Katane e samurai
Dicembre. Anno del Signore 1514
Il monastero sembrava a un passo dal cielo. Il picco su cui era stato costruito nella notte dei tempi spuntava dalle nuvole sottostanti e sembrava un’isola circondata da un mare bianco grigio. Il gelo era secco, e la mancanza di umidità lasciava le nude rocce scevre da ogni forma di ghiaccio o brina. Al di sotto delle nuvole, la neve era un manto candido che copriva il sentiero.
Dall’aeronave lo spettacolo bianco era terminato non appena avevano attraversato la cappa di nubi.
In quel periodo dell’anno era possibile arrivare al monastero soltanto volando. E loro erano i primi in tutta la sua storia.
Il cortile era abbastanza ampio per far posto alla grande nave volante. Intorno a essa, il vapore dei motori si era condensato nella piazzuola donando brina scivolosa sulle piastrelle grige.
«È l’ultima volta che mi convinci a una gita del genere, amore mio!» esordì il capitano dell’aria Angelo Santus. «La prossima volta dovrà essere con un nuovo tipo di aeronave. È un miracolo che questa sia ancora intera dopo quello strapazzo.»
«Miracoli o angeli santi, sposo mio» rispose Loretta, l’agente Atena. «Neppure io avrei affrontato questa odissea se a pilotare la bagnarola ci fosse stato un altro al posto dell’Ulisse dei cieli. Amore è anche fiducia. Con te viaggerei persino in America.»
«Scordatelo. A meno che Mastro Leonardo non progetti un nuovo tipo. Sarei capace di disubbidire anche al doge se me lo proponesse. Passi per questa volta.»
«Le vie del nonno sono misteriose. E in questo luogo dimenticato da Dio…»
«Da uno, ma non dagli altri, Atena» si intromise Silvana, l’agente Artemide. «In questo momento, anch’io ”sento” quello che anche lui aveva intuito.»
«Sarò sordo ma io odo soltanto una litania noiosa da dentro questa bicocca» commentò il condottiero Francesco Tagliaferri. «Oltre gli sbuffi di vapore della barchetta. E spero veramente che non ci sia da menar mani o spade come ha pronosticato il vecchio.»
Silvia Artemide accarezzò l’archibugio a mitraglia, muta conferma che intuiva pericolo nell’aria gelida.
«L’unico nemico, al momento, è questo gelo che ci ridurrà a statue di ghiaccio entro breve se non ci muoviamo» commentò capitan Angelo.
Francesco si atteggiò a colui che guidava la missione dirigendosi a passo svelto verso il portone, seguito dagli altri tre e da una decina di armigeri.
Non appena dentro, vennero investiti da un’ondata di caldo che li costrinse a togliersi le pellicce. Seguirono il canto di meditazione dei monaci. Entrarono infine in una grande sala.
Una cinquantina di uomini vestiti in cappe arancione erano chinati e seguitarono la litania senza curarsi dei nuovi arrivati. Solo un uomo, molto anziano, prestò loro attenzione.
«Maestro» declamarono all’unisono Atena e Artemide riconoscendo colui che le aveva introdotte alle arti marziali del suo paese. Il vecchio guardò Artemide. Solo lei captò il muto messaggio di allarme. Tirò una leva dell’archibugio e lo imbracciò, pronta a usarlo.
Una voce metallica intimò, in un italiano con leggera inflessione: «Io non lo farei, Artemide! Se ti preme la pelle di questi monaci e del vecchio, getta l’arma. E i tuoi compari buttino le spade!»
Da dietro i monaci sbucarono altrettanti guerrieri, vestiti in armature ed elmi di strana fattura. Un po’ nello stile di quelli dei soldati dell’Impero Cinese, ma con molte differenze. Impugnavano spade ricurve puntate alla nuche dei monaci.
L’uomo che aveva parlato, palesemente il capo, che minacciava il maestro con un’arma uguale, era vestito sontuosamente e aveva una maschera rappresentante un demone che gli copriva il volto.
«Giapangu!» commentò Loretta Atena. «Me ne parlò il nonno. Uno shogun e dei samurai che trasgrediscono le regole dell’onore minacciando uomini pacifici con le katane. Un bel viaggio da quella terra lontana per tale oltraggio. Dove hai imparato la nostra bella lingua?»
Lo shogun rispose all’istante, da dietro la maschera.
«L’Impero del Sol Levante è in piena anarchia. Io e i miei fedeli samurai vogliamo soltanto una profezia dal vecchio monaco. Poi ce ne torneremo in Giapangu per combattere e vincere.»
«Se lo conosco bene è stato laconico fino a ora.»
«È a prova di torture il veglio, ma conosco il suo punto debole. Consegnami l’archibugio, Artemide!»
Silvana ubbidì, schernendo. «Per salvare la vita delle sue discepole vaticinerà finalmente la tua sconfitta prossima ventura, faccia di demone!»
Afferrato l’archibugio, lo shogun lo puntò contro Silvana e Loretta, ordinando: «Avanti vecchio, nel buon italiano che conosci anche tu, l’unico idioma che abbiamo in comune, sciogli la lingua e dammi la profezia, se non vuoi vedere morire le tue discepole.»
Il vecchio aprì la bocca: «E va bene, shogun. Ma prima le signore: Atena e Artemide, vedo per voi una lunga vita. Rischi e pericoli, ma la scamperete sempre. Un lungo viaggio vi attende.»
«Smettila di raccontar menzogne, vecchio, e dammi la MIA profezia!»
«Ti accontento subito, volto da demone: vedo solo morte. Il tuo corpo pieno di ferite: pallottole di archibugio.»
«Menzogne! Impossibile: in Giapangu non hanno ancora armi da fuoco. Sarò l’unico ad averne una. Con essa prenderò il potere e diventerò mikado!»
«Volevi la profezia, e l’hai avuta!»
«Tu mi hai dato quella sbagliata. Ti ho messo alla prova. Altro che lunga vita: avrei ammazzato le tue discepole in ogni caso. La migliore profezia è l’arma della vittoria che ora stringo in mano. Tornerò in Giapangu volando sull’aeronave costringendo l’equipaggio sotto la minaccia della mia nuova arma. Addio, Artemide, Atena, sposi e armigeri!»
Lo shogun premette il grilletto. Un attimo dopo, cadde crivellato da proiettili, come colpito da una decina di cecchini.
I samurai, alla morte del loro capo, che confermava la profezia, vinti da atavica superstizione, afferrarono le spade e si tagliarono il ventre, tra le suppliche degli italiani che invano cercarono di farli desistere dal macabro rito.
Silvana spiegò al vecchio l’accaduto. «Le vostre profezie sono infallibili, maestro, come il mio archibugio, anche quando spara all’indietro.»
Tirò la leva che rivoltava le canne nascoste dal supporto di legno disposto di traverso sull’impugnatura, come una croce, e si diresse verso lo shogun. Gli tolse la maschera commentando: «Vediamo se sei più brutto di quanto mostri.»
Un attimo dopo, tutti trasalirono riconoscendo i capelli biondi, il volto pallido e gli occhi blu nordici spalancati per il terrore dell’attimo prima di morire. Loretta commentò, come se solo adesso gli avvenimenti fossero giunti a una conclusione logica.
«Il conte Hel. Scappato dalla Danimarca, arrivato in Giapangu. Sicuramente scambiato per qualche divinità o demone grazie al suo aspetto. Approfittando dell’anarchia, aveva assoldato la propria banda di samurai allo sbando in pochi mesi. La trappola che ci ha teso si è riversata contro lui stesso.»
Silvana concluse per lei. «Voleva vendetta, la mia arma e l’aeronave. Ma ho i miei dubbi che sia stato lui a ordire l’agguato. Hel ha soltanto abboccato all’amo. Loretta, il nonno doge la può fare a tutti, te compreso, ma a una sensitiva, no. Voleva chiudere il conto con Messer Vichingo e quello se ne è tornato nell’Hel, il suo inferno. Gli rimetto la maschera: gli sta a pennello.»
Seppellirono i cadaveri e si accomiatarono dai monaci.
L’aeronave si involò nuovamente, a fatica, sbuffando.
Non appena guadagnati i cieli, capitan Angelo dichiarò: «Proveremo a volare al di sopra delle nuvole per evitare tempeste di neve. Ciononostante, non arriveremo in Italia prima dell’anno prossimo.»
«Già» confermò Loretta afferrando un otre di vino e dei calici. «Buon Capodanno a tutti. Qui in Cina lo celebrano in altra data. Che l’Anno del Signore 1515 ci sia propizio. Lunga vita ci attende, stando al maestro. Orsù, brindiamo!»
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo Il volo del Leone dello stesso autore, edito da Delos Digital in ebook e BMS in versione cartacea per le edicole.
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