Inferno – canto XXXIII
INFERNO
Canto XXXIII
Testo La bocca sollevò dal fiero pasto Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli Ma se le mie parole esser dien seme Io non so chi tu se’ né per che modo Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, però quel che non puoi avere inteso, Breve pertugio dentro da la Muda m’avea mostrato per lo suo forame Questi pareva a me maestro e donno, Con cagne magre, studiose e conte In picciol corso mi parieno stanchi Quando fui desto innanzi la dimane, Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli Già eran desti, e l’ora s’appressava e io senti’ chiavar l’uscio di sotto Io non piangea, sì dentro impetrai: Perciò non lacrimai né rispuos’io Come un poco di raggio si fu messo ambo le man per lo dolor mi morsi; e disser: “Padre, assai ci fia men doglia Queta’mi allor per non farli più tristi; Poscia che fummo al quarto dì venuti, Quivi morì; e come tu mi vedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti Ahi Pisa, vituperio de le genti muovasi la Capraia e la Gorgona, Ché se ’l conte Ugolino aveva voce Innocenti facea l’età novella, Noi passammo oltre, là ’ve la gelata Lo pianto stesso lì pianger non lascia, ché le lagrime prime fanno groppo, E avvegna che, sì come d’un callo, già mi parea sentire alquanto vento: Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove E un de’ tristi de la fredda crosta levatemi dal viso i duri veli, Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; «Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?». Cotal vantaggio ha questa Tolomea, E perché tu più volentier mi rade come fec’io, il corpo suo l’è tolto Ella ruina in sì fatta cisterna; Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: «Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; «Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche, che questi lasciò il diavolo in sua vece Ma distendi oggimai in qua la mano; Ahi Genovesi, uomini diversi Ché col peggiore spirto di Romagna e in corpo par vivo ancor di sopra. 157 | Parafrasi Quel peccatore sollevò la bocca dal feroce pasto, pulendola coi capelli della testa che aveva addentato da dietro. Poi iniziò: «Tu vuoi che io rinnovi un disperato dolore che mi opprime il cuore già solo a pensarci, prima che ne parli. Ma se le mie parole devono essere un seme che frutti infamia al traditore che mordo, mi vedrai parlare e piangere al tempo stesso. Io non so chi sei, né in qual modo sei giunto quaggiù; ma mi sembri davvero fiorentino quando ti sento parlare. Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino e questi è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti spiegherò perché sono per lui un vicino così bestiale. Non serve raccontare che per effetto dei suoi piani malvagi, fidandomi di lui, io fui catturato e poi fatto uccidere; perciò ascolterai quello che non puoi aver sentito, cioè quanto fu terribile la mia morte, e giudicherai se egli mi ha offeso. Una stretta feritoia dentro la Torre della Muda, la quale oggi si chiama per me Torre della Fame e che dovrà ospitare altri prigionieri, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura molte lune, quando io feci il cattivo sogno che mi svelò il futuro. Questi (Ruggieri) mi sembrava signore della brigata e guida di una battuta di caccia, sulle tracce del lupo e dei suoi piccoli, sul monte (San Giuliano) per cui i Pisani non possono vedere Lucca. Aveva messo davanti i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi, sul fronte avanzato, con cagne macilente, fameliche e addestrate. Dopo una breve corsa il padre e i figli mi sembravano stanchi, e mi pareva di vedere le cagne affondare le zanne aguzze nei loro fianchi. Quando mi svegliai prima dell’alba, sentii i miei figlioli che erano con me che piangevano nel sonno e domandavano pane. Sei davvero crudele, se già non provi dolore pensando al presagio che nutrivo in cuore; e se non piangi, cosa ti fa piangere di solito? Ormai si erano svegliati e si avvicinava l’ora in cui solitamente ci veniva dato il cibo, anche se ognuno ne dubitava per il suo sogno; e io sentii che di sotto all’orribile torre veniva inchiodato l’uscio; allora guardai il viso dei miei figli senza parlare. Io non piangevo, a tal punto ero impietrito nel mio animo: essi piangevano, e il mio Anselmuccio disse: “Tu hai un tale sguardo, padre! cos’hai?” Allora io non piansi né risposi, per tutto quel giorno e per la notte seguente, finché spuntò il sole il mattino dopo. Non appena un timido raggio di sole fu penetrato nel carcere doloroso, e io vidi in quei quattro visi il mio identico aspetto smagrito, mi morsi entrambe le mani dal dolore; e loro, pensando che io lo facessi per voglia di mangiare, si alzarono subito e dissero: “Padre, ci sarà molto meno penoso se tu mangi i nostri corpi: tu ci hai dato queste misere carni, e tu spogliaci di esse”. Allora mi calmai per non rattristarli oltre; quel giorno e quello seguente restammo tutti in silenzio; ahimè, terra crudele, perché non ci hai inghiottito? Quando arrivammo al quarto giorno, Gaddo si gettò davanti ai miei piedi, dicendo: “Padre mio, perché non m’aiuti?” Qui morì; e come tu mi vedi, così io vidi cadere uno a uno gli altri tre, tra il quinto e il sesto giorno; allora io, già cieco e moribondo, andai brancolando sopra i loro corpi, e li chiamai per due giorni dopo la loro morte. In seguito, più che il dolore, mi uccise la fame». Quando ebbe detto questo, torcendo gli occhi, riprese a rodere il misero teschio (di Ruggieri) coi denti, che furono forti come quelli di un cane su quell’osso. Ahimè, Pisa, vergogna dei popoli del bel paese (l’Italia) dove risuona il «sì», poiché i vicini sono lenti a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona, e ostruiscano la foce dell’Arno, in modo che il fiume anneghi ogni tuo abitante! Infatti, se il conte Ugolino era sospettato di averti tradito cedendo i castelli, tu non avresti dovuto condannare i figli a un tale supplizio. La giovane età, o novella Tebe, rendeva innocenti Uguccione e il Brigata, e gli altri due che il canto ha nominato prima. Noi passammo oltre, là dove il ghiaccio imprigiona crudelmente altri dannati, non rivolti in basso ma verso l’alto. Lì il pianto stesso non li lascia piangere, e il dolore che trova un impedimento sugli occhi torna indietro a far crescere l’angoscia; infatti le prime lacrime si congelano e formano come delle visiere di cristallo, che riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto il ciglio. E anche se per il freddo ogni sensibilità aveva lasciato il mio viso, proprio come un callo, mi sembrava di sentire del vento: allora chiesi: «Maestro, chi produce questo vento? Quaggiù non è forse assente qualunque evento atmosferico?» E lui a me: «Ben presto sarai nel punto dove l’occhio ti darà la risposta, vedendo la causa che produce questo fenomeno». E uno dei dannati imprigionati nel ghiaccio ci gridò: «O anime crudeli, al punto che vi è assegnato l’ultimo Cerchio, levatemi dal viso le croste di ghiaccio, così che io possa sfogare un poco il dolore che mi opprime il cuore, prima che le lacrime tornino a congelarsi». Allora gli dissi: «Se vuoi che ti aiuti, dimmi chi sei e se non ti libero gli occhi, possa io andare fino in fondo al ghiaccio». Dunque rispose: «Io sono frate Alberigo; sono quello dei frutti dell’orto malvagio, che qui ottengo datteri in cambio di fichi (sconto una pena più grave della mia colpa)». Io gli dissi: «Oh! sei già morto?» E lui a me: «Non no idea di come il mio corpo stia sulla Terra. Questa Tolomea ha questo vantaggio: spesso l’anima ci cade prima che Atropo abbia posto fine alla vita. E affinché tu mi tolga più volentieri le lacrime gelate dal volto, sappi che non appena l’anima compie il tradimento come feci io, il suo corpo è preso da un demone che in seguito lo governa finché il tempo della sua vita non è concluso. Essa precipita in questo pozzo infernale; e forse è ancora nel mondo il corpo dell’anima che sverna qui dietro a me. Lo devi sapere, se arrivi qui solo adesso: egli è ser Branca Doria, e sono molti anni da quando è finito in questo luogo». Gli dissi: «Io credo che tu mi inganni; infatti Branca Doria non è ancora morto, e mangia, beve, dorme e indossa vesti». Egli disse: «Michele Zanche non era ancora arrivato nella Bolgia dei Malebranche, dove bolle la viscosa pece, che questi lasciò il diavolo al suo posto e così un suo complice che fece con lui il tradimento. Ma ormai stendi qua la mano; aprimi gli occhi». E io non glieli aprii; e l’essere villano fu una cortesia nei suoi confronti. Ahimè, Genovesi, uomini alieni da ogni buona usanza e pieni di ogni vizio, perché non siete dispersi nel mondo? Infatti, insieme al peggiore spirito di Romagna (Alberigo), trovai un vostro concittadino, tale che per le sue azioni la sua anima si bagna già in Cocito, e il suo corpo sembra ancor vivo sulla Terra. |
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