IL FIUME E IL DESERTO – Parte ventiduesima: L’ultimo paladino di Francia

Luglio. Anno del Signore 1530

Era passata da poco la mezzanotte quando arrivarono presso il Nilo. Capitan Angelo fece un segnale con la lanterna e dopo un po’ si udirono i gorgoglii del Proteus che emergeva.

Il corteo cominciò a camminare verso il natante che veniva loro incontro, risalendo grazie alle ruote che ghermivano il fondo fluviale. L’acqua arrivava loro alle caviglie, ma quando la rampa venne calata cominciarono a salire all’asciutto. Non essendo ripida, la passerella facilitò il trasporto del tronetto dove sedeva Iside.

Non appena a bordo, percorsero il corridoio giungendo nella sala principale. Posarono il tronetto, piazzandosi a loro volta su sedili fissati al pavimento. Il capitano si affrettò a dare ordini all’equipaggio per il decollo. Le pareti vibrarono seguiti dalla sensazione di elevazione.

Non appena il volo del Proteus raggiunse la quota giusta e divenne stabile, si alzarono.

Loretta cominciò a togliere le bende dal corpo della regina. Come passatempo per la lunga operazione cominciò a parlare alla prigioniera.

«Come vedi, tua sorella non ha del tutto mentito; ci siamo infatti immersi nelle acque del Nilo, e adesso ci troviamo in cielo, vicini agli dei.»

Passò un po’ di tempo prima che Iside fosse scoperta del tutto. Le vennero lasciati i legacci, il bavaglio e la benda per gli occhi. Loretta proseguì.

«Stammi bene a sentire, reginetta: so che muori dalla voglia di blaterare le tue giaculatorie e ipnotizzarci riducendoci a schiavetti col tuo sguardo. Per questo non possiamo permetterci di liberarti la boccaccia e scoprire quei begli occhioni neri.

Ma fortunatamente, ora, a bordo, abbiamo un bell’intruglio che non solo ti renderà innocua per un po’, ma ti farà confessare vita, morte e miracoli sui vostri loschi piani. Non ricorderai quanto ci dirai.

Dopodiché ti soffieremo sul visino dei fumi e tu volerai dritta nel mondo dei sogni. E quando ti sveglierai sentirai cantare i gondolieri di Venezia e sarai ospite d’onore di Sua Eccellenza il Doge. E adesso, bevi alla salute.»

Le venne tolto il bavaglio, ma non fece in tempo a recitare alcuna formula magica: le venne alzata la testa e versata in bocca una bevanda che odorava di vaniglia. Un attimo dopo si irrigidì.

«E adesso risponderai a ogni domanda» ordinò Loretta.

                                                                           ***

Dalla finestra del Palazzo del Louvre, il Re di Francia e Sacro Romano Imperatore Francesco I osservava la sfilata dei fanti svizzeri. Erano lì per proteggere Parigi da qualche sortita ottomana, ma il sovrano sapeva che qualsiasi colpo di mano dei turchi sarebbe stato scoperto prima ancora che qualcuno di loro infilasse il naso dentro la Capitale.

L’aviazione dell’alleato italiano avrebbe debellato ogni tentativo di invasione, ed entro breve, gli svizzeri sarebbero stati inviati al fronte a dar man forte ai lanzichenecchi e pungolare la ritirata ottomana.

La sua regale sicurezza vacillò in un attimo non appena fu testimone di qualcosa che non sarebbe dovuto accadere. Gli svizzeri ruppero le file e si gettatono all’assalto dei soldati del re davanti al’ingresso. Ma agirono troppo lentamente e i militi all’interno del Louvre fecero in tempo a chiudere il robusto portone.

Mentre si chiedeva se quelli fossero turchi travestiti o traditori, li vide legare assieme un fascio delle lunghe picche ricavandone un ariete. Le guardie di palazzo cominciarono a sparare dalle finestre. Molti svizzeri caddero, ma i commilitoni risposero al fuoco, coprendo le spalle dei compagni che cercavano di sfondare il portone con l’ariete. Il Re si allontanò dalla finestra;  indossava la sua armatura da parata con l’elmo piumato e sfoderò la spada tenendosi pronto a combattere contro quei felloni traditori al soldo del nemico.

Fu allora che udì il rumore di rotori. Corse nuovamente alla finestra e vide volare un’aeronave. Salutò il Leone di San Marco dipinto sulla fiancata e benedì le raffiche di rivoltoni italiane che falciavano gli svizzeri, che però insistevano nel loro caparbio assalto. Vide la nave alzarsi e sparire sopra i tetti.

Dopo un po’ udì uno scalpiccio di stivali accompagnato dal clangore metallico di armature: gli alleati d’oltralpe stavano venendo in suo soccorso, sbarcati dal velivolo. Non fosse che lo cogliessero tremante e impaurito. Si guardò allo specchio; si osservò in elmo e corazza, spada in mano, novello paladino di Francia.

La porta si spalancò e un ufficiale armato di pistola guidò cinque soldati che stringevano archibugi a ripetizione. Sulle corazze era forgiato il Leone d’Italia. Il Re si impettì sfoggiando l’orgoglio francese dinnanzi all’alleato. L’ufficiale alzò la celata dell’elmo. Non poté trattenere un «parbleau!» spontaneo non appena vide il bellissimo volto da donna con due stupendi occhi neri che lo fissavano. Fece un inchino galante immedesimandosi in un antico cavaliere di Francia, un Rolando. Recitò un «Madame».

La donna assunse un’espressione stranamente intrigante. Fece un gesto ai subalterni e questi uscirono, lasciandoli soli. Il Re cercò di capire. Forse la bella italiana sognava un’avventura galante col monarca e imperatore più potente d’Europa?

Un attimo dopo, in un italiano dallo strano accento ordinò: «Maestà, ascoltatemi molto attentamente, non c’è un attimo da perdere…»

                                                                           ***

Lucrezia non credeva che quel sogno fosse finalmente realtà. Continuava a guardarsi allo specchio mentre il Sole all’Orizzonte le decorava il petto. Purtroppo, sarebbe stata costretta a tenerlo nascosto ogni volta che avrebbe incrociato i beduini, che non sospettavano di niente. Aveva lei stessa incaricato Ahmed di prendere il finto talismano dal cassetto e di riconsegnarlo all’orafo che l’aveva forgiato perché lo fondesse, distruggendolo.

E ora che Iside si trovava in Francia, lei si sentiva tranquilla. I problemi sarebbero ricominciati al ritorno della regina. Ma per quel tempo avrebbe riconsegnato il gioiello alla spia. Ma nulla avrebbe potuto toglierle la magica influenza del talismano che per un paio di giorni sarebbe stato a contatto col suo corpo.

La leggenda diceva che dopo un determinato tempo, una persona avrebbe fatto a meno della magia dell’oggetto e sarebbe stata capace di cose incredibili, come se un fluido divino avesse invaso il corpo. E lei era in vantaggio di ben due giorni dal momento in cui avrebbe dovuto condividere il Sole all’Orizzonte con la cosiddetta alleata.

                                                                           ***

Ahmed benedì la fortuna che fino ad allora gli aveva arriso. La stessa Lukia l’aveva incaricato di prendere il finto talismano. E lui l’aveva consegnato alla donna. E ora quella era convinta che si trattasse dell’originale, il quale, invece si trovava ancora al collo di Loretta, e, al momento, in viaggio verso l’Italia. 

La donna era soddisfatta e contenta. Passava ore davanti allo specchio e al momento non stava badando a lui. E neppure al complice, Gabriele, Satanico o come diavolo si chiamasse. La rivalità di Lukia con Iside era grande quanto quella con l’effeminato alleato. Era ora di scoprire quali trame quello stava orchestrando contro le altre due.

E soprattutto come si fosse impossessato dei segreti per la costruzione delle macchine. Bussò alla porta. Gabriele disse di entrare. Che strano individuo: non amava la presenza di altri esseri umani. L’unica compagnia erano quattro automini, che al suo ingresso voltarono le teste in sua direzione, come se fossero stati in in grado di udire e vedere. Nelle fondine portavano spade e pistole. Erano la sua guardia del corpo. Ahmed si chiedeva come delle macchine potessero provare un senso di fedeltà, essendo senz’anima e cervello.

«Cosa vuoi?» chiese Satanico. Nel tono dell’uomo non v’era né il disprezzo della regina, e nemmeno la falsa gentilezza melata di Lukia. Parlava in modo neutrale, quasi si stesse rivolgendo a uno dei suoi automini. Ahmed rispose risoluto.

«Messer Satanico, Iside mi ha ridotto a uno schiavo ubbidiente alla causa, non diversamente da questi automini. E la mia direttiva primaria mi obbliga a una indotta lealtà a tutti e tre. Purtroppo, le mie orecchie e occhi odono spiacevoli complotti a danno ciascuno dell’altro.»

«Sono al corrente che Lukia e Iside si contendono quell’oggetto che considerano dotato di forze magiche. Ascoltami, uomo, io non credo a queste fandonie e le mie due complici lo sanno. Credo nella scienza e mi fido solo di macchine costruite con apparati acustici e ottici in grado di reagire ai loro sensi meccanici.

Le mie guardie del corpo di metallo sono cani fedeli. Se dico di sparare e indico chi, quelli estraggono le pistole e ammazzano, senza scrupoli, né odio né rimorso. Se quelle mi aizzano addosso beduini o giapanghesi, i miei fedeli automini, invulnerabili, possono fare una strage.»

«Ma voi non credete alle forze occulte. E Lukia, grazie al talismano, è in grado di aizzarvi addosso demoni che nessun proiettile potrà scalfire.»

CONTINUA…

Torna alla ventunesima parte

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

Lascia un commento