I colonizzatori
La nave si era staccata dal molo di pietra. Gli uomini ai remi impressero subito un buon ritmo, mentre altri si adoperavano per issare le vele. Quella nave portava a bordo un gruppo di uomini scelti dai maggiorenti della città.
La violenta carestia che imperversava sulla loro terra aveva costretto il consiglio degli anziani a decidere di inviare una nave in terre lontane con l’intento di fondare una nuova città, un nuovo insediamento per salvare, se possibile, parte della loro cultura.
La decisione aveva avuti momenti critici quando era arrivato il momento di scegliere chi doveva far parte della spedizione. Ci furono contrasti, ma alla fine furono scelti circa ottanta uomini per quella missione piena di speranze.
Su ordine degli anziani la nave doveva recarsi, prima del viaggio, presso l’oracolo che avrebbe anticipato parte del loro futuro. Dopo il rituale del sacrificio alla Dea si erano messi in viaggio. Il mare era calmo e la navigazione procedette tranquilla fino alle coste dell’isola dove dimorava l’oracolo.
Il capitano designato si recò, seguito dai suoi ufficiali, nell’antro per ascoltare il vaticinio. Deposero, come si usava fare, le offerte di cibo e preziosi e attesero seduti a terra che l’oracolo svelasse le sorti del viaggio intrapreso.
Il tempo passava ma niente accadeva, gli uomini erano in ansia, cominciarono a guardarsi intorno, a chiedersi se quel silenzio non fosse foriero di sventura. Gli animi erano tesi e il vocio aumentò fino a diventare un rumore di sottofondo fastidioso. Il capitano stava per zittire i suoi uomini, quando dal fondo della grotta si udì una voce potente, austera e severa.
“Uomini della Calcide, non siate frettolosi, non c’è motivo di avere premura. Il vostro viaggio è ancora agli inizi, andrete incontro a situazioni anche molto spiacevoli, ma alla fine raggiungerete la vostra meta. La riconoscerete quando la vedrete, ci saranno i segni di amore fra la donna e l’uomo ed è lì che dovrete fondare la vostra città. Qualcuno di voi non vedrà quel posto perché si perderà durante il viaggio, ma è il prezzo da pagare affinché tutto vada bene.
Ora lasciatemi riposare, io non posso dirvi di più, affidatevi alla Dea Artemide che sarà la vostra compagna di viaggio proteggendovi dai pericoli che incontrerete. Andate uomini e tenete in mente le mie parole, che gli Dei tutti vi siano propizi”.
Ascoltate le ultime parole, il capitano decise che potevano tornare alla nave rimasta sulla riva. Una volta saliti a bordo e alzate le vele Agatos radunò gli uomini in coperta per mettere al corrente chi era rimasto a bordo sulle profezie dell’oracolo.
“Compagni, quelli che erano con me hanno ascoltato il vaticinio. A voi che non c’eravate dico che ci ha esortati a proseguire il nostro viaggio con la certezza che arriveremo in un posto dove potremo fondare una nuova città e con l’aiuto delle donne che troveremo, dare vita alla nuova Calcide.
Certo questo viaggio non sarà privo di pericoli e qualcuno di noi si fermerà lungo il cammino. Quando siamo partiti sapevamo tutti di mettere in gioco le nostre vite, ma la speranza di riuscire nel compito che ci è stato assegnato, renderà la nostra morte degna del sacrificio che siamo disposti a offrire. Ora bando alle chiacchiere, alzate tutte le vele e affidiamoci alla lucente Artemide, lei ci guiderà verso l’ignoto”.
La nave procedeva sulle acque azzurre dell’Egeo che per fortuna era calmo. Man mano che proseguivano verso ovest incontravano isole dall’aspetto desolante, un panorama di pietre sbiancate dal sole e poche capanne al riparo di striminziti alberi.
Altre terre, invece, si presentavano a vederle da lontano, come una unica massa verde. Foreste che coprivano l’intera superficie.
Arrivarono nei pressi della capitale Atene e la videro appollaiata sulla collina che brillava al sole nel bianco dei suoi marmi e delle sue dimore patrizie. Il tempo di districarsi fra le innumerevoli isole e isolotti che facevano da contorno alla fulgida bellezza della città più potente della Grecia e, proseguirono a remi perché il vento era sceso improvvisamente.
Passato lo sbarramento degli isolotti videro pararsi dinnanzi un orizzonte senza visione di terre. Una distesa d’acqua che era diversa da quella che avevamo percorso finora. Era mare aperto, nonostante fossero abili marinai e avessero navigato in lungo e in largo nelle acque elleniche quell’orizzonte senza terre mise loro addosso un senso di ansia, d’insicurezza.
Non si erano mai spinti fino a quel punto. Nei loro viaggi avevano sempre avuto nel loro orizzonte la visione di terra.
Diede ordine di alzare i remi e alzare una sola vela, aveva visto il mare dare segni di mobilità e non voleva rischiare di perdere qualche vela per qualche improvviso colpo di vento. Procedevano lentamente, spinti dal leggero vento di levante che spingeva l’imbarcazione verso la direzione in cui erano diretti. Erano arrivati al centro di quelle acque diventate più scure, più mosse.
Il vento stava rinforzando e la barca prese a ondeggiare. Si alzava sulle onde più alte per poi cadere di colpo quando passata l’onda arrivava il richiamo dell’onda successiva. Tutti gli uomini a bordo sapevano cosa fare. Cominciarono ad assicurare le parti mobili con delle funi in modo da non perderle nella tempesta. La grande vela fu ammainata e alzate due più piccole, prendevano più vento e trasmettevano più spinta alla nave che beccheggiava come un guscio di noce.
Nonostante le condizioni disagevoli in cui si trovavano, il capitano ordinò di fare un sacrificio alla Dea Artemide affinché li preservasse dal pericolo. In fretta e furia fu allestito un’ara di bronzo e fissata al tavolato del ponte, su quello il sacerdote che nei viaggi non mancava mai, operò il sacrifico di un agnellino preso dalla stiva.
Raccolto il sangue in una coppa d’argento che serviva proprio a quello scopo. Lo offrì alla Dea alzando la coppa al cielo, poi affacciato sulla murata destra della nave fece cadere il sangue in mare. Mentre officiava al sacrificio non mancò di cantare le lodi della Dea. Una litania cantata sottovoce per non disturbare con la sua voce sgraziata le orecchie della divinità.
La tempesta nonostante il sacrificio non accennò a calmarsi, continuò ancora fino all’ora sesta quando il sole anche se nascosto dalle nuvole si apprestava a tornare da dove era uscito la mattina. Quando fu buio il vento cessò e il mare pur restando mosso placò il suo moto, permettendo alla nave di rallentare la sua corsa.
Gli uomini esausti guardarono le stelle per orientarsi e fare il punto di dove erano giunti loro malgrado. Scomparse le nubi nere, il cielo offrì lo spettacolo di una luna non proprio piena, ma luminosa abbastanza da permettere agli uomini di rendersi conto che davanti di dritta c’era una enorme massa oscura, sembrava una montagna enorme il cui profilo si stagliava nel blu della notte.
Cambiarono rotta in modo da giungere nei pressi della costa e attendere il levar del sole per un approdo di fortuna. Dovevano fare rifornimenti di acqua e cibo. Le onde della tempesta avevano contaminato l’acqua potabile e sfasciato diversi barili delle riserve di cibo. La notte non ci furono problemi e gli uomini poterono riposare dopo le fatiche del giorno.
Quando finalmente il sole fece capolino lo spettacolo che si presentò agli occhi dei marinai fu stupefacente. Erano approdati su una terra fertile, verde oltre ogni previsione e si estendeva per diverse leghe. Qua e là c’erano agglomerati di case bianche che spiccavano nel verde cupo del territorio.
Molti marinai non conoscevano questo posto, ma alcuni di loro dissero di sapere dove si trovavano. Era una grande isola e attaccata a questa doveva essercene un’altra un po’ più piccola e, una ancora più piccola. Erano sicuri che fossero tutte nel mar Ionio e che appartenessero alla Grecia.
Quello era il vero confine dei possedimenti ellenici. Oltre quelle vi erano terre sconosciute. Il capitano capì che il loro viaggio non era finito, non erano certo quelle isole le terre che dovevano colonizzare. Sbarcarono col favore della marea e si diressero a gruppi verso l’interno per procurarsi acqua e derrate alimentari; non sapevano quanti giorni di navigazione ci fossero ancora ad aspettarli.
Per evitare guai con eventuali nativi, scelse di non armare tutti gli uomini, solo quattro di loro, lui compreso erano armati di spada e un piccolo pugnale nella cintura. Per fortuna i gruppi di uomini trovarono subito quello che cercavano. Gli otri furono riempiti con l’acqua di un ruscello e nei campi coltivati presero lo stretto necessario per rifornire le scorte.
Solo una volta il gruppo del capitano vide da lontano delle persone intente al lavoro dei campi. Non si erano accorti di loro così poterono allontanarsi indisturbati. Tornati tutti sulla nave si misero ai remi, volevano allontanarsi senza far vedere nessuna vela.
Scelsero una rotta che puntava verso sud in modo da uscire dallo spazio visivo dell’isola e, come avevano detto i marinai, videro un tratto di mare che divideva la grande isola da una altra che sembrava più piccola. Non potendo fare il periplo si avventurarono nello stretto braccio di mare che divideva le due isole.
Il mare calmo e luminoso di sole quasi nascondeva alla vista la barca dei calcidesi che lentamente a remi attraversarono lo stretto e uscirono in un altro specchio d’acqua che non presentava terre all’orizzonte salvo quelle appena lasciate.
Approfittando del mare calmo alzarono tutte le vele che avevano, volevano allontanarsi il più velocemente possibile da quelle isole, inutile correre rischi quando la loro missione era un’altra.
Dopo due giorni di navigazione, agevolati da una brezza a favore, videro apparire una lunga striscia scura in direzione dritto di prua, era una terra che sembrava senza fine, per quanto guardassero ai lati dell’orizzonte quello che vedevano era solo quella striscia di terra si estendeva quasi senza fine.
Solo dopo un altro giorno di avvicinamento si accorsero che la costa, ora ben visibile, era piatta e con poca vegetazione. Si diressero verso nord est, convinti che questa rotta non li facesse allontanare molto dalla madre patria. Spinti ancora da vento favorevole giunsero in un punto dove a est si vedeva solo terra che questa volta invece che di fronte assumeva una forma a salire si estendeva verso l’orizzonte.
Quella, decise il capitano doveva essere la terra ferma, il continente e quella di fronte piatta e larga doveva essere un’isola. A quel punto era convinto che ci doveva essere uno stretto da qualche parte che divideva la terraferma dall’isola.
Lui voleva andare proprio là, risalire verso nord non era pensabile, andare dritti di fronte aveva visto che il territorio non presentava garanzie di poter sviluppare una nuova città. Se riusciva trovare il passaggio fra quelle due terre poteva sbucare dall’altra parte senza problemi.
Si misero in rotta parallela alla terra che riteneva un’isola e perlustrarono ogni metro di quel posto. Alla fine dopo quasi un giorno di ricerca videro uno squarcio d’azzurro fra le colline verdi che si affacciavano sul mare.
“Eccolo! Quello è il posto che cerchiamo, – esclamò agitato il capitano – finalmente abbiamo trovato il passaggio. Animo uomini, al di là di quel mare potrebbe esserci la nostra meta, ricordate cosa ha detto l’oracolo. La donna ama l’uomo, il messaggio non è così chiaro, forse approdando dovremmo vedere qualcosa che ci faccia capire il senso di quella profezia”
Animati dalla voglia di scoprire il reale valore di quelle parole strane e anche dalla possibilità che il viaggio stesse per terminare, gli uomini si diedero da fare per accelerare le operazioni. Virarono per permettere alla nave di posizionarsi al centro dello stretto canale che separava le due strisce di terra.
Sembrava che fosse più largo ma una volta entrati si accorsero che la distanza era minima, la nave ci passava agevolmente perché era piccola, ma le scogliere di destra erano imponenti e sovrastavano lo specchio d’acqua sottostante. Erano incantati dalla visione di quelle due rive opposte, procedevano a remi, inutile fare vela in quelle condizioni, i remi davano più possibilità di manovra improvvisa.
Non erano ancora giunti alla metà del canale, quando improvviso si alzò il vento e nello stesso tempo una strana e violenta corrente sottomarina fece sbandare la barca, i rematori si trovarono nella condizione di non poter reggere la forza della corrente e del vento.
La barca prese a sbandare e nonostante gli sforzi degli uomini andò alla deriva. Il vento la spingeva contro la parte rocciosa che era a dritta. Le onde non erano alte, ma la corrente era forte e impetuosa, si era impadronita della barca e la stava sballottando verso la costa.
Il capitano cercò di vincere quella forza facendo alzare qualche vela per cercare di contrastare il vento ma il risultato fu che rischiarono di capovolgersi. Lui era incredulo, non capiva come potesse succedere questa sequenza di fatti negativi. Avevano navigato in mare aperto per giorni senza problemi e adesso in un braccio di mare in teoria protetto da due lati stavano rischiando tutto.
Non vedeva una via d’uscita, voleva fare ancora un sacrificio alla Dea che doveva proteggerli, ma la situazione era tale che non poteva distogliere nemmeno un uomo dalle manovre per salvare la nave e i suoi occupanti. Per quanti sforzi facessero la nave andava sempre di più dritta verso gli scogli.
A quel punto trovandosi quasi a ridosso della parete rocciosa Agatos non poté fare altro che ordinare di abbandonare la nave. Gli uomini lasciarono le proprie occupazioni e si gettarono in mare. L’ultimo fu proprio il capitano Agatos che diede un ultimo colpo di timone nel tentativo di evitare l’impatto frontale, poi alzando gli occhi al cielo come per invocare ancora l’aiuto della divinità si lanciò anche lui in acqua.
Il contatto con l’acqua fu traumatico perché immediatamente i flutti lo spinsero verso gli scogli e fu necessaria tutta la sua vigoria per riuscire a rallentare la spinta delle onde. Arrivò d’impeto ai primi scogli affioranti e con un notevole sforzo riuscì a tenersi ad alcuni di essi. Si erse su una pietra che emergeva a metà e da lì poté osservare i suoi uomini che annaspavano nel ribollire di schiuma.
Ricordò le parole dell’oracolo che aveva previsto, non tutti riusciranno a trovare la terra e si fermeranno lungo la strada. Questo era il tributo di sangue dovuto, infatti si accorse di diversi corpi ormai senza vita che galleggiavano sull’acqua sbattuti sugli scogli.
Gli venne d’imprecare contro gli Dei:
“Perché avete aspettato che arrivassimo alla meta per chiedere i morti richiesti? Non potevate fare in modo di ottenerli strada facendo, almeno non avrebbero sofferto per aver assaporato la fine del viaggio per poi annientarli.
Oh! Dei beffardi e spietati, che necessità c’era di richiedere queste vite, un sacrificio inutile. Giovani vite spezzate solo per il vostro capriccio. È inutile allora fare tanti sacrifici, immolare giovani animali solo per ottenere favori da voi che non arriveranno mai. Sarete soddisfatti adesso”
La nave intanto con un rumore assordante era andata a schiantarsi contro le rocce. La prua si era incastrata fra due sporgenze e imbarcava acqua, tuttavia rimase lì dov’era. Non poteva muoversi stretta com’era fra due spuntoni di roccia. Dopo essersi reso conto di cosa era successo fece un lungo fischio di richiamo per sapere la situazione degli uomini. Al suo fischio ne risposero molti altri, quindi, si disse erano in molti ancora vivi.
Saltellando sugli scogli cercò di mettersi in una posizione più alta per avere sott’occhio com’erano messi. Uno alla volta gli uomini si riunirono intorno a lui, poco lontano la barca ormai perduta era sbattuta dalle onde e da un momento all’altro poteva sfasciarsi del tutto.
Uno di loro invocò a gran voce l’intervento della Dea chiedendo protezione e aiuto:
“Oh, divina Artemide, sorreggici nel momento del pericolo, intervieni a salvarci dalle insidie del mare, intercedi per noi con il possente Poseidone, che ci faccia salva la vita”.
Agatos dopo aver ascoltato le lamentele del suo marinaio alzò un braccio in segno di silenzio e con fare autoritario mise fine a quella litania.
“Basta adesso, inutile farsi delle illusioni, nessuna Dea o Dio interverrà a nostro favore, se non ci diamo da fare noi moriremo tutti su queste pietre. Gli Dei hanno parlato attraverso le parole dell’oracolo, ci hanno detto tutto quello che dovevamo sapere. Finora tutto è andato come ci è stato annunciato. Abbiamo avuto i nostri morti e siamo arrivati dove dovevamo.
Tocca a noi adesso dimostrare che siamo in grado di proseguire con le nostre forze. Quello che abbiamo portato con noi, gli attrezzi per edificare una nuova città, i semi, la nostra intelligenza e la nostra capacità basterà a fare di noi i pionieri di questa nuova stirpe di Calcidesi.
Ora senza perderci in chiacchiere, cerchiamo di recuperare quello che ci serve dalla nave prima che la stessa sprofondi in questo mare infido e traditore. Forza uomini, la storia si aspetta molto da noi”.
Dette queste parole gli uomini rincuorati si affrettarono a risalire sulla barca e con un passamano veloce portarono su una piccola insenatura sabbiosa tutto il materiale disponibile.
Ora si poneva il problema di come fare per trasportare il tutto sul punto scelto dagli Dei. Guardando verso l’altra parte del canale videro che da quella parte la riva non era rocciosa, ma piuttosto bassa e prima di arrivare alla costa vera e propria c’era un pezzo di scogliera con una strana forma.
Agatos intuì che quella doveva essere il luogo dove dovevano recarsi, c’era solo l’ostacolo di come superare la distanza da dove si trovavano loro e l’altra sponda. Gli venne l’idea di creare delle zattere con il fasciame della loro nave ormai persa e trasportare con quelle loro stessi e il materiale.
Ordinò che, asce alla mano, cominciassero subito a ricavare dai fianchi della barca, larghe tavole che, una volta legate fra di loro, potevano sostenere il materiale. Quel lavoro durò tutto il giorno e, al calar della notte, erano ancora occupati in quella attività.
Riposarono senza dormire su quelle tavole appena preparate e alle prime luci dell’alba la prima zattera carica di uomini e materiale prese il via verso la riva opposta. A distanza di poco partì la seconda e così via fino all’ultima sulla quale trovò posto Agatos.
Si vide allora una fila di legni carichi di uomini dirigersi verso quella striscia di terra dalla strana forma; avvicinandosi ebbero modo d’identificarla come una lunga falce, al suo interno le acque erano calme, protette da quel braccio di terra che avvolgeva buona parte della costa. Era l’ideale per crearci un porto, dove le navi avrebbero trovato rifugio sicuro dalle correnti micidiali del canale.
Il capitano da esperto marinaio già intravedeva in quel posto un eccellente riparo per le future navi che avrebbero costruito. Una alla volta le zattere, per fortuna senza incidenti, raggiunsero la riva sabbiosa e gli uomini poterono scaricare le loro risorse indispensabili alla sopravvivenza. Una volta messo al sicuro il materiale si guardarono intorno e decisero di spingersi almeno per un po’ verso l’interno.
Non si vedevano insediamenti umani nei paraggi. L’oracolo aveva parlato di femmine, di donne che amano gli uomini, ma là non c’era traccia di vita. Lasciato un gruppo a guardia, gli altri risalirono le piccole colline che delimitavano la riva e si affacciarono oltre la cima. Il panorama che si offrì ai loro occhi era stupefacente.
Alle spalle di quel promontorio si estendeva una distesa infinita di terra rigogliosa e verde. Videro anche un fiume che sfociava poco lontano. In lontananza s’intravedeva anche la sagoma di un’alta montagna. Alle spalle era il mare con quella falce di terra a protezione della costa. Era il luogo ideale per costruirvi una città.
Le parole dell’oracolo si stavano avverando una dopo l’altra e Agatos finalmente riuscì anche a sorridere. Erano giunti in un posto magnifico e ben presto quella che era una speranza o una chimera, come in cuor suo pensava, si sarebbe tramutata in realtà.
Solo una cosa ancora non aveva avuto riscontro, la profezia della donna che amava l’uomo. Quelle parole gli erano rimaste impresse nella mente, ma ancora non aveva visto nulla che facesse pensare a quell’argomento. Rimase sulla cima di quella piccola altura a rimirare lo spettacolo imponente della natura, davanti a lui nella pianura sottostante si vedevano chiaramente alberi d’ulivo a distesa verso l’interno e questo era già un buon auspicio: dove c’era l’ulivo c’era vita e ricchezza.
Poi il suo sguardo si soffermò su un particolare che attirò la sua attenzione. Mentre i suoi uomini erano già discesi verso il piano a raccogliere olive e a cercare piante commestibili lui fissò lo sguardo su un particolare che lo aveva incuriosito.
C’erano diverse piante di vite, le conosceva bene, anche nella Calcide ce n’erano molte, che per sopravvivere si erano attorcigliate introno a maestosi alberi che così fungevano da supporto alla delicata pianta. Sottoposta ai venti che soffiavano violenti sul canale la vite non poteva resistere a lungo se non avesse trovato quel modo di sopravvivere, un po’ come fa al donna debole che si affida alla forza dell’uomo per vivere una vita tranquilla, in cambio lei ricambiava quella protezione accudendo e facendo in modo che all’uomo non mancasse niente.
D’improvviso nella mente di Agatos scattò il ricordo delle parole dell’oracolo. Ecco dunque il riferimento della donna che ama l’uomo disse fra sé, “ho capito cosa voleva dire quell’enigmatica voce in quella caverna.” Tutto combaciava adesso, sorrise e si rilassò, erano arrivati nel posto giusto.
Lì dovevano edificare e far sorgere una nuova vita, una nuova città che avrebbe portato benessere e sostegno alla sua gente, mancava però l’ultimo tassello perché tutto avesse inizio. Le donne! Dov’erano le donne per procreare? In cuor suo non si preoccupò molto di questo se l’oracolo aveva detto che ci sarebbero state di sicuro sarebbero uscite fuori quanto prima. Con il consueto lungo fischio prolungato chiamò a raccolta i suoi uomini e spiegò loro la situazione.
Erano trascorsi due interi cicli lunari quando finalmente le prime capanne costruite ospitarono gli uomini della spedizione. Nell’ultimo tragico confronto con il mare avevano perso sei compagni ai quali fu rivolto un tributo per ricordarli, eressero una stele a futura memoria in un punto discreto nascosto alla vista.
Alcuni si dedicarono a un lavoro che sembrò inutile al momento, ma che in seguito avrebbe avuto importanza strategica. All’imbocco di quello che ormai era stato definito come il porto naturale, l’inizio della striscia di terra a forma di falce, c’era in acqua un enorme masso appuntito che si ergeva come una stele, su quello scolpirono in modo piuttosto evidente a chi entrava in porto l’effigie delle Dea Artemide.
Un enorme viso femminile messa lì a protezione dello specchio d’acqua e anche per affermare il diritto di proprietà dell’intera zona. Le viti furono curate, gli ulivi potati e puliti, nella piana furono piantati i semi portati dalla loro terra, tutto procedeva secondo gli intenti previsti, mancavano ancora le donne.
Successe una mattina di primavera quando la natura si sveglia e copre la terra di fiori e di nuova erba verde e brillante. Dall’altra sponda dov’erano naufragati gli uomini videro un movimento di persone. La curiosità e la speranza ancora custodita nel cuore li spinse a tentare la traversata con delle piccole imbarcazioni costruite per la piccola pesca.
Diverse di queste barche si diressero verso la costa irta di scogli. Dal loro naufragio non avevano più guardato verso quella costa che gli aveva procurato lutti e disagi. Ora però recandosi verso quella parte notarono a che alla sinistra della zona degli scogli c’era una bassa e bianca striscia di terra che presupponeva la presenza di banchi di sabbia.
Diressero le barche verso quella parte di costa e in breve giunsero su una splendida distesa di sabbia finissima che si prolungava verso l’alto a perdita d’occhio. Sulla riva trovarono gruppi di persone in attesa, erano in maggioranza donne che accolsero con un sorriso gli uomini venuti dal mare. Al momento non si capirono. Parlavano una strana lingua ma fra gli uomini presenti nel gruppo si fecero avanti alcuni che si misero a parlare con un linguaggio conosciuto a molti degli uomini di Agatos.
Erano senz’altro ellenici anche loro anche se di altre etnie, lontane dalla Calcide. Non ci misero molto a capirsi e a riunirsi intorno a un fuoco, mangiando carne e bevendo vino portato dalle donne.
Spiegarono che loro erano Cumani, erano anche loro in cerca di luoghi da colonizzare, ma che erano stati lasciati sul posto dalla flotta di navi diretta più a nord. La loro nave era affondata per uno scontro con uno scoglio e il capitano aveva deciso di proseguire con il grosso delle navi, lascando loro su quella riva.
Si erano insediati e adattati, ma non avevano potuto fare molto, non avevano ferro per fare attrezzi, né semi da piantare, avevano solo sfruttato le risorse trovate in loco, avevano fatto il vino e l’olio con i quali fatto dei piccoli scambi con qualche tribù locale, ma era troppo poco per progredire.
La presenza dei Calcidesi non era passata inosservata e aspettavano solo il ritorno del bel tempo per tentare di farsi notare e scambiare informazioni.
Agatos ascoltò i racconti di quella gente e sapeva già cosa fare. Chiese di quante unità si componesse il loro gruppo e con sorpresa scoprì che era piuttosto numeroso, circa duecento unità fra maschi e femmine. Le donne erano in maggioranza perché molti uomini erano morti nel tentativo di lasciare quella terra per esplorare i dintorni.
Al termine della giornata fu tenuto un consiglio come era uso fra gli elleni, sul da farsi e alla fine furono d’accordo di riunire tutti in un solo grosso gruppo e di dividerlo in due parti una sarebbe rimasta sulla costa rocciosa e l’altra invece su quella di fronte. Erano divisi, ma abbastanza vicini da soccorrere gli altri in caso di necessità.
Le donne furono divise fra i due gruppi e dalla loro unione sarebbero nati i futuri abitanti delle due nuove città. Dalla parte rocciosa dove erano naufragati sorse il primo agglomerato urbano che fu chiamato Rhegion, sarebbe diventata molti secoli dopo la città denominata Reggio Calabria e di fronte invece sorse una città chiamata Zancle che significava falce. Nome preso dalla strana conformazione della striscia di terra davanti la costa, sarebbe diventata nei secoli la città di Messina.
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