Il Cantare del Cid – i poemi medievali
Il Cantare del Cid
Il Cantare del Cid (El Cid) è il più antico poema spagnolo ed è considerato una delle espressioni più alte dell’epica medievale europea. L’autore dell’opera, composta tra il 1140 e il 1157, ci è ignoto.
Il poema consta di tre cantares: la Canzone dell’esilio (El cantar del destierro), la Canzone delle nozze (El cantar de las bodas) e la Canzone dell’oltraggio (El cantar de la afrenta de Corpes) e si ispira a fatti storici attendibili.
Protagonista del poema è Ruy (abbreviazione di Rodrigo) Diaz de Bivár, un personaggio realmente esistito: nato nel 1040 a Bivár e morto nel 1099, egli si battè con coraggio e valore contro gli Arabi nell’epoca della reconquista spagnola; egli venne chiamato dai suoi stessi nemici «Sidi» (in arabo «Signore»), appellativo trasformato in «Cid» dagli spagnoli e associato a quello di «Campeadór» (vincitore in campo). Accusato dai cortigiani di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti al re Alfonso VI, il Cid venne esiliato: egli vagò per la Spagna con un pugno di amici fidati, compiendo grandi imprese, come la conquista di Valencia. Dopo aver conquistato una vasta regione e sottratto enormi ricchezze ai musulmani, il Cid mandò doni e omaggi ad Alfonso VI, il quale, pur non revocandogli la condanna all’esilio, autorizzò la sua famiglia a raggiungerlo.
Gli infanti (nobili eredi) di Carrión, due individui senza scrupoli, chiesero e ottennero di sposare le figlie del Cid, sebbene il padre fosse contrario. Rivelatisi dei codardi, i due tentarono di vendicarsi degli smacchi subiti, abbandonando Valencia e uccidendo le mogli per ereditarne le ricchezze. Le donne, lasciate agonizzanti in balia delle fiere, vennero tratte in salvo da Felez Muñoz, loro fedele cugino.
Il Cid chiese giustizia al re: a Toledo i suoi uomini sfidarono e sconfisero i traditori; a questo punto, due principi reali (gli infanti di Navarra e d’Aragona), chiesero di sposare donna Elvira e donna Sol, le due figlie di Ruy Diaz de Bivár.
Al pari di Orlando, il Cid è un difensore della cristianità e un fedele vassallo del re: egli incarna gli ideali tipici della sua società (il valore guerriero, la fedeltà incondizionata al sovrano, il senso profondissimo del dovere e dell’onore) ma riflette anche ideali assolutamente nuovi, legati alla mentalità “borghese” (egli viene descritto come impegnato «a guadagnarsi il pane»).
Inoltre, a differenza della saga dei Nibelunghi (che risuona ancora del clangore delle spade germaniche e dei miti pagani), il Cantare del Cid riflette i valori religiosi del Medioevo; nell’epoca in cui i regni di Navarra, Castiglia ed Aragona combattono per strappare il dominio della penisola iberica agli Arabi, esso è il poema “Cristiano” per eccellenza.
La canzone dell’esilio
Don Rodrigo Díaz viene accusato ingiustamente di essersi appropriato dei tributi dovuti ad Alfonso VI re di Spagna e viene quindi inviato in esilio. Lasciata la sua terra e la sua casa, il Cid parte insieme ad alcuni fidati compagni; arrivato a Burgos, dove non riesce ad ottenere ospitalità perché tutti temono le rappresaglie del sovrano, il Cid si accampa presso il torrente Arlanzón circondato da un gruppo di uomini decisi a seguirlo.
Triste pianto gli sgorgava dagli occhi, mentre volgeva il capo a guardare. Le porte erano spalancate, gli usci aperti, le scansie nude di pellicce e mantelli, niente falconi da gabbia, niente rapaci da muta. Sospirò il mio Cid, vinto dall’angoscia. Poi parlò con rassegnazione e misura: «Lode a te, o Signore, Padre che sei nei cieli! Ecco che hanno ordito contro di me nemici malvagi!».
I suoi fidi già sono pronti a marciare. All’uscita di Bivár videro la cornacchia a destra, entrando a Burgos l’ebbero a sinistra. Il mio Cid scrollò le spalle ed accennò col capo: «Orsù, Alvaro Fañez, sentite che vi dico; siamo scacciati di Castiglia; un giorno torneremo in questa terra con grandi onori».
Il mio Cid, Ruy Diaz, entrò a Burgos. Sessanta pennoni seguivano il Campeadór; tutti correvano per vederlo, donne e uomini. I Burgalesi si affollano alle finestre con le lacrime agli occhi. Che dolore! Tutti gli uomini d’onore dicevano la stessa cosa: «Che buon vassallo! Se avesse trovato un signore altrettanto buono!».
Con piacere lo avrebbero alloggiato, ma nessuno ci si arrischiava; s’era sdegnato con lui il re don Alfonso. Prima di notte era giunto a Burgos un dispaccio col sigillo reale e con ordini severi: «Nessuno ospiti il Cid, Ruy Diaz. Se qualcuno trasgredisca, sappia che gli capiterà: perderà gli averi e gli occhi della testa; non avrà salvo né corpo né anima».
Tutta quella gente cristiana ne aveva gran dolore. Si nascondevano al mio Cid, non osando rivolgergli la parola. Allora si diresse il Cid alla casa sua. Come giunse alla porta, la trovò sbarrata. Per timore del re Alfonso avevano creduto bene inchiodarla.
Se egli non l’avesse sfondata, nessuno gliela avrebbe aperta. I compagni del mio Cid chiamavano a gran voce; quelli di dentro non rispondevano. Il mio Cid dié di sprone, giunse alla porta, trasse il piede della staffa, calciò forte; la porta non si aprì; era stata sprangata molto bene. Ed ecco che una fanciullina di nove anni si accosta al Cid: «Cid Campeadór, che in buon’ora cingeste la spada, sappiate che il re ha proibito di ricevervi. Con un dispaccio sigillato ha impartito ordini severi. Non possiamo accogliervi e darvi asilo, se no perdiamo terreni e case; trasgredire all’ordine potrebbe costarci persino gli occhi, gli occhi delle nostre teste. O buon Cid! dal nostro male non guadagnereste niente. Che Iddio vi protegga, Cid, col suo santo potere».
Così disse la piccola e tornò verso casa. Il Cid comprese che dal suo re non poteva sperare grazia. Lasciò la porta e spronò verso la città. Giunto alla Chiesa di Santa Maria smontò da cavallo. Messi i piedi a terra pregava di cuore. Dopo che ebbe pregato rimontò a cavallo, passò la porta della città, traversò il rio di Arlazón. Fermatosi nei pressi della città, s’accampò in un luogo ghiaioso, fece disporre le tende e discese da cavallo. Il mio Cid Ruy Diaz, che in buon’ora cinse la spada, s’era accampato sulla ghiaia, poi che nessuno l’aveva accolto in casa. Aveva però intorno a lui parecchia gente. Così il mio Cid pose il campo, quasi fosse su una montagna. Il re ha proibito che in Burgos gli vendano alimenti: nessuno oserebbe vendergli neppure ciò che si compra per un denaro.
Il buon Martino Antolinez, un Burgalese assai compìto, provvide pane e vino al mio Cid ed alla sua compagnia. Nulla comprò; ne prese da quanto già aveva in casa. Lo provvide di cibi di ogni sorta. Il compìto mio Cid Campeadór gradì l’offerta, e così tutti gli altri. Parlò Martino Antolinez: «Orsù, Campeadór che nasceste in ora propizia! Questa notte riposeremo qui, prima di riprendere il cammino. Sarò certo accusato per quanto ho messo a vostra disposizione, né potrò sfuggire alla collera di re Alfonso. Ma, se riesco a scampare da questa terra, sano e salvo, presto o tardi il re mi rivorrà per amico; e se no, di tutto quello che lascio non me ne importa un fico».
Anonimo, Cantare del Cid, 1-78
(traduzione in prosa di C. DEL GRANDE)
Per ottenere denaro il Cid invia un suo messo da due ebrei che gli concedono un prestito prendendo a garanza due cofani che il Campeador dichiara essere pieni d’oro (in realtà, sono pieni di sabbia).
Il Cid prosegue quindi il viaggio e si reca al monastero di San Pedro de Cardeña dove sono rifugiate la moglie Jimena e le figlie, Elvira e Sol. Congedatosi poi da loro con grande sofferenza, varca il confine e comincia a guerreggiare contro i Mori conquistando moltissimi territori da Teruel a Saragozza. Ottenuto un ricco bottino, egli manda al re la parte legittima; il re accetta e, pur non revocando la condanna, consente che “i sudditi buoni e valorosi del regno che volessero andare in aiuto al Cid vadano”. Il Cid continua la sua marcia e, arrivato a Barcellona, dopo aver combattuto e vinto il Conte della città, lo fa prigioniero ma in seguito lo rimette cavallerescamente in libertà.
La canzone delle nozze
Il Cid continua le sue conquiste e, dopo aver sottomesso Valencia, invia al re una gran parte del bottino ottenuto chiedendogli di inviargli la moglie Jimena con le figlie: il re accetta; per riconoscenza il Campeador dona duecento cavalli al suo sovrano.
Ciò disse il Cid, che in buon’ora nacque;
poi tornava a Murviedro, in terre conquistate.
Andarono gli araldi per tutte le contrade.
Al gusto del guadagno nessuno vuol tardare,
e molte genti della buona cristianità accorrono.
Cresce in ricchezza il Cid, quel di Vivar.
Quando vide tante genti riunite si cominciò a rallegrare.
Il Cid Don Rodrigo non volle più tardare:
marciò verso Valencia, la cinse da ogni parte.
La strinse in duro assedio, non vi era modo di scampare:
nessuno può più uscire, nessuno può più entrare.
Volando ne arrivano nuove, volando da ogni parte;
più di quanti lo lasciano son quelli che a lui corrono, sappiate.
Diede una tregua, se mai qualcuno li venisse ad aiutare.
Per nove mesi cinse d’assedio la città, sappiate.
Quando giunse il decimo, dovettero capitolare.
Grande fu la felicità che corse da ogni parte
quando il Cid prese Valencia ed entrò nella città.
Furono fatti cavalieri quelli che erano fanti.
L’oro e l’argento, chi mai lo potrebbe contare?
Erano tutte ricche, quelle genti cristiane.
II Cid don Rodrigo si ebbe la quinta parte:
son trentamila marchi in denaro sonante;
ma gli altri beni, chi li potrebbe contare?
Lieto era il Campeador, con le genti cristiane,
nel vedere la sua insegna sventolare sul castello.
Già riposava il Cid con tutta la sua armata,
quando al re di Siviglia arrivava la notizia
che è caduta Valencia: nessuno li ha aiutati.
Li vennero ad affrontare con trentamila armati.
Si diedero battaglia presso il bosco,
il Cid li mise in fuga, l’uomo dalla lunga barba.
La cavalcata durò fin dentro a Jàtiva.
Al paesaggio del Jucar potevate vedere un’accozzaglia
di Mori lottar con la corrente, costretti a bere acqua.
Il re del Marocco con tre ferite scampa.
È ritornato il Cid, con la preda razziata.
Grande era stata Valencia, quando la città fu occupata,
ma fu molto più prospera, sappiatelo, quando venne conquistata.
Ai minori di tutti toccarono cento marchi d’argento.
Pensate fin dove arrivavano le notizie del cavaliere!
Grande allegria c’è nello stuolo dei Cristiani
che segue il Cid, colui che in buon’ora è nato.
Già gli cresce la barba e gli si sta allungando.
E disse il Cid, di sua bocca parlando:
“Per amore del Re Alfonso, che dalla sua terra mi ha scacciato,
non vi entreranno forbici né un pelo sarà tagliato:
e ne parlino pure il Moro e il Cristiano”.
Il Cid Don Rodrigo sta a Valencia riposando
con Minaya Alvar Fanez, che non si muove dal suo fianco.
Di ricchezze sono colmi quelli che hanno lasciato le loro terre.
A tutti ha dato case e beni a Valencia, ognuno ne è pago.
Così imparavano a conoscere l’amore del Cid
quanti con lui partirono o dopo che l’ hanno raggiunto,
ed ognuno ne è pago.
Anonimo, Cantare del Cid, 1195-1248
A corte di Alfonso i Conti Don Diego e Don Fernando (infanti di Carrion) e il Conte Don García, acerrimo nemico del Cid, provano una grande invidia e molto rancore. Per poter ottenere fama e ricchezza, i due infanti manifestano al re Alfonso il loro desiderio di sposare le figlie del Campeador. Il re approva e fissa un incontro sulle rive del Tago per discuterne: il Cid, pur non essendo molto convinto dei due pretendenti, per non dare un dispiacere al suo re concede la mano delle figlie.
Uscendo dalla messa, tutti sono riuniti
e prontamente il re dice queste parole:
«Uditemi, miei fidi, e voi nobili e conti!
Rivolgo un desiderio al mio Cid Campeador
e voglia Gesù Cristo che si risolva a suo favore.
Le vostre figlie chiedo, donna Elvira e donna Sol,
che le diate come spose agli infanti di Carrión.
Mi sembra un matrimonio ben degno e vantaggioso.
Sono essi che le chiedono e volentieri li appoggio.
Dall’una parte e dall’altra, tutti quelli che sono qui,
gente mia e gente vostra, si uniscono al mio voto.
Concedetelo, mio Cid, e vi assista il Creatore».
«Figlie già da marito», risponde il Campeador,
«non avrei, perché non sono nell’età giusta.
Hanno nome di prestigio gli infanti di Carrión:
sono degni delle mie figlie e di altre anche migliori.
Io le ho messe al mondo ma le formaste voi;
e siamo in mani vostre, io non meno di loro.
Perciò affido a voi le mie care Elvira e Sol.
Datele a chi volete, io ne sarò lieto».
Dice il re: «Grazie a voi e a tutta questa corte».
Anonimo, Cantare del Cid, 2070-2090
La canzone dell’oltraggio
Il cantare inizia con l’episodio centrale del poema: i principi, che si ritrovano ridicolizzati a Valencia a causa della loro codardia, arrivano al punto di maltrattare e abbandonare le loro spose, dando l’ultima dimostrazione della loro cattiveria e avidità.
Tolsero loro i mantelli e le pelliccie e quasi le denudarono, lasciandole in camicia e sottoveste. I malvagi traditori calzarono i loro sproni e presero in mano dure e forti cinghie. Le dame assistettero a ciò, e donna Sol disse: «Vi preghiamo, in nome di Dio, don Diego e don Fernando. Voi avete due spade forti e taglienti: Colada e Tizona. Tagliateci la testa e diventeremo martiri. I Mori e i Cristiani saranno d’accordo nel ritenere che non saremo state trattate secondo i nostri meriti. Non date così tristo esempio sopra di noi. Se saremo picchiate, sappiate che su voi cadrà il disonore. E dovrete renderne conto, sia nelle Corti, sia dinanzi ai probiviri».
Ma questa preghiera non ebbe alcun effetto. Gli Infanti di Carrion cominciarono allora a picchiarle. Con le cinghie scorrevoli le colpiscono con loro grande dolore e con gli sproni lacerano loro le camicie e le carni. Il sangue sprizza sulle sottovesti, e pare che si spezzi loro il cuore. Quale fortuna sarebbe, se, piacendo al Creatore, arrivasse in questo momento il Cid Campeador!
Le maltrattarono al punto da far loro perdere i sensi. Le camicie e le sottovesti ne furono insanguinate. Ed essi si stancarono di picchiarle, essendosi provati a gara a dare i maggiori colpi. Donna Elvira e donna Sol non poterono più articolare parola. Allora gli Infanti le credettero morte e le abbandonarono nel rovereto di Corpes. Portarono via i loro mantelli e le loro pelli d’ermellino e le lasciarono in camicia così percosse a morte; in balìa degli uccelli della montagna e delle bestie feroci.
Le lasciarono come morte, lungi dall’ imaginare che fossero ancora in vita. Quale fortuna, se fosse giunto in quell’istante il Cid! Le lasciarono dunque come morte, in modo che una non poteva soccorrere l’altra. E, via per le montagne, essi andavano rallegrandosi: «Siamo ora vendicati delle nostre nozze. Non avremmo dovuto prendere quelle donne neppure come concubine, senza esserne pregati, poiché non erano nostre uguali, degne di giacere fra le nostre braccia».
Anonimo, Cantare del Cid, 2720-2761
(liberamente tratto dalla traduzione in prosa di G. BERTONI)
Grazie all’aiuto di un nipote del Cid, Felez Muñoz, Donna Elvira e Donna Sol riescono a ritornare presso il padre che, addolorato e offeso, chiede giustizia al re. Don Alfonso allora convoca le Cortes a Toledo e ordina che abbia inizio il processo.
Sono in gravi pensieri gli infanti di Carrión
perché il re a Toledo ha riunito le cortes;
temono che vi sia il mio Cid Campeador.
Tra loro si consigliano, quanti parenti sono là;
il loro signore li dispensi di assistere alle cortes.
Dice il re: «Dio mi salvi, questo non lo farò!
Perché ci sarà pure il leale Campeador
e a lui risponderete, giàcché è in collera con voi.
Chi non volesse farlo o non verrà alle cortes,
abbandoni il mio regno, ha perduto il mio favore».
Anonimo, Cantare del Cid, 2985-2994
(traduzione di L. FIORENTINO)
Per prima cosa viene ordinato che i due infanti restituiscano tutto quello che hanno ricevuto in regalo e in dote dal Cid. Vengono in seguito ascoltate le accuse e alla fine avviene il duello fra tre valorosi compagni del Cid da una parte (Per Vermudoz, Martin Antolinez e Muño Gustioz), i due infanti e il loro campione Ansur Gonzales dall’altra. Il duello è vinto dai campioni del Cid con grande umiliazione degli infanti.
Passate le tre settimane, fissate come termine dal Re, gli uomini del Campeador erano desiderosi di compiere il dovere affidato loro dal Cid. Essi erano sotto la protezione di Alfonso di Leon. Aspettarono due giorni gli Infanti di Carrion.
Questi vennero provvisti di bei cavalli e guarnimenti con i loro parenti, coi quali avevano fissato di uccidere in campo, a disonore del Cid, i cavalieri del Campeador, se avessero potuto colpirli a parte prima del combattimento. L’idea era malvagia; ma nient’altro fecero, per la paura che avevano di Alfonso di Leon.
Durante la notte, fecero la veglia delle armi e pregarono il Creatore. Frattanto, passò la notte e spuntarono gli albori. Molti valorosi uomini si erano riuniti là per il desiderio di vedere il combattimento e, sopra tutti, vi era il re don Alfonso per ricercare e sostenere il diritto e opporsi al torto.
Rivestirono le armature quelli del buon Campeador, tutti e tre d’accordo, come uomini fidi a un solo signore. In altro luogo, si armarono gli Infanti di Carrion. […] Furono portati loro i destrieri buoni e corridori. Fecero il segno della croce sulle selle e cavalcarono a gran forza.
Avevano al collo gli scudi con solide borchie; avevano afferrate le aste dalla punta tagliente (ognuna di queste lance aveva il suo pennone) e intorno avevano molti valorosi baroni. Comparvero, così, sul campo, dov’erano le barriere. S’erano messi d’accordo, quelli del Campeador, che ognuno assalisse uno dei contendenti.
Ecco venire dall’altra parte gli Infanti di Carrion, con molto sèguito, perchè avevano lì numerosi parenti. Il Re diede loro dei giudici, a tutela dei loro diritti e non per altra ragione, e neppure per discutere con loro sul «sì» e sul «no».
Come furono sul campo, il re don Alfonso parlò: « Ascoltate ciò che io vi dico, o Infanti di Carrion. «Questo combattimento, avreste dovuto farlo in Toledo; ma voi non voleste. Io ho condotti, sotto la mia garanzia, alle terre di Carrion, questi tre cavalieri del Cid Campeador. Esigete i vostri diritti, ma non cercate l’ingiustizia, perchè se alcuno volesse commettere cosa ingiusta, io mi opporrei e tutto il mio regno ne sarebbe sdegmato».
Ciò ben pesava agli Infanti di Carrion. I giudici e il Re indicarono le barriere e tutti intorno lasciarono libero il campo. Fu detto a tutti e sei che chi usciva dalle barriere sarebbe stato considerato come vinto. Tutte le genti fecero largo in modo da interporre fra gli astanti e la barriera uno spazio di sei lance. Fu sorteggiato il campo e furono posti i combattenti in giuste condizioni di luce. I giudici si ritirarono e allora rimasero i cavalieri gli uni in faccia agli altri.
Avanzarono quelli del Cid verso gli Infanti di Carrion e questi verso quelli. Ciascuno d’essi teneva l’occhio sul suo avversario. Imbracciarono lo scudo, coprendosi il petto; abbassarono le lance con i pennoni e chinarono il viso sugli arcioni. Diedero di sprone ai loro cavalli e la terra pareva tremare laddove essi si mossero.
Ciascuno poneva mente al suo avversario. Eccoli, tre contro tre, azzuffati. Coloro che stavano d’intorno pensavano che a un tratto sarebbero caduti morti. Per Vermudoz, che per primo aveva lanciata la sfida, si scontrò con Fernando Gonzales. Si colpirono sui loro scudi, senza timore.
Fernando Gonzales attraversò lo scudo di don Per, ma colpì nel vuoto e non lo ferì. In due luoghi, ruppe contro di lui il legno della lancia. Stette saldo Per Vermudoz e non si scosse. Aveva ricevuto un colpo, ma ne diede un altro, gli ruppe la borchia nel mezzo dello scudo e la fece saltare via, glielo attraversò, nulla potè opporglisi. Gli piantò la lancia nel petto.
Fernando aveva tre doppi di corazza e ciò gli servì. Due furono rotti, ma il terzo resistette. Tuttavia, gli fece entrare il corpetto con la camicia e la guarnitura nelle carni, per quanto è lunga una mano. Gli uscì il sangue fuori dalla bocca. Si spezzarono le cinghie, di cui nessuna resistette e Fernando piombò a terra dalla groppa del cavallo.
Gli astanti lo stimarono ferito a morte. Però Vermudoz lasciò la lancia e mise mano alla spada. Quando ciò vide Fernando Gonzales, ben riconobbe Tizona e senza aspettare il colpo, disse: «Sono vinto!». I giudici di campo lo confermarono e Piero Vermudoz si allontanò. Martin Antolinez e Diego Gonzales si colpirono con le lance e i colpi furono così gagliardi che entrambe si spezzarono. Martin Antolinez mise mano alla spada.
Tutto il campo ne risplendette, tanto era lucida e fulgente. Gli inferse un colpo e lo prese da un lato. Gli gettò il casco dal sommo della testa e gli recise tutte le corregge dell’elmo. Gli tagliò il cappuccio e arrivò con la spada sino allo scuffione. Gli portò via l’uno e l’altro e gli recise i capelli, ferendolo sulla carne. Una parte dell’armatura del capo cadde a terra e il resto rimase sul cavaliere.
Quando Colada, la spada preziosa, ebbe inferto un siffatto colpo, Diego Gonzales vide che non avrebbe più potuto uscirne vivo. Volse la briglia al cavallo per mettersi di faccia; teneva la spada in mano, ma non l’adoperava. Allora Martin Antolinez lo ricevette con la sua spada. Gli diede un colpo piatto; non lo prese con il taglio. E l’Infante gridò a gran voce: «Assistimi, Dio glorioso; o Signore, guardami da questa spada». T
irò il cavallo per la briglia e sottraendolo alla spada, lo spinse fuori della barriera. Martin Antolinez rimase nel campo. Allora disse il Re: «Venite in mia compagnia. In sèguito a ciò che avete fatto, avete vinto il combattimento». I giudici confermarono che questa era la verità. Due sono rimasti vincitori.
Ora vi dirò di Muño Gustioz, come si comportò con Ansuor Gonzales. Si diedero sugli scudi dei grandissimi colpi. Ansuor Gonzales, vigoroso e coraggioso, colpì sullo scudo Muño Gustioz in modo da attraversarglielo e da rompergli l’armatura. Ma la lancia andò a vuoto, senza ferirlo nella persona. Dopo questo colpo, fu la volta di Muño Gustioz. Con un colpo gli ruppe lo scudo a mezzo. Non potè sostenerlo Ansuor e n’ebbe l’armatura spezzata.
Tuttavia, fu ferito di fianco e non nel petto. Ebbe piantata nelle carni la lancia, con il pennone, la quale gli uscì dall’altra parte per la lunghezza di un braccio. Muño Gustioz gli diede allora una scossa e lo smosse dalla sella. E tirando poi la lancia, lo gettò a terra. L’asta, la lancia, il pennone erano rossi di sangue. Tutti pensarono che la ferita doveva essere mortale.
Muño Gustioz abbassò di nuovo la lancia e lo minacciò standogli sopra. Ma Ansuor disse: «Non colpite, in nome Dio. Con ciò, la battaglia è vinta». Dissero i giudici: «Noi siamo di questo parere». Il buon re don Alfonso fece togliere il campo e si prese, per lui, le armi lì rimaste. Si ritirarono con onore i cavalieri del Campeador.
Grazie al Creatore, avevano vinto il combattimento. Grande fu il dolore, per le terre di Carrion. Il Re accomiatò i cavalieri del Cid durante la notte, affinchè non fossero assaliti e camminassero senza timore. Marciarono con prudenza di giorno e di notte e arrivarono finalmente a Valencia dal Cid Campeador.
Avevano lasciato gli Infanti di Carrion con la fama di vigliacchi e avevano compiuto il dovere che aveva commesso il loro signore. Ebbe ragione di rallegrarsi il Cid Campeador. Grande fu, invece, l’umiliazione degli Infanti di Carrion. Altrettanto accada, se non peggio, a chi oltraggia una nobile donna e poi l’abbandona.
Anonimo, Cantare del Cid, 3534-3553; 3582-3707
(liberamente tratto dalla traduzione in prosa di G. BERTONI)
Dopo il duello si presentano davanti alle Cortes due cavalieri che chiedono per i loro signori, il principe di Navarra e il principe di Aragona, la mano delle figlie del Cid. Il Cid accetta e avviene così un nuovo matrimonio che fa di donna Elvira e donna Sol due regine.
Festeggiano le nozze donna Elvira e donna Sol;
grandi furon le prime, ma queste son migliori,
e assai più che in passato il Cid sale in onore.
Vedete come s’innalza chi nacque in ora buona:
ha le figlie signore di Navarra e d’Aragona,
ed i sovrani di Spagna parenti oggi gli sono.
Anonimo, Cantare del Cid, 3719-3724
(traduzione di L. FIORENTINO)
Il poema si chiude con l’annotazione sulla morte del Cid Campeador, avvenuta nel 1099, molto probabilmente nel mese di luglio.
Crescon tutti in onore per chi nacque in ora buona.
Questa vita lasciò il Cid, di Valencia signore,
nel giorno di Pentecoste; Cristo l’abbia in perdono.
Così sia con tutti noi, o giusti o peccatori.
Sono queste le imprese del mio Cid Campeador,
e ora, in questo punto, ha fine questa storia.
Anonimo, Cantare del Cid, 3725-3730
(traduzione di L. FIORENTINO)
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