Inferno – canto XXIII
INFERNO
Canto XXIII
Testo Taciti, soli, sanza compagnia Vòlt’era in su la favola d’Isopo ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ E come l’un pensier de l’altro scoppia, Io pensava così: ’Questi per noi Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, Già mi sentia tutti arricciar li peli te e me tostamente, i’ ho pavento E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro, Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, S’elli è che sì la destra costa giaccia, Già non compié di tal consiglio rendere, Lo duca mio di sùbito mi prese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, e giù dal collo de la ripa dura Non corse mai sì tosto acqua per doccia come ’l maestro mio per quel vivagno, A pena fuoro i piè suoi giunti al letto ché l’alta provedenza che lor volle Là giù trovammo una gente dipinta Elli avean cappe con cappucci bassi Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; Oh in etterno faticoso manto! ma per lo peso quella gente stanca Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi E un che ’ntese la parola tosca, Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi». Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco «Costui par vivo a l’atto de la gola; Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto Ma voi chi siete, a cui tanto distilla E l’un rispuose a me: «Le cappe rance Frati godenti fummo, e bolognesi; come suole esser tolto un uom solingo, Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»; Quando mi vide, tutto si distorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, Attraversato è, nudo, ne la via, E a tal modo il socero si stenta Allor vid’io maravigliar Virgilio Poscia drizzò al frate cotal voce: onde noi amendue possiamo uscirci, Rispuose adunque: «Più che tu non speri salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia: Lo duca stette un poco a testa china; E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna Appresso il duca a gran passi sen gì, dietro a le poste de le care piante. 148 | Parafrasi Silenziosi e soli, senza altri insieme a noi, andavamo uno dietro l’altro, come i frati minori che vanno per strada. Io, riguardo alla rissa cui avevamo assistito, pensavo alla favola di Esopo che parla della rana e del topo; infatti i due episodi sono assai simili, quasi come le parole ‘mo’ e ‘issa’ (adesso), se si paragonano l’inizio e la fine, riflettendo con attenzione. E come da un pensiero ne nasce all’improvviso un altro, così da quello mi venne un altro pensiero che raddoppiò la prima paura. Io pensavo così: ‘”I diavoli a causa nostra sono stati scherniti con la beffa oltre che il danno, e credo che questo dia loro molto fastidio. Se l’ira si aggiunge alla malvagità, essi ci verranno dietro più crudeli del cane contro la lepre che vuole azzannare”. Ormai mi sentivo rizzare tutti i peli dalla paura e mi voltavo indietro con ansia, quando dissi: «Maestro, se non ci nascondiamo entrambi in fretta, ho paura dei Malebranche. Li abbiamo già alle costole; me li immagino al punto che già li sento». E lui: «Se io fossi uno specchio, non rifletterei la tua immagine esteriore più in fretta di quella interiore che vedo dentro di me. Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, con lo stesso atteggiamento e aspetto, così che ho maturato con entrambi una sola decisione. Se la sponda di destra è meno ripida, così da permetterci di scendere nell’altra Bolgia, noi sfuggiremo alla caccia che tu immagini». Non ebbe il tempo di completare il ragionamento, perché io vidi i Malebranche venire ad ali spiegate non molto lontano, per catturarci. Il mio maestro mi afferrò prontamente, come la madre che è svegliata all’improvviso dal rumore e vede il fuoco vicino a sé, e prende il figlioletto e scappa senza fermarsi, preoccupandosi più di lui che di se stessa, anche se indossa solo una camicia; e (Virgilio) si lasciò cadere supino dalla sommità dell’argine lungo il pendio della roccia che chiude la Bolgia da uno dei due lati. L’acqua non corse mai tanto velocemente lungo un condotto per muovere la ruota di un mulino di terra, quando essa è più vicina alle pale, come il mio maestro scese lungo quell’argine, portando me sopra il suo petto come se io fossi suo figlio, non un compagno. Non appena i suoi piedi ebbero toccato il fondo della Bolgia, i diavoli giunsero sull’argine sopra di noi, ma a quel punto non c’era più ragione di temere; infatti l’alta provvidenza, ponendoli come custodi della V Bolgia, vietò loro di allontanarsi da essa. Laggiù trovammo dei dannati dipinti che andavano in tondo con passi lentissimi, piangendo e con aspetto stanco e prostrato. Avevano cappe con bassi cappucci davanti agli occhi, della stessa foggia di quelle dei monaci cluniacensi. All’esterno sono dorate, al punto di abbagliare; ma dentro sono tutte di piombo, e talmente pesanti che quelle di Federico II al confronto erano leggere come la paglia. O manto gravoso per l’eternità! Noi ci rivolgemmo ancora a sinistra insieme a loro, attenti al loro pianto angoscioso; ma quella gente a causa del peso procedeva tanto lentamente che noi avevamo nuovi compagni a ogni movimento di fianchi. Allora dissi al maestro: «Cerca di trovare qualcuno che sia noto per le gesta o per il nome, e mentre camminiamo volgi intorno lo sguardo». E un dannato, che sentì il mio accento toscano, gridò alle nostre spalle: «Fermate il passo, voi che correte in quest’aria oscura! Forse tu avrai da me quello che chiedi». Allora il maestro si voltò e disse: «Aspettali e poi procedi adeguando il tuo passo al loro». Io mi fermai e vidi due dannati che con lo sguardo mostravano una gran fretta di raggiungermi, ma il peso delle cappe e la via stretta li ostacolava. Quando ci raggiunsero, mi guardarono a lungo con lo sguardo obliquo, senza parlare; poi si rivolsero l’un l’altro e si dissero: «Costui sembra vivo per come muove la gola; e se invece sono morti, quale privilegio gli consente di non indossare il pesante mantello?» Poi mi dissero: «O toscano, che sei venuto nella compagnia dei tristi ipocriti, non disdegnare di dirci chi sei». E io a loro: «Sono nato e cresciuto nella grande città (Firenze) sopra il bel fiume d’Arno e ho ancora il mio corpo mortale. Ma chi siete voi, che un grave dolore opprime e spinge a versare lacrime lungo le guance? e qual è questa vostra pena che scintilla in tal modo?» E uno dei due rispose: «Le cappe lucide sono fatte di piombo e sono tanto spesse che il peso fa cigolare nello stesso modo le bilance. Fummo frati godenti e siamo nati a Bologna; io mi chiamo Catalano e questo è Loderingo, insieme chiamati da Firenze come di solito si chiama un solo magistrato per assicurare la pace; e ci comportammo in modo tale che ve ne è ancora testimonianza presso la torre del Gardingo». Io cominciai a dire: «Fratelli, le vostre pene…»; ma non dissi altro, perché il mio sguardo fu attirato da un dannato (Caifas), crocifisso a terra e legato a tre pali. Quando quello mi vide, si contorse tutto soffiando e sospirando nella barba; e frate Catalano, che se ne accorse, mi disse: «Quel dannato crocifisso che osservi consigliò i Farisei che era preferibile per il popolo martirizzare un solo uomo (Gesù). È posto nudo di traverso alla via, come vedi, ed è necessario che senta quanto pesa chiunque gli passi sopra, prima che sia arrivato dall’altra parte. E allo stesso modo è punito in questa fossa suo suocero (Anna), e tutti gli altri sacerdoti del Sinedrio che con la loro decisione causarono gravi sciagure al popolo dei Giudei». Allora io vidi Virgilio meravigliarsi sopra colui che era crocifisso a terra in modo tanto misero nella sua eterna dannazione. Poi si rivolse così al frate: «Non vi dispiaccia, se potete, dirci se a destra c’è un qualche passaggio da cui noi due possiamo uscire dalla Bolgia, senza obbligare qualcuno dei Malebranche a venire fin quaggiù a portarci via». Allora rispose: «Più vicino di quanto speri c’è un ordine di ponti che parte dal cerchio esterno e sovrasta tutti i crudeli fossati, salvo che su questa Bolgia è crollato e non la sovrasta: potrete arrampicarvi sulla rovina di rocce che giace sulla parete e si ammucchia sul fondo». Il maestro rimase un poco con la testa bassa, poi disse: «Colui che uncina i peccatori dell’altra Bolgia (Malacoda) mi ha raccontato la storia in modo non sincero». E il frate: «Io ho già sentito dire a Bologna che il diavolo ha molti vizi, compreso che è bugiardo e padre di menzogna». Dopodiché il maestro se ne andò a grandi passi, un poco turbato dalla collera nel suo aspetto; allora io mi separai dai dannati gravati dal peso e seguii i cari passi di Virgilio. |
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