o sarò il riscatto delle vergini musulmane e la causa della loro liberazione“.
Il saggio visir cercò di dissuadere in tutti i modi la figlia, ma Shahrazàd fu irremovibile: per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato ad essere la donna del sovrano.
Vinto dalle argomentazioni e dagli ideali della figlia, il visir non poté impedire che Shahrazàd venisse promessa al sommo Shahriyàr.
Per non essere messa a morte dal vendicativo re, Shahrazàd inventò un astuto stratagemma: dopo aver trascorso la sua prima notte a palazzo, infatti, ella scoppiò a piangere davanti al sovrano.
Richiesta dal re Shahriyàr il motivo di tanta tristezza, la giovane fanciulla disse di avere tanto a cuore la sorella minore, abituata ogni sera ad ascoltare una favola prima di addormentarsi.
Shahriyàr, dimenticato per un attimo il suo odio per l’intero genere femminile, acconsentì a che la sorella minore venisse accolta a palazzo per ascoltare la favola narrata dalla bella Shahrazàd.
E Shahrazàd cominciò a raccontare…
La giovane e saggia fanciulla iniziò a narrare una storia così affascinante che lo stesso re Shahriyàr rimase ad ascoltare: quando la luce dell’alba rischiarò di nuovo la capitale del regno, il racconto non era stato ancora terminato.
Shahrazàd chiese allora la grazia di poter completare la storia la notte successiva: il re Shahriyàr, contravvenendo ai suoi principi (che gli imponevano di liberarsi della propria favorita ogni notte), pur di ascoltare il finale di quel racconto tanto avvincente acconsentì.
Quella notte, Shahrazàd fu particolarmente attenta a tenere ben desta l’attenzione del sovrano con i suoi racconti straordinari ed ebbe cura di tenere ancora una volta in sospeso il finale al sorgere del sole.
Ancora un volta, la curiosità del re Shahriyàr ebbe la meglio sul suo desiderio di vendetta nei confronti delle donne, per cui anche la notte successiva a Shahrazàd venne consentito di proseguire la narrazione…
E così, la “tessitrice delle notti” continuò ad ammaliare la mente del sovrano per molte volte ancora, avendo cura di rievocare tanti racconti ora collegati tra di loro come anelli di una collana, ora rinchiusi l’uno nell’altro, come in un sistema di scatole cinesi.
Shahrazàd riusciva sempre a tenere alta l’attenzione di chi ascoltava: l’abile arte della narrazione le consentiva infatti di iniziare sempre una nuova storia nella storia, tenendo in sospeso il finale; trame e scenari si succedevano senza posa e il sovrano non poteva fare a meno di rimanere totalmente avvinto e soggiogato dalla voce di Shahrazàd e di chiederle di proseguire la notte successiva.
E Shahrazàd “continuò in tal modo a dipanare il filo dei suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con il permesso del re”[1].
Quando Shahrazàd esaurì l’ultimo dei suoi racconti, erano trascorse ormai ben mille ed una notte da quando la tessitrice delle notti aveva iniziato a narrare favole al re Shahriyàr; il sovrano, tuttavia, aveva ormai dimenticato l’antico odio per le donne: il tempo e la fantasia l’avevano completamente riconciliato con la vita.
Grato alla bella fanciulla per la sua nobiltà e la sua gioia di vivere, Shahriyàr decise di sposarla e annunciò pubblicamente la data delle sue nozze. L’esultanza di tutti si propagò dal palazzo del re sino agli angoli più remoti suo impero.
Vennero organizzati festeggiamenti a spese del sovrano per trenta giorni; tutti avevano sulla bocca il nome della bella Shahrazàd, che aveva salvato se stessa, le fanciulle del regno, la felicità del sovrano e dei suoi sudditi. E così tutti vissero nel benessere, nel piacere, nella felicità e nell’allegria poiché da quel giorno la generosità del sovrano non mancò di beneficare sino all’ultimo abitante del regno.
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