Discepoli dell’ira
“Non esiste la Luce. Dentro di noi, dentro al nostro corpo, è buio.”
Voi non lo conoscete come lo conosco io, sorelle. Voi ne avete solo sentito parlare, udendo il riverbero delle sue gesta nell’ombra, ma io che ho vissuto insieme a lui in quei giorni travagliati nel gelido nord, io vi posso dire che non era pazzo, era un uomo dilaniato, due lembi di una ferita purulenta tenuti insieme da legacci di ferocia e disperazione.
Sì, sorelle mie, sono accusata di averlo amato, per quanto sia blasfemo ciò per cui mi avete posto alla sbarra, eppure dico, qui dinanzi a tutte, di averlo amato e di continuare ad amarlo.
Le sue colpe, molteplici lo ammetto, derivano dalle colpe di altri e se aveste visto il suo sguardo di piombo, sapreste con quanto ardore anelava la redenzione, quanto lo sforzo che impiegò per contrastare la propria natura, il proprio passato, gli oneri che, – sfido ognuna di voi -, quell’uomo è stato in grado di sopportare.
Sedeva da ore su una panca di legno nella stazione, l’ultima stazione, di Agònberoch. Una città di pietra, un baluardo arroccato sulle rocce eterne delle montagne, talmente a nord nelle nebbie e nel gelo che gli stessi saaniti ne ignorano l’esistenza.
Quali fossero le intenzioni che lo avevano condotto lassù, ormai, dovevano essersi spente nel freddo e nella fame.
Era magro, stanco, zigomi nervosi, occhi da assassino di un grigio tempestoso. Aveva capelli e barba color castano biondo, incolti, selvaggi, emblemi del tormento che portava dentro.
Gli abitanti della città avevano imparato che quel viandante era innocuo, eppure se ne tenevano a distanza perché egli pareva irradiare una luce di tenebra. Chi incrociava il suo sguardo febbricitante, le sue pupille veloci, abbassava la testa e tirava dritto, saliva sulle carovane trainate da cavalli scuri dal folto manto.
Quell’uomo non chiedeva mai, non implorava mai, non gemeva di dolore anche se le sue ossa erano gelide e rigide, non parlava anche se la fame riempiva di visioni i suoi occhi. Fu così che lo trovai.
Sorelle, so bene quanto sia proibito interrogare il futuro per proprio tornaconto, ma ero bloccata in quell’interminabile viaggio, in una terra talmente ostile da temere per la mia incolumità.
Così, al tepore di una minuscola stufa, durante l’ennesima tempesta di neve che ululava, estrassi le carte dal velluto e chiesi per me stessa di rivelare il Destino. Capirete, sorelle tutte, che quando la Bestia fu estratta dal mazzo, quando vidi la sagoma nera del Cane a Tre Teste, fui presa da grande agitazione.
Per questo mi diressi alla stazione, per sapere quando la prossima carovana sarebbe partita, per sapere se vi era speranza di abbandonare quel luogo; e fu così che lo incontrai.
Ci viene insegnato il saper cogliere ogni segno, ogni dettaglio; io vidi sotto la pelliccia d’orso che olezzava di carogna, sotto gli strati di grezza lana intirizzita, il brillare di uno stemma rosso all’altezza del collo, e compresi che mendicante non era.
L’uomo se ne avvide, alzò la testa come se sapesse dove si era posato il mio sguardo, e mi sentii inchiodata alla porta di pesante legno della stazione. La saletta dei viaggiatori era vuota e non vi era speranza che lo straccione seduto sulla panca fosse interessato ad altri che me.
La barba incolta si mosse appena, segno che l’uomo stava parlando, e la sua voce era flebile e distante eppure dura e senza esitazioni. Era la voce di un uomo istruito, di un comandante, di un avventuriero, era una voce che parlava da un abisso le cui ripide pareti erano morte e rimpianto.
“Di quale peccato avete macchiato la sorellanza per esiliarvi in questo inferno bianco?”
“Come vi permettete!” rizzai il mento dallo sdegno.
“Se fuggite da qualcosa non è qui che dovevate venire.” Continuò senza dare peso al mio volto. ”Non vi è altro al di là di questi monti, non esiste fuga da se stessi.”
“Io non fuggo, signore.” Replicai altezzosa. “Io onoro la sorellanza nel compiere il mio dovere.”
Sorrise. Sorelle, noi viviamo tra le genti di Saanìa, al fianco di nobili e re, al fianco degli abbienti e dei poveri, siamo addestrate a leggere i segni del corpo e del volto, siamo avvezze a manipolare il maschio e a sedurre la femmina eppure, quell’accenno delle sue labbra bluastre e sottili, mi lasciò senza parole: egli guardava il mondo come una beffa, una farsa, la replica di una replica in un teatro di terz’ordine, e tutto quello che credevo di sapere crollò nella mia anima come un castello di carte.
Ora, sorelle mie, fate pure dileggio di me, ma auguro ad ognuna di voi di provare ciò che io ho provato.
“Dovere.” Assaporò la parola come se fosse una medicina, un rimedio brutale per una malattia incurabile. “Il dovere è una veste di menzogne sotto la quale nascondere la propria coscienza.”
“Dite?” lo fronteggiai. “Il dovere è ciò che ci rende umani, ci divide dalle bestie. E’ ciò che ci rende onorevoli e onorati nel mondo civile. Come potete dire una cosa del genere?”
“Come posso?!” sibilò.
Avvertii una vampa provenire da lui, un’onda di volontà pura, densa come pece. Sorelle, io rimasi ammutolita e spaventata. Mai essere umano aveva sconvolto così la mia anima sottile. Avevo toccato qualcosa in lui, perché le parole uscirono dalla sua bocca e pareva che lui stesso non riuscisse ad arrestarle.
“Sorella,” disse.
“Io parlo con la virtù del cane al guinzaglio, – difendi il tuo padrone, ringrazialo per le percosse e gli avanzi del suo desco -, io parlo con la sapienza dello schiavo che piega la propria volontà a quella del suo tiranno, – potrei uccidere ognuno di voi con un semplice gesto ma non posso, non posso -, io parlo con l’esperienza dell’assassino le cui mani sono lorde del sangue della propria madre.”
Perdonatemi Sorelle se i miei occhi ora sono velati di lacrime. Non voglio mancarvi di rispetto asserendo che la vostra comprensione non è bastevole, ma così è e mi affido alla vostra benevolenza: i suoi occhi, intensi e grigi come la pietra, erano arrossati da un pianto sincero.
E non crediate, venerabili, che esso derivasse dalla fame, dagli stenti o dal desiderio di ingannare.
A quell’uomo era stato strappato tutto, era l’involucro di un liuto senza corde. Per non soccombere al suo dolore, – e vi giuro sorelle era così profondo da darmi senso di vertigine -, risposi spavalda:
“Voi siete un soldato, signore. Inutile che nascondiate la divisa sotto una pelliccia lercia e strappata. Il semplice fatto di volervi celare alla vista vi rende un codardo e un infingardo. Siate orgoglioso della vostra origine e della vostra appartenenza, e se questo vi ha portato a compiere un dovere difficile, siatene doppiamente orgoglioso.”
Gonfiai il petto in modo che potesse vedere la spirale d’argento che è l’emblema della nostra sorellanza, gliela mostrai affinché capisse il senso profondo delle mie parole e lo fissai.
Con una forza che non credevo potesse ancora sprigionarsi da quel corpo smagrito, l’uomo si alzò di scatto e, con un gesto imperioso delle spalle, lasciò cadere la pelliccia e il manto di lana. Indossava una casacca ormai sudicia, nera e bordata di cremisi, con il collo alto e due cani rampanti anch’essi rosso sangue.
“Riconoscete questi stemmi mia signora?” chiese, e io avvertii il brivido di chi si trova ad affrontare una bestia feroce, riconobbi in lui l’effige dell’Ombra dalle Tre Fauci rappresentata nelle nostre carte. Sorelle, ero sola, lontana dal mondo civile, ebbi paura e indietreggiai.
“In verità no.” Risposi. “In fede mia non li conosco. Siete un soldato dell’Impero?”
“Soldato dell’Impero.” Mi schernì. “Questi stemmi non esistono!
Io non esisto!
Questa divisa non esiste, eppure il dovere che rappresenta è un veleno che uccide silenzioso. Un serpente che striscia e costruisce imperi, uccide re, stermina eserciti, sopisce il pianto nel pianto.
Io signora sono la mano di Hagea la Sterminatrice, io sono un demone che non può morire, io sono il fuoco che arde e distrugge, sono il fulmine che falcia gli innocenti.”
“Voi siete solo un pazzo e uno sbruffone.” Gli soffiai addosso. “L’Impero si fonda sul sangue e sul coraggio dei soldati che lo hanno costruito! Il prezzo che è stato pagato è sempre troppo esiguo rispetto alla pace e l’unità di tutta Saanìa.”
“Quante belle parole, quanta dottrina.” Disse lentamente e sottovoce, e mi mostrò le mani.
***
“Sono asserragliati e hanno risorse per giorni. Per quanto sia una piccola cittadina, il nemico ha avuto modo di accumulare provviste. Le nostre forze attuali non sono bastevoli a un attacco diretto risolutore.
Rischiamo ingenti perdite. Le navi sul Derun non possono avvicinarsi per poterci dare un fuoco di sfondamento, qui i fondali sono troppo bassi.
Ci accamperemo sulla sponda e attenderemo. Daremo battaglia non appena il nemico sarà stremato dalla fame.”
Parthan voltò appena la testa per ascoltare meglio. Era in piedi, indossava la divisa della guarnigione del comandante Julius Fradan, al servizio di sua Illuminata Eccellenza l’Imperatore Lyoda Terzo.
L’ometto nervoso dai baffetti neri, continuava a chiacchierare di strategia con i suoi sottoposti, ma Parthan non era affatto soddisfatto delle loro decisioni: giungere non visto, uccidere fino all’ultimo uomo, prevalere su chiunque, questo era il suo credo, questi gli ordini della Torre.
Sua Eccellenza bramava il Derun, le sue coltivazioni, i suoi cavalli, i suoi porti.
Ritirarsi, attendere, erano questioni da codardi, e il grande Imperatore sapeva essere molto coraggioso quando si trattava di sguinzagliare i suoi Cani.
Dato che il comandante pareva non saper gestire la situazione in maniera soddisfacente, spettava a lui dare una piccola spinta alla ruota del destino.
Parthan ghignò a se stesso e il soldato, dall’altro lato dell’imboccatura, lo guardò aggrottando le sopracciglia. Gli rispose con un cenno della testa, e abbozzò uno sbadiglio.
Un’ora dopo il sole stava tramontando dietro monti verdi e arrotondati.
Le acque placide del Derun, che serpeggiava morbido tra le colline e le pianure della regione, si era tinto di rosso, oro e arancio. Parthan usciva dall’accampamento, non visto, puntando dritto verso la sponda opposta del fiume.
***
Sorelle, nonostante le piaghe del freddo e le cicatrici, lo sconosciuto aveva mani grandi e forti ma non volgari. Mani più avvezze alla carezza che al pugno, come poteva dire cose così terribili sul proprio conto?
Così lo interrogai: “Se con questo volete dirmi che le vostre mani sono sporche di sangue, sappiate che se lo sono del sangue dei nemici allora è un onore per voi mostrarle! Cercate forse la mia compassione?
Non l’avrete.”
Mi aspettavo un gesto di rabbia, una parola di insulto, e invece l’uomo crollò sulla panca come una marionetta gettata via.
“Nessuno vede mai la verità.” Disse. “Un villaggio in fiamme?
Fortuna, gli dei sono con noi. Gli dei non esistono, non ci guardano, non si interessano di noi.
Cosa hanno scritto gli storici della battaglia?
Con quanto baldanzoso coraggio hanno condito le loro parole?
Con quanto sangue rosso?
Fradan trovò macerie e cadaveri, e qualcuno si occupò di far sparire l’evidenza… ma non la mia colpa…”
Abbassò il capo sul petto, mai avevo visto un’anima così affranta. Intuivo appena cosa avvenisse nel suo cuore e sentivo il gelo e il buio farsi avanti anche nel mio.
Sorelle, vi chiederete perché lo feci, non so rispondervi davvero. Mi accovacciai per guardarlo negli occhi, gettai via il manicotto di pelliccia e tirai via il pesante cappuccio. Presi le sue mani gelate tra le mie, e lui mi guardò con l’espressione del bove al mattatoio.
***
Il sole tramontava rapido, le ombre si allungavano scivolando sui soldati vigili lungo le sponde, sui feriti accampati nelle retrovie, sulle tegole delle case, sui comignoli che fumigavano appena. La cittadina appariva deserta ma non priva di vita.
Parthan intuiva i movimenti di donne spaventate al riparo di imposte di legno, vecchi asserragliati dietro le porte, pronti a difendere con la vita i propri cari.
E cavalli nervosi nelle stalle, uomini spaventati al seguito dell’esercito, armati di ciò che avevano.
Giungere, uccidere, prevalere.
Fradan voleva davvero attendere per attaccare una simile feccia patetica?
Parthan avanzò tra la sterpaglia, curvo e rapido, sfruttando le ombre ormai color carbone, e si trovò a pochi passi da una vedetta che strabuzzava gli occhi per vincere il buio incipiente.
Il giovane si stringeva al moschetto come ad un amico e odorava di stanchezza e paura. Indossava la lunga casacca blu scuro della città di Pax’Derun.
Parthan si alzò al fianco di una quercia frondosa; distese il braccio destro con lentezza, con l’accuratezza del giocatore di biliardo, e chiamò a mezza voce le parole antiche dell’Arte.
Con un soffio, un guizzo, l’aria si addensò nel suo palmo, formando un proietto invisibile e denso.
Lo scagliò nel silenzio completo, lo scagliò sotto le stelle, e un uomo morì soffocando nel suo stesso sangue.
***
“Cosa sono, se non un rognoso e vecchio cane, addestrato a forza a combattere.”
Ascoltavo le sue parole potendo vedere con la mente le scene che evocavano. In qualche modo, sorelle mie, compresi che i nostri destini erano legati e che le trame del tempo che noi difendiamo, si annodavano più e più volte intorno a quell’uomo e a me.
Fu così che infransi la nostra legge per la seconda volta. Leggo l’ira e lo sdegno nei vostri occhi, e me ne rammarico e me ne dolgo, ma se ora voi immaginate la mia punizione, la bramerete con forza per quanto sto per dire e per quanto tacerò.
“Signore,” dissi. “Io posso leggere il vostro futuro con la stessa chiarezza con cui voi mi raccontate il vostro passato.”
“Non fatelo.” Si inalberò. “Nessuno ve lo ha chiesto. Io desidero solo morire ma non oso farlo.”
“E se nel vostro futuro vi fosse la morte che tanto bramate?
Cosa avete da perdere?
Datemi le mani.”
Non posso dire, in tutta onestà, che decise di assecondarmi, posso dire che decise di non ostacolarmi. Le sue mani, sorelle, erano fuoco e il futuro che lessi nelle linee, io non posso rivelarlo.
***
Le tenebre nascondevano i suoi lineamenti harakiani, la divisa lo rendeva invisibile agli occhi degli altri stanchi soldati. Era stato tutto così dannatamente facile che provò l’istinto di mettersi a gridare per combatterli tutti insieme così come aveva fatto, tante volte, nell’arena della Torre.
Gli ordini inequivocabili erano di rimanere nell’ombra: meglio far credere che i Cani dell’Imperatore non esistessero, meglio illudere gli eserciti, i generali, i comandanti, che erano loro ad avanzare, a sconfiggere, a conquistare. Le battaglie di sua Eccellenza si erano sempre risolte con miracolosi colpi di fortuna.
Parthan individuò la tenda del comandante. Era piazzata ben al centro dell’accampamento, bianca e azzurra, ben difesa da veterani attenti.
Doveva aspettare il momento opportuno, scivolare nell’alloggio, spezzare le ossa del torace del comandante con le giuste parole, e fuggire lontano, tornare alla Torre.
Stava per muovere un passo quando colse un movimento alle sue spalle. Si appiattì contro il muro di mattoni di una piccola casa e si sporse appena, la luce di una lampada a petrolio lo illuminò.
***
Mentre osservavo, non credendo ai miei occhi, le linee delle sue mani, l’uomo fissò un punto lontano nei ricordi e la sua voce tramava nel raccontare.
“Non posso più dormire.” Disse. “Ogni volta che chiudo gli occhi la vedo. E lei mi guarda e mi chiede il motivo solo fissandomi con i suoi occhi di cielo.
Una singola lacrima scende dal suo occhio destro, niente di più. E poi arrivano gli altri, camminano a piedi nudi sulle sabbie del mondo dei morti, nella notte eterna, e guardano me, guardano me.”
Cos’altro potevo dire a quell’uomo? Nelle sue mani vi era il destino di tutta la nostra amata terra, cosa avrebbe fatto di lì a pochi istanti? Annegando nella sua disperazione avrebbe trascinato con sé tutto. Ebbi paura, ne fui terrorizzata. E così mentii.
***
Una ragazza dai lineamenti semplici, capelli rossicci, lentiggini e un piccolo naso, voltò l’angolo in cerca di qualcuno. Parthan vide la luce, aprì le mani dinanzi a sé, disse la parola che chiama il gelo e l’aria e la ragazza aprì di scatto la bocca dal terrore.
I suoi occhi celesti si spalancarono, una singola lacrima scese dal suo occhio destro mentre il suo corpo si accasciava al suolo, e il suo modesto vestito si macchiava di sangue e di saliva.
***
“Lasciatemi strega!” tuonò e strappò via le sue mani dalle mie per portarle alle tempie, come se una musica assordante lo facesse impazzire. All’esterno della piccola stazione il vento mugghiava e ruggiva, ondate di neve ghiacciata si infrangevano su di una piccola finestra.
L’uomo gridò e strattonò quasi volesse staccarsi la testa dal collo, poi aprì le braccia e le sue mani arsero all’istante. Il fuoco divampava come spinto dal vento, eppure rimaneva ancorato alle sue membra come un mastino alla catena.
“Uscirono altri straccioni da quelle case maledette.” Continuò a raccontare, ma ormai la sua voce aveva perso la saldezza della coscienza. “I soldati non si erano accampati nel villaggio per tenere la posizione, no, si erano arroccati in quella cittadina per consentire alla gente di fuggire.
E si erano bene organizzati, sì, un piano ben congeniato. Uscirono altri poveracci, altri vecchi, donne, madri e bambini. Alcuni erano infanti stretti in fasce di panno che olezzavano di urina, altri erano mocciosi dai grandi occhi spaventati attaccati alle sottane luride delle loro genitrici.
E tutti videro la ragazza morire, videro me sgozzarla con la forza della mia parola. Non avevano mai visto nulla del genere. Rimasero ammutoliti, attoniti, a guardarmi. I loro volti delineati dalla luce rossiccia delle lampade e in quel momento compresi…”
“Vi è ancora speranza per Voi, vi è ancora speranza.” Sussurrai con la mia voce più seducente, più rassicurante. Tremavo in cuor mio, sorelle, piangevo nella mia anima implorando che quel folle assassino, quel demonio, non sfogasse su di me la sua ira.
Le fiamme aumentarono in rabbia e calore giungendo a lambire i suoi gomiti. Lo stesso fuoco ardeva nei suoi occhi, nei suoi lineamenti sconvolti dalla follia e dal desiderio di morire.
“E’ scritto chiaro nel vostro destino che voi non perirete qui, non qui, non adesso.”
Sorelle, lo stregone al servizio dell’Imperatore, rise e per me fu come se le fauci stesse del Mastino d’Ombra si chiudessero sulla mia anima e la dilaniassero. Quando l’ultimo eco si spense continuò.
“In quel momento,” disse. “Compresi la mia vera natura.
Compresi cosa mi avevano fatto diventare, vidi il guinzaglio al mio collo, vidi ogni momento della mia vita reclusa, vidi le sbarre della mia gabbia dorata e capii, con la chiarezza del condannato a morte, che non mi sarei mai fermato.”
Si fece avanti, io non potei altro che indietreggiare, e danzammo così per pochi passi finché non finii con la schiena alla parete. Lui si avvicinò. Avvertivo il calore innaturale della sua magia, chiusi gli occhi, la gola serrata dal terrore incapace di parlare.
Voltai la testa di lato nel tentativo di allontanarmi il più possibile da lui. Il calore sulla mia guancia divenne sempre più intenso, sentii l’odore dei miei capelli che bruciavano e strinsi gli occhi, le labbra iniziarono a tremare senza controllo.
“Mi appoggiai al muro della casa, presi un lungo sofferto respiro, strinsi i pugni, cercai con tutto me stesso di rimanere immobile. Oh Hagea maledetta, mi dissi, lasciati andare, lascia che trafiggano il tuo cuore, lascia che squarcino le tue budella, arrenditi, muori!” gridò fuori di sé.
Attendevo che sfogasse su di me la rabbia che scorreva nelle sue vene, che dimostrasse per l’ennesima volta di essere il sadico macellaio che plasmava i suoi incubi, ma ebbe pietà, sorelle, si fermò.
Per questo vi dico che non mi pento di ciò che ho fatto, di ciò che gli dissi.
Il calore svanì in un istante, sentivo il suo respiro affannoso e la sua voce rotta.
Aprii gli occhi e, dietro al velo delle mie lacrime, osservai una figura barcollante, esile come un giunco prossimo a spezzarsi, che mi guardò in cerca di speranza e di redenzione.
Rimanemmo in silenzio, non so dire quanto a lungo. La tempesta, o forse le mani stesse degli dei, ci diedero il tempo di rimanere soli, di riposare le membra e le gole, di poter tornare a parlare.
Sorelle tutte, testimoni e giudici, nella penombra furiosa e fredda di quella stanza io mi innamorai di quell’uomo. Amai il modo implacabile con cui si giudicava e puniva, la forza oscura che ribolliva nel suo cuore, e infransi la legge per guardare nel tempo.
“Quando il comandante Julius Fradan entrò nella città.”
Dissi.
“Trovò soltanto macerie e centinaia di cadaveri bruciati e spezzati. Alcuni indossavano le divise dei soldati, altre semplici abiti di uomini e di donne. Altri erano minuti e rattrappiti, infanti strappati alla vita dalla furia di un mago assassino al quale era proibito morire: Parthan, Cane Rosso dell’Imperatore.”
Il mago rimase immobile, una scultura di panni e ossa, stupito dalle mie parole e dalla dolcezza con cui le pronunciai.
“Cos’altro avresti potuto fare se non tornare dai tuoi padroni?
Stanco della vita stessa varcasti la soglia nera della Torre maledicendo la tua codardia e il buio che ti è compagno. Il mio sguardo nel Tempo non può più seguirti, perché quel luogo non esiste nella Trama delle Cose, ma nelle tue mani ho letto ribellione, giustizia e vendetta, e desidero con ardore che tu le abbia.”
Venerabili Sorelle, io rimasi con lui per lunghi giorni tra le case di pietra arroccate sulle montagne.
Rimasi con lui finché non riprese le forze, finché la fiamma nella sua anima non si accese di nuovo, splendente e pronta a compiere il suo destino, e infransi i nostri voti concedendomi a lui poiché era l’unico degno di avere Aurora Sorella dell’Eco.
Sopite le vostre ingiurie, sorelle, tacete!
Ciò che ho visto nel futuro non uscirà dalla mia bocca nemmeno se spalancata nella tortura. Se desiderate prendere la mia vita, se credete che questo vi metterà al sicuro, allora fatelo ma fatelo adesso.
Cosa accade, sorelle mie?
Perché fuggite spaventate e vi accalcate alle porte?
Quello che udite non è il suono ruggente delle fiamme.
Quello che vi atterrisce non sono le parole orrende dell’Arte, che chiamano le vampe e il fulmine.
Ciò che udite è la melodia suadente della distruzione, che il mio dolce assassino viene a suonare per me.
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