L’armonica

L'armonica, racconto di Flavio Carlini

Joe suonava l’armonica a Leicester Square, in pieno centro, tra i ballerini di break dance da strada e i fast food pieni di turisti. Non so se avesse un altro mestiere, lo vedevo solamente lì, almeno due volte a settimana a soffiare e aspirare dentro l’armonica.
Suonava i pezzi di Springsteen, i suoi, e qualcosa che improvvisava al momento.

Mi fermavo spesso a sentirlo perché suonava davvero bene e per ché mi in curiosiva quel suo modo di essere sempre distaccato e calmo.
Gli artisti di strada fanno di tutto per attirare l’attenzione, eccitare il pubblico, far si mollare qualche soldo. Lui no. Restava sulle sue e si limitava a ringraziare agli applausi della gente alla fine di ogni pezzo.

Quando era giù di morale te ne accorgevi perché calcava il cappello sulla testa e non incrociava mai lo sguardo con nessuno, sbuffando la sua tristezza e il cattivo umore nello strumento.
Quando era in buona, invece, intonava qualche frase cantata tra quelle suonate, con il suo timbro reso rauco dalle troppe sigarette. Ogni volta comunque si scusava con il pubblico perché aveva una brut ta voce.

Joe non era certo il migliore degli armonicisti e forse neanche il più talentuoso tra gli artisti di strada che potevi trovare a Soho, però aveva un suo carisma e io stesso, quando mi avanzava un po’ di moneta, gli lasciavo volentieri qualche soldo nel cappello.
Quando stavo a sentirlo fino in fondo mi rendevo conto che Joe tornava sempre a casa con un bel gruzzoletto. Se lo meritava.

Una di quelle sere da cappello calato sugli occhi e “The River” suonata intensamente, una donna si avvicinò a Joe.
Bella, sui quaranta, non era certo appariscente ma aveva stile, sicuramente capace di far voltare più di una testa camminando per strada.
Prese posto accanto a lui, sedendo comoda a gambe accavallate per godersi quella mezz’ora di armonica suonata a pieni polmoni. Sorrideva, applaudiva, ascoltava.

Finita l’esibizione, Joe si accese una sigaretta e io mi avvicinai per lasciare qualche moneta nel cappello, non era una buona settimana ma Joe si era meritato quei due pound e trenta, la sua armonica
rabbiosa mi aveva levato un bel po’ di fatica di dosso.

La donna disse qualcosa in una lingua che non riconoscevo ma Joe parve capire, però non rispose nulla. Le lanciò un’occhiataccia ma lei incassò il trattamento con dignità, poi tornò alla carica,
parlando rapidamente e con fermezza, lui la fissava.
Rimasi lì a guardare la scena, so che non sta bene, ma ero troppo curioso.

Lui rispose qualcosa alla fine, con un paio di colpi di tosse, poi si mise a con tare i soldi nel cappello. La donna si alzò perdendo la compostezza per gridargli contro «Schifoso pezzo di merda! » Que ‐
sto l’avevo capito perché l’aveva detto ininglese, forse voleva farsi capire da tutti.
Poi si alzò e andò via nervosa.

Joe si accorse che ero rimasto a guardarli e pensai che mi avrebbe cacciato via, insomma, non era stato molto bello impicciarmi così dei fatti suoi.
Fece scivolare le monete dal cappello in un marsupio e tornò a coprirsi la testa.
«Ti va una pinta? » mi disse. «Offro io. »

Mi dispiaceva bermi i pochi soldi che gli avevo appena dato, però accettai. Joe aveva voglia di parlare e io avevo voglia di ascoltarlo. Mi disse che mi riconosceva perché mi vestivo sempre uguale, e
perché si ricordava di tutti quelli che gli lasciavano qualche soldo.
Si scusò per la scenata della donna.

«Però stasera ho suonato niente male, vero? » disse.
«Nien te male sì. »
Tracannò mezza pinta con un sorso.
Provai a fare lo stesso ma per poco non mi strozzavo.

«Vedi come vanno le cose? Vieni a suonare, ti capita una serata niente male, poi viene quella a rompere e piantare un casino. »
Allora mi sono fatto coraggio e gli ho chiesto: «Ma che è successo, Joe? »
«Ma niente, che vuoi che succeda? Ora sparirà per un paio di mesi, poi tornerà a fare un casino. Proverà di nuovo a portarmi in dietro. »

Si alzò per prendersi un’altra pinta, mi chiese se ne volevo ancora e dissi di no. Dovevo ancora finire la mia. Tornò al tavolo bofonchiando, «Niente male davvero stasera, eh? »
«Mi piace come suoni, per quello mi fermo sempre a sentirti. »

«Ma di solito non suono così, stasera sono andato forte, sì, davvero niente male. Se il vecchio Bruce passava da queste parti mi stringeva la mano pure lui. » Ridacchiava e beveva, mandò giù la seconda pinta con un doppio scotch.
A me solo l’odore faceva girare la testa.

«Chi era quella? » gli chiesi.
«Ci do ve va mo sposare » rispose di getto. «Facevo il fornaio al mio paese e lei
la cameriera al ristorante di fronte. Ci siamo conosciuti perché io portavo sempre il pane lì quando lei apriva il locale la mattina. Facevano aprire sempre a lei perché era la più giovane e anche quel la a cui il la vo ro ser vi va di più. Sai la storia, no? Ci siamo innamorati e abbiamo pensato di sposarci. Eravamo felici in Polonia. Siamo pure andati a vivere insieme. »

«Cosa è andato storto? » chiesi.
«Che io ho capito che non volevo fare il pane a vita e non volevo che lei servisse i piatti in tavola a un branco di sconosciuti.
Avevo un amico da queste parti, così l’ho convinta a trasferirsi a Londra.

Le cose però sono sempre più difficili di quello che pensi. Lei ha cominciato di nuovo a fare la cameriera e mi ripeteva ogni giorno che voleva tornare in Polonia.
Che se doveva fare questo lavoro pre fe ri va far lo a casa sua. »«Tu invece? »
«Io ho capito che non volevo essere Josef Kolar, ma Joe, quello che suona l’armonica per strada. »

Alla fine dovetti aiutare Joe a restare in piedi. Quella sera lo accompagnai in metro, lasciandolo al sicuro su un vagone.
Alla fine ho pure pagato io il conto per ché lui non aveva abbastanza soldi.
«Ho suonato davvero bene stasera, vero? Davvero niente male. »
«Davvero niente male, Joe. »

Lui borbottò una risatina e si calò il cappello sulla testa, addormentandosi mentre il treno lo portava via.
Sono tornato a sentire Joe suonare l’armonica altre volte, in certe serate vidi ancora quella donna sedersi accanto a lui, ad aspettare la fine della musica. La musica però non sarebbe finita per Joe, perché il suo posto nel mondo lo aveva capito, e ci stava comodo.

di Flavio Carlini

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