Donne Maledette 3/13
III – Valeria
In quel periodo non navigavamo in buone acque: mio padre ha trascorso gli ultimi anni di vita a cercare di rimediare agli errori di mio fratello e alla fine si è arreso, ha gettato la spugna lasciandoci tutte in un mare di guai con i creditori alla porta e spesso, anche i carabinieri dentro casa.
La mamma, ormai alla deriva da un pezzo, navigava sulla zattera della commiserazione mentre le mie sorelle, chi più chi meno, si erano rimboccate le maniche e avevano iniziato a remare.
Io ero troppo giovane e forza di remare non l’avevo ancora, ma coraggio e intraprendenza non mi mancavano: fu così che decisi di chiedere aiuto a chi un tempo, prima di fare fortuna, era stato un caro amico di mio padre.
Al telefono dopo qualche minuto d’attesa la sua segretaria mi disse: “Per lei il dottore farà un’eccezione, la riceverà domani stesso, l’aspetta alle 12, si raccomanda la puntualità perché poi ha un importante pranzo d’affari.”
Non fui sicura se dovermi sentire lusingata o offesa, comunque il giorno dopo entrai nel suo ufficio alle 12 in punto sprofondando sulla moquette alta un palmo.
Ricordo che restai incantata dal panorama che si vedeva tutt’intorno, dietro a vetrate lustre e trasparenti; la sua scrivania di mogano troneggiava al centro davanti a due poltrone comode e soffici come materassi di nuvole.
Rammento tutto perfettamente di quel giorno, persino il notturno di Chopin che la filodiffusione mandava col volume al minimo.
Lo zio Francesco, così lo avevamo sempre chiamato i miei fratelli e io, dopo avermi indicato con un gesto di sedermi mi sorrideva di tanto in tanto, fra una firma e l’altra che apponeva su documenti infiniti impilati dentro una cartellina verde malva: alzava lo sguardo da sotto le lenti, mi squadrava, poi mi lasciava a friggere senza decidersi a prestarmi attenzione.
“Immagino che tu sappia perché sono venuta a disturbarti” feci io a un certo punto dopo aver guardato più volte la lancetta dei minuti che correva invano “Ci troviamo in una situazione molto difficile, abbiamo bisogno di un aiuto economico per prendere un po’ di respiro dai creditori..”
“Lo so” rispose lui infilandosi la pregiata penna nel taschino interno della giacca e poggiando gli occhiali sulla scrivania.
“Ti posso assicurare che riavrai fino all’ultimo centesimo” feci io “Non ti sto chiedendo un regalo, solo un piccolo prestito.
Ti giuro, ti restituiremo tutto, anche a rate se vuoi e nel più breve tempo possibile”.
Allora lui iniziò un discorso lungo, tortuoso, inconsistente: parlò della profonda amicizia con papà, della fragilità di mia madre, di quanto avesse pesato la loro condiscendenza sulla sventatezza di mio fratello… tutte cose che ovviamente già sapevo.
Poi cominciò a parlare del mio futuro, dell’incertezza che la società riservava ai giovani e dei pericoli che avrei dovuto affrontare senza l’appoggio di un padre.
A un certo punto ebbi persino l’impressione che volesse mettermi contro la mia famiglia: me la descriveva come una specie di piovra che a breve mi avrebbe stritolato fra i tentacoli e tirato a fondo con lei. Non mi piacquero affatto quei discorsi!
Intesi che stesse girando a vuoto per non sputarmi in faccia un difficile diniego, sulle prime pensai di lasciarlo cuocere nel suo brodo e godermi quello squallido spettacolo, poi però sentii di non provare alcun piacere nel vederlo contorcersi nelle sue stesse spire, anzi sentii pervadermi da un senso di nausea al quale preferii sottrarmi alla svelta.
Stavo già per sollevarmi dalla poltrona e andare via quando lo vidi girare intorno la scrivania, afferrarmi il braccio e fissarmi con i suoi piccoli occhi da serpente obbligandomi a restare seduta.
“Se resti con me” mi sussurrò “Sistemerò io tutti i vostri debiti.
Alla tua età ti serve una guida, dammi retta, resta, fai la scelta giusta!
Con me ritroverai una vita tranquilla, sei ancora troppo giovane per caricarti di tutti questi pensieri”.
“Che dici?” gli chiesi vergognandomi per lui “Che ci resto a fare con te?”
“La regina!” rispose allora lui, sempre più lascivo.
“E che cosa vuoi in cambio?”
“Non voglio ricompense, ti assicuro, mi accontenterò di guardarti… di quando in quando… non fare cattivi pensieri, non voglio toccarti, mi basterà guardarti e restare un po’ da soli, tu e io, senza nessun altro.
Neanche immagini da quanto lo desidero! Resta e pagherò tutto, non dovrai più preoccuparti di nulla”.
In un flash vidi mia madre e le mie sorelle tornare serene e vi confesso che per un attimo fui tentata di mangiare quella mela avvelenata, ma fu solo un attimo poi… non sentii più nulla.
Dimmi, da quanto mi desideri?” chiesi io fingendo condiscendenza.
“Ti ho amata da sempre” rispose rassicurato dalla mia voce “Da quando ti tenevo sulle ginocchia! Da quando ti ho tenuta in braccio la prima volta, dal giorno del tuo battesimo!”
Sicuro di avermi già convinta a quel punto mi afferrò le spalle avvinghiandomi in spirali scivolose.
Non capii più nulla, fu un attimo: presi il tagliacarte sulla scrivania e lo colpii senza chiedermi dove finisse la sua punta e dedicando ogni colpo alle volte che ero stata desiderata senza accorgermene.
Quando mi aveva preso sulle ginocchia, zac!
Quando mi aveva accarezzato, zac!
Quando mi aveva stretto al petto, zac!
Quando mi aveva tenuto stretta la manina al cinema, zac!
Quando mi aveva insegnato a nuotare, zac!
Tutte le volte che era venuto a prendermi a scuola al posto di mia madre zac, zac, zac!
“Ecco qua, questo è tutto!”.
“Si dichiara dunque colpevole?
“Sì, l’ho colpito io quel verme!”
“Moderi i termini, risponda senza commentare!” borbottò il giudice silenzioso guardando gli incartamenti che aveva fra le mani.
Lo osservai aspettando che desse il verdetto di condanna e in quell’attimo ebbi la sensazione che ripensasse a qualcosa di privato, a un ricordo doloroso che gli faceva stringere gli occhi e ingoiare a fatica la saliva.
“Portatela via” sospirò alla fine alle guardie.
Mi ha dato trent’anni, poi me ne ha tolti la metà per buona condotta.
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