La scimitarra di Solimano
6 novembre. Anno del Signore 1514.
Selim il Corsaro manteneva la dignità, nonostante le catene e i segni delle torture.
«Oggi, in occasione del ventesimo anno della nascita del nostro glorioso governatore, non verrai interrogato, arabo! Se sarai ragionevole e confesserai ora, verrai graziato.» Il ghigno dell’ufficiale ottomano era chiaro come le sue promesse.
«Che Solimano venga di persona a graziarmi, Muzafer. Tu temi lui quanto il segreto che cerchi di strapparmi.»
«Non lo temo. Ben due Solimani del vostro popolo fallirono nel tentativo di conquistare Bisanzio, quasi un millennio fa: il Califfo di allora e il suo omonimo generale. La profezia parla dell’oggetto non del nome.»
«È inutile che cerchi di convincermi con le buone, dove stai fallendo con i ferri roventi, turco! Non sarai tu a guidare la Guerra Santa impugnando la scimitarra…»
La rabbia di Muzafer lo fece apparire come un demone alla luce delle fiaccole dell’antro. La finta calma morì in un urlo furente.
«Dove, dove, dove! Per Allah!»
«Anche se ti dicessi il punto giusto, essa giace in fondo al mare dove nessun uomo può scendere. Io stesso ho dovuto arrendermi, prima di farlo davanti alla tua nave. Né un arabo né un turco la impugneranno, tanto meno Solimano, se diverrà Sultano. Non è la spada a fare il guerriero, anche se tu vuoi strappare la gloria a chi la merita. Domani puoi torturarmi fino alla morte. La Scimitarra di Solimano degli Arabi rimarrà per sempre un mito.»
«Userò argani e draghe e la troverò, pirata!»
Bussarono alla porta della cella.
Muzafer ringhiò alle guardie di aprire.
«Se è il governatore, Muzafer, se nei guai» declamò trionfante Selim.
La pesante porta venne aperta.
Due donne velate si inchinarono.
Con gli occhi rivolti in basso, una di loro balbettò in un turco stentato: «Governatore ordinato noi per voi ballare per festeggiare compleanno. Ordinato anche tu liberare prigioniero da catene. Allah è grande.»
Muzafer aveva un debole per le donne. La palese frustrazione nei riguardi di Selim scemò di colpo.
Le due fanciulle brandivano ciascuna un tamburino, al ritmo del quale cominciarono a danzare. L’incanto sembrò trasformare la tetra cella in un’alcova.
Selim, liberato, faceva fatica a stare in piedi. Le guardie lo fecero sedere per terra mentre tenevano gli occhi incollati alle due ballerine.
La danza si trasformò d’un tratto in una pantomima di battaglia. Le due odalische si gettarono contro le guardie e Muzafer. Selim aveva viaggiato nella lontana Cina e riconobbe la tecnica delle arti marziali di quel paese.
Mentre Muzafer e le guardie giacevano svenute, le finte ballerine aiutarono il corsaro a mettersi in piedi. Un attimo dopo uscivano dalla cella.
Selim non capiva. Era impossibile fuggire dalla vecchia fortezza genovese di Caffa, ora in mano turca. Le due donne imboccarono una scala che portava sotto. Molto strano.
Una delle fanciulle sollevò un tombino. L’acqua scura sotto odorava di mare. Lo aiutarono a scendere; lui era un provetto nuotatore, ma nelle sue condizioni non avrebbe potuto restare immerso a lungo.
Non toccò l’acqua, bensì una superficie liscia e metallica. Le donne saltarono anch’esse sotto. Un fascio di luce ruppe l’oscurità mostrando un boccaporto e una scala a pioli metallica.
La tenue luce che usciva dall’apertura delineava i contorni di una grande darsena sotterranea dove galleggiava una specie di pesce metallico. Nella sua pancia si trovavano uomini indaffarati che parlavano in una lingua straniera. Non vestivano alla foggia turca, sembravano occidentali, anche nei lineamenti.
La due donne lo aiutarono all’interno di quel cetaceo che a Selim ricordò il Leviatano del profeta Giona. La sua anima marinara sognò per un attimo di poter comandare un vascello del genere. Il boccaporto venne chiuso e Selim udì il rumore di pompe e gorgoglio d’acqua.
Un uomo gli venne incontro, e in un arabo con un po’ di inflessioni parlò.
«Capitano Selim, benvenuto a bordo del submarem Squalo della Marina della Serenissima Unione delle Repubbliche d’Italia. Ti presento le agenti Atena e Artemide. Io sono soltanto un interprete, chi dirige la missione sono loro.»
Indicò le due donne, che mantennero i volti coperti, non sapeva se per rimanere anonime o per rispetto alla sua religione.
La donna con gli occhi bruni parlò per prima e l’interprete tradusse.
«I turchi ignorano l’esistenza dell’antica darsena sotterranea, opera dei genovesi. A Muzafer verrà il mal di testa per scoprire da dove ti abbiamo fatto fuggire.»
Guardò Selim di sottecchi con un lampo d’intesa che lui interpretò subito. Seguitò, e l’uomo tradusse.
«Ti comunico che il Servizio Segreto Italiano non ha mobilitato un suo vascello, forzato il Bosforo e i Dardanelli in immersione per liberarti, senza un compenso adatto. Sei intelligente abbastanza per immaginare che cosa vogliamo in cambio.»
Gli occhi delle due donne, unica parte dei volti in vista, lo fissarono. Un’offerta da non rifiutare.
«Secoli fa, la nave del generale Solimano, colpita dal fuoco greco di Bisanzio si incendiò. Si dice che lui si salvò, ma la sua scimitarra dorata affondò con il vascello. Capitano, tu sei l’unico a sapere il luogo esatto e noi abbiamo i mezzi per recuperarla subito, prima degli argani di Muzafer.»
«Non capisco a cosa possa servire all’Italia una vecchia arma araba, una leggenda.»
L’altra donna, quella con gli occhi color smeraldo, disse la sua e l’interprete tradusse di nuovo.
«La fede muove i monti, capitano e le profezie aiutano a far credere negli avvenimenti. Non si sa chi abbia messo in giro il mito che chi impugna la scimitarra di Solimano conquisterà il mondo. Muzafer ci crede ed è convinto di poter togliere la gloria all’uomo che porta lo stesso nome ed ha la stoffa per diventare un giorno un grande sultano.»
«Non mi interessa conquistare il mondo» ribatté Selim, «soltanto riprendere un cimelio che ricordi le antiche glorie del mio popolo. Un tempo il Califfato era grande. L’Impero Ottomano crede di esserne l’erede. E che sia pure un Solimano turco a cercare di portare la Fede nel Mondo. Ma mai un intrigante corrotto come Muzafer.»
La donna dagli occhi bruni riprese. L’interprete assunse lo stesso tono deciso.
«Giustappunto, leviamo dalla testa di turchi, sia della grandezza di Solimano che della bassezza di Muzafer, grilli per la testa di sentirsi invincibili grazie a un simbolo. Meglio che la scimitarra rimanga in mano araba e di un uomo di coraggio e d’onore. Dacci l’ubicazione giusta e questo natante raggiungerà gli abissi. La scimitarra sarà tua, Selim, se guiderai i tuoi corsari al servizio della Serenissima contro i turchi, un giorno non lontano. A te la scelta.»
10 novembre. Anno del Signore 1514
Selim camminava sul fondo del mare dopo aver ripreso le forze. Dalla visiera di vetro dell’elmo, vedeva pesci e creature marine nuotare tutt’intorno, oltre alla squadra di recupero italiana, vestita dell’armatura adatta alle profondità, inventata da Leonardo da Vinci, come la nave sottomarina.
Guidò gli italiani dentro il relitto. La lampada impermeabile illuminò l’interno, e una mezzaluna dorata brillò. Non appena strinse in pugno la Scimitarra di Solimano, capì di aver preso la giusta decisione. Gli infedeli erano gente di parola, nonostante tutto. Lui avrebbe mantenuto la propria.
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo Il volo del Leone dello stesso autore, edito da Delos Digital in ebook e BMS in versione cartacea per le edicole.
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