La freccia magica
18 Giugno. Anno del Signore 1517
L’Arciere vagava per la foresta, la febbre lo indeboliva di giorno in giorno; prima o poi, sapeva, sarebbe stato costretto a giacere come molti uomini e donne del suo popolo. Meglio morire soli, pensava, che non nel coro dei lamenti di gente più giovane colpita dalla magia malefica che copriva il corpo di piccoli vulcani sanguinolenti.
La profezia aveva pronosticato la Fine del Mondo anni a venire. Avrebbe fatto in tempo a invecchiare e prepararsi a essa in pace con gli dei. Ma gli dei avevano deciso diversamente.
Il vaticinato ritorno di Kukulkan, il Serpente Piumato, che avrebbe preceduto la Fine, era avvenuto prima del previsto. Si sarebbe aspettato qualcosa di spettacolare e divino.
Gli aruspici avevano accennato agli inviati del dio, o le sue incarnazioni, come giganti bianchi pelosi e muscolosi arrivati da Oriente a bordo di canoe grandi come montagne. E invece, il popolo maya aveva ospitato due uomini puzzolenti e malati che avevano diffuso la cattiva magia tra le città della costa.
I semidei erano morti, ma la magia si era propagata fino a lì, mietendo vite tra i mortali. Era quella la Fine del Mondo? Non un grande cataclisma che uccidesse tutti in una volta, bensì l’attesa di finire i giorni nella sofferenza, col corpo deturpato. Non era giusto!
Ogni giorno malediva gli uomini bianchi e bestemmiava il Dio Serpente.
Vendetta! All’inizio, ancora prima che la prima pustola apparisse sul suo corpo, aveva pianificato di vendicare i defunti della sua gente recandosi verso la città costiera e con un paio di frecce uccidere i visi pallidi.
Che fossero inviati del dio, le sue incarnazioni o avanguardie non importava. Sfidare gli dei? I due naufraghi dalla grande canoa, che si facevano chiamare espagnoles potevano anche essere inviati dal gemello malefico del Dio Serpente. Così affermavano i preti. Se fossero stati inviati dal vero Kululkan, la loro canoa divina non sarebbe certo affondata e quelli sarebbero stati immuni dalla cattiva magia.
Purtroppo, la notizia della morte degli espagnoles era giunta fin lì strappandogli la vendetta.
Infine, la magia aveva colpito anche lui.
La voce della presenza di altri uomini bianchi nella foresta dell’entroterra gli aveva ridato le forze, d’un colpo. E adesso, freccia incoccata nell’arco, aguzzava la vista e l’udito per stanare quei maledetti visi pallidi.
La gente di quella zona affermava che si erano mascherati da maya per ingannare. Erano molti e sembrava che fossero giunti nell’Unico Mondo non dal mare, bensì dal cielo. La grande canoa dei nuovi arrivati poteva volare. Ciononostante, non aveva paura: sarebbe morto prima o poi, ucciso dalla cattiva magia. Una cosa sola temeva: morire prima di aver trafitto almeno uno di quei bastardi bianchi.
Nonostante il suo piano fosse quello di uccidere semidei, pregò Kukulkan che lo guidasse nell’impresa. Il suo cuore diceva che chi portava cattive magie poteva essere soltanto inviato del gemello malefico del dio.
Udì delle voci. Tante. Una lingua straniera. Non era nahuatl. Escluse che si trattasse di avanguardie dell’Impero Mexica.
Avanzò quatto quatto nel sottobosco fino ad arrivare ai limiti di una radura, in mezzo alla quale troneggiava la grande canoa, immensa, tanto che per un attimo dubitò che potesse volare. Guardando in cima a questa, notò i quattro pali grandi come alberi che sostenevano ali, o piume enormi. Forse non era una canoa, bensì un essere vivente. La forma oblunga poteva sembrare… Un serpente! Kukulkan o il suo gemello.
Avanzò ulteriormente. Intorno al serpente alato brulicava una ventina di uomini con pelo sul mento e pallidi come la luna. Incoccò la freccia e cercò un bersaglio. Il dio era a distanza debita. Poteva colpirlo.
Un raggio di sole si fece strada nel cielo nuvoloso e colpì il corpo del serpente. La luce venne riflessa dalle scaglie argentee del dio. Capì che la sua freccia non avrebbe potuto trapassarle. Volse quindi lo sguardo verso gli uomini pallidi.
Alcuni portavano corazze ed elmi di metallo, ma con una mira accurata lui avrebbe potuto colpirli dove i loro corpi erano scoperti: nel collo o in fronte. Altri uomini, invece, non portavano armature. Ancora più facile trafiggerli. Aveva soltanto l’imbarazzo della scelta. Cercò volti giovani, nella sua sete di vendetta per la morte dei ragazzi del suo popolo. Tra quella gente con pelo sul viso era difficile definirne l’età.
La vista cadde su due figure dal volto glabro. Per un attimo credette fossero ragazzi, ma subito dopo concluse che si trattava di donne. Le femmine dei visi pallidi, come quelle maya, avevano il seno. Anche loro allattavano i figli. No. Non avrebbe ucciso donne.
Mentre cercava altre vittime, improvvisamente, una delle femmine si alzò, di colpo. Brandendo uno strano oggetto simile a un arco, si diresse lesta verso il suo nascondiglio. L’altra donna seguì immediatamente la compagna.
Purtroppo, la sortita delle due femmine coprì la visuale. Gli uomini bianchi si acquattarono afferrando strane armi e avanzando al seguito delle due, invero coraggiose, donne.
Esitò, mentre la femmina con lo strano arco, con mossa veloce lo puntò nella sua direzione e prima che lui avesse avuto la possibilità di fuggire, scoccò una freccia.
Venne colpito al braccio. Si aspettò un dolore lancinante immaginandosi un dardo che avesse passato da parte a parte il bicipite. Sentì soltanto un lieve bruciore mentre notava che la minuscola freccia si era infilata solo un poco sotto la pelle. La estrasse con facilità, mentre le due donne rimuovevano la vegetazione che l’aveva tenuto nascosto fino a quel momento. Quella con i capelli color autunno gli strappò l’arco di mano, parlandogli nella sua lingua, anche se alquanto storpiata.
«Magica freccia guarire vaiolo. Tu dire tuo popolo noi avere rimedio contro morbo. Attende pochi giorni e tu sano.»
L’Arciere era esterrefatto. Non sapeva se ringraziare o maledire.
«Voglio crederti. Se siete dee, ditemi i vostri nomi.»
«Me Atena, lei Artemide. Dee nostra gente.»
«Messaggere di Kukulkan?»
«Lunga storia. Poco tempo. Tu andare tuo popolo. Spargere notizia.»
L’Arciere osservò meglio la piccola freccia, notando che la punta era intrisa di liquido, come i dardi di certe tribù limitrofe che li lanciavano da cerbottane per cacciare. Per un attimo temette il peggio.
«Non veleno. Medicina. Vaccino» proferì la donna, come se gli avesse letto nel pensiero.
Se la freccia fosse stata avvelenata ne avrebbe di certo cominciato a sentirne i sintomi. Decise di fidarsi di quella strana femmina. La sua compagna, quella che aveva lanciato la freccia dallo strano arco traverso, non diceva nulla, ma confermava con la testa le parole dell’altra.
Nel frattempo, erano sopraggiunti molti uomini. Nessuno parlò la sua lingua; tutti indaffarati a blaterare tra loro in quell’idioma incomprensibile. Il sorriso sulla bocca di tutti, uomini e donne, fu il linguaggio universale di amicizia. Nessuno sfoderò i lunghi coltelli che avevano nelle fondine.
La donna con la chioma nera e gli occhi color smeraldo prese l’arco che le porgeva la compagna e glielo restituì con dolcezza e un’espressione di rispetto negli occhi verdi. Da arciera ad arciere, ciascuno appartenente alla propria stirpe.
21 giugno.
Durante il cammino verso il villaggio, l’Arciere aveva cominciato a sentirsi sempre meglio.
Arrivato tra la sua gente, era quasi guarito.
Raccontò del suo incontro con gli inviati del vero Kukulkan, che possedevano il liquido sacro contro la cattiva magia portata dal gemello del dio. Entro pochi giorni, la grande canoa volante sarebbe scesa dal cielo e gli stregoni bianchi avrebbero guarito tutti.
Scesa la sera, l’Arciere promise a se stesso che dal giorno dopo sarebbe stato col naso in aria ad attendere l’arrivo della grande canoa, che forse era il Dio Serpente.
Infine, stanco, si addormentò.
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.
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