Inferno – canto XXVII
INFERNO
Canto XXVII
Testo Già era dritta in sù la fiamma e queta quand’un’altra, che dietro a lei venia, Come ’l bue cicilian che mugghiò prima mugghiava con la voce de l’afflitto, così, per non aver via né forame Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo perch’io sia giunto forse alquanto tardo, Se tu pur mo in questo mondo cieco dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; Io era in giuso ancora attento e chino, E io, ch’avea già pronta la risposta, Romagna tua non è, e non fu mai, Ravenna sta come stata è molt’anni: La terra che fé già la lunga prova E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, Le città di Lamone e di Santerno E quella cu’ il Savio bagna il fianco, Ora chi se’, ti priego che ne conte; Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato «S’i’ credesse che mia risposta fosse ma però che già mai di questo fondo Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe Li accorgimenti e le coperte vie Quando mi vidi giunto in quella parte ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, Lo principe d’i novi Farisei, ché ciascun suo nimico era cristiano, né sommo officio né ordini sacri Ma come Costantin chiese Silvestro a guerir de la sua superba febbre: E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; Lo ciel poss’io serrare e diserrare, Allor mi pinser li argomenti gravi di quel peccato ov’io mo cader deggio, Francesco venne poi com’io fu’ morto, Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini ch’assolver non si può chi non si pente, Oh me dolente! come mi riscossi A Minòs mi portò; e quelli attorse disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto, Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio, a quei che scommettendo acquistan carco. 136 | Parafrasi La fiamma (di Ulisse e Diomede) ormai era dritta e ferma, dato che non parlava più, e si allontanava da noi con il permesso del dolce poeta (Virgilio), quando ecco che un’altra, che veniva dietro di essa, ci indusse a rivolgere lo sguardo alla sua punta per un suono confuso che ne fuoriusciva. Come il bue siciliano, che muggì per la prima volta coi lamenti di colui che l’aveva forgiato col suo lavoro (e questo fu giusto), muggiva con la voce del torturato, tanto da sembrare trafitto dal dolore anche se era fatto di rame; così le parole misere si convertivano nel linguaggio del fuoco, perché all’inizio non trovavano una strada per uscire. Ma dopo che ebbero trovato una via d’uscita attraverso la punta, facendola muovere come la lingua al loro passaggio, sentimmo dire: «O tu a cui io rivolgo la voce, e che poc’anzi parlavi italiano dicendo “Adesso va’ pure, non ti stimolo più”, non dispiacerti di trattenerti a parlare con me solo perché sono arrivato un po’ dopo; vedi che a me non dispiace, e tuttavia brucio tra le fiamme! Se tu sei finito in questo mondo oscuro da quella dolce terra d’Italia dalla quale io reco tutta la mia colpa, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; infatti io fui dei monti tra Urbino e la cima da cui nasce il Tevere (Monte Coronaro)». Io ero ancora attento e chinato giù dal ponte, quando la mia guida mi toccò il fianco e mi disse: «Parla tu, questo è italiano». E io, che ero pronto a rispondere, iniziai a parlare senza esitazioni: «O anima che sei nascosta dal fuoco laggiù, la tua Romagna non è (e non è mai stata) senza guerra nei cuori dei suoi tiranni; tuttavia non la lasciai impegnata in nessun conflitto dichiarato. Ravenna è nella situazione in cui è da molti anni: l’aquila dei Da Polenta la domina, così che copre anche Cervia con le sue ali. La città (Forlì) che sostenne il lungo assedio e fece strage delle truppe francesi, è dominata dal leone rampante verde (dalla famiglia Ordelaffi). E il vecchio e il nuovo mastino (Malatesta e Malatestino) da Verrucchio, che fecero strage di Montagna dei Parcitati, usano i denti come succhiello (dilaniano i nemici) là dove sono soliti farlo. Le città dei fiumi Lamone e Santerno (Faenza e Imola) sono dominate dal leone in campo bianco (Maghinardo Pagani), che muta alleanze dall’estate all’inverno. E la città il cui fianco è bagnato dal Savio (Cesena), così come sta tra la pianura e il monte, vive tra tirannide e stato libero. Ora ti prego di dirci chi sei; non essere più restio degli altri, se il tuo nome nel mondo conserva fama». Dopo che il fuoco ebbe ruggito per un po’ alla sua maniera, la punta aguzza si agitò da una parte e dall’altra, poi pronunciò tali parole: «Se io credessi di rispondere a qualcuno che possa tornare sulla Terra, questa fiamma resterebbe quieta (non parlerei); ma poiché dal fondo dell’Inferno non è mai uscito vivo nessuno, se sento dire il vero, ti rispondo senza temere di essere infamato. Io fui uomo d’armi, e poi divenni francescano, credendo di fare ammenda dei miei peccati cingendo il cordone; e certo quanto credevo si sarebbe avverato, non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII), che Dio lo maledica!, il quale mi indusse nuovamente a peccare; e voglio che tu senta come e perché ciò avvenne. Fin tanto che io fui in carne ed ossa, col corpo datomi da mia madre, le mie opere non furono improntate alla violenza ma all’astuzia. Io conobbi tutti i trucchi e le vie nascoste, ed esercitai la loro arte in modo tale che la mia fama raggiunse i confini del mondo. Quando mi vidi giunto a quella fase della mia vita (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e raccogliere le sartie (pentirsi dei suoi peccati), ciò che prima mi piaceva mi dispiacque e mi feci frate, dopo essermi pentito e confessato; ah, povero me! Certo ciò mi avrebbe giovato. Il principe dei nuovi Farisei (Bonifacio), mentre combatteva una guerra vicino al Laterano (contro i Colonna), e non contro Saraceni o Giudei, poiché ogni suo nemico era cristiano, e nessuno di questi aveva assediato Acri o aveva mercanteggiato nella terra del Soldano; non ebbe riguardo né per il suo supremo ufficio, né per gli ordini sacerdotali, né per quel cordone francescano che era solito rendere magri quelli che lo indossano. Al contrario, come Costantino chiamò a sé papa Silvestro dal suo rifugio sul monte Soratte per guarire dalla lebbra, così lui chiamò me per guarire dalla sua terribile febbre: mi chiese un consiglio e io tacqui perché le sue mi sembravano le parole di un pazzo. Egli mi disse: “Il tuo cuore non abbia timore: io ti assolvo fin d’ora, purché tu mi mostri come devo fare per abbattere la rocca di Palestrina. Io posso chiudere e aprire il cielo (condannare e assolvere), come ben sai; infatti due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non ebbe care”. Allora gli argomenti autorevoli mi convinsero, specie pensando che il tacere mi avrebbe procurato gravi conseguenze, e dissi: “Padre, dal momento che tu mi assolvi da quel peccato nel quale debbo ricadere, promettere molto e mantenere poco ti farà trionfare nel trono pontificio”. Non appena morii, poi, san Francesco venne a prendere la mia anima; ma un diavolo gli disse: “Non portarla via: non farmi torto. Egli deve venire giù tra i miei dannati, perché diede il consiglio fraudolento per il quale, da allora a oggi, gli sono stato alle costole. Infatti non può essere assolto chi non si pente, e non è possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è una contraddizione in termini”. Ah, povero me! come mi scossi quando mi prese, dicendomi: “Forse tu non pensavi che io fossi filosofo!” Mi portò davanti a Minosse; e quello attorcigliò la coda otto volte attorno alla schiena dura; e dopo essersela morsa per la gran rabbia, disse: “Questo deve andare tra i peccatori del fuoco che li sottrae alla vista”; ed ecco perché sono perduto qui dove mi vedi, e avvolto così dalle fiamme mi dolgo camminando». Quando il dannato ebbe finito di parlare, la fiamma si allontanò dolorante, torcendo e sbattendo la punta aguzza. Noi (io e la mia guida) andammo oltre, su per il ponte fino al successivo che sovrasta la Bolgia in cui sono puniti quelli che, seminando discordie, si gravano di peccato. |
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