Desiree

Desiree, racconto di Alessandro Flora

A Perenne Memoria del dott. Architetto FULVIO S. di anni 46 Straziate dal dolore questa lapide,

la moglie Giulia e la figlia Desiree posero.

Le gocce di pioggia scivolavano a piccoli rivoli tra le lettere incastonate nel marmo, e picchiettavano nervose sull’ombrello tenuto a riparare la schiena della madre, che china con gesti solenni stava sistemando i fiori nel vaso della tomba del marito.

Desiree non andava mai volentieri al cimitero, ma non poteva ribellarsi in nessun modo a questo rito che si ripeteva nello stesso giorno della settimana in cui il dott. Fulvio S. era deceduto. In undici anni era riuscita a evitare solo due volte l’appuntamento cimiteriale e sempre per ragioni di salute.

Desiree aveva fatto pure il calcolo, erano quasi seicento mercoledì, e a lei giovane adolescente di neanche quindici anni quello sembrava un numero spropositato, pesante come quella lapide vicino ai suoi piedi.

Se lo ricordava appena suo padre, aveva tre anni quando lui era scomparso, ma dai brandelli di memoria appariva così diverso dalla madre. E poi i suoi non erano dei veri e propri ricordi, lei più che altro sentiva che in un remoto passato era stata in contatto con una figura dolce e bonaria, che con affettuose attenzioni le aveva dato amore.

Le rimaneva un unico ricordo fatto d’immagini, cui si sentiva legata in modo quasi morboso, e che ripensandoci ripetutamente l’aveva forse anche rielaborato.

Era la scena di lei che disobbedendo entrava nello studio paterno, mentre il dottor Fulvio assieme a due uomini d’affari stava concludendo una trattativa in corso da mesi per un importante progetto edilizio.

Lei birichina aspettando un momento di distrazione della madre e della bambinaia, sollevandosi sulla punta dei piedi per tirare in basso la grande maniglia della doppia porta dello studio paterno, entrò di soppiatto, e appena schiusa ci s’infilò dentro silenziosa, sperando forse che nessuno si accorgesse della sua presenza.

Invece quando entrò, fece torcere il collo ai due uomini d’affari seduti di spalle davanti alla grande scrivania di legno di noce, che suo padre si era fatto costruire da un esperto artigiano già vecchio al tempo, e che oggidì di simili è quasi impossibile trovarne.

I due ospiti la fissarono un po’ stupiti e infastiditi mentre seria li guardava di sottecchi, il padre alzandosi dall’altra parte, sbucò tra le teste dei due signori, capendo l’imbarazzo della figlia per la piccola marachella messa in atto, le fece un sorriso per rassicurarla.

Scusandosi con gli ospiti, con un semplice gesto la fece correre da lui per prenderla in braccio, “Ecco qua la mia birbante Desiree..” disse e iniziò teneramente a riempirla di baci.

Tutto qua, questo era ciò che ricordava di suo padre, morto da lì a pochi mesi. Di lui le restava quest’ unica reminiscenza, un’unica traccia nella sua memoria la legava a quella figura paterna che giaceva sepolta lì sotto.

In quel giorno di pioggia mentre ripensava ancora una volta alla scena nello studio, si distrasse togliendo da sopra la testa l’ombrello, o magari desiderava davvero che l’acqua le finisse addosso, facendole sentire un brivido per dimenticare quanto misero e scarno fosse quel ricordo.

“Ma non vedi che mi bagno tutta! …ma dove hai la testa? …per meritarmi una figlia così che ho fatto di male?” Desiree raddrizzò l’ombrello scusandosi, l’altra non rispose, di nuovo tutta indaffarata a trovare un modo soddisfacente di sistemare i fiori nel vaso.

Era fatta così sua madre, abituata a concedere pochi sorrisi alla vita. La sua elegante bellezza era sfiorita una volta rimasta vedova; l’austera rigidità l’aveva ereditata dal padre Cavaliere del Lavoro, il dottor Carlo P. stimatissimo da tutti, luminare della biologia durante il periodo fascista, un premio Nobel mancato per un pelo, lui sosteneva per motivi politici “…quei maledetti inglesi mi ci son messi contro!”

Di lui la figlia devota ne parlava come fosse ancora vivo, anche se morto da più di vent’anni a causa di un infarto sul letto d’una casa di riposo, nella quale ormai viveva a seguito di un ictus che l’aveva colpito prima.

La figlia Giulia non ne parlava mai di quell’ultimo periodo dell’esistenza paterna, costretto a letto semiparalizzato, incapace di riconoscere chicchessia, bisognoso di tutto per sopravvivere, persino di qualcuno che lo imboccasse per farlo mangiare.

No, per lei era rimasto quel luminare biologo che camminava, quasi stesse marciando con il mento volitivo, l’uomo duro e dai modi sbrigativi che sarebbe stato capace in un baleno di rizzare la schiena alla nipote Desiree.

“Guarda sono tutta bagnata, non ce la fai neanche a tenere fermo l’ombrello, sei un’incapace!”

Per questo la madre le sembrava così diversa da suo padre per quanto poco si ricordasse di lui, perché non le perdonava mai niente.

Anche se la manchevolezza era minima, lei reagiva sempre duramente addossandole delle colpe aldilà dell’evento in questione, partendo dal presupposto che la figlia fosse un’inetta “…sei sempre con la testa tra le nuvole!”

Non era mai sufficiente ciò che Desiree faceva, neanche quando l’anno precedente impegnata negli esercizi alla trave, nel suo primo campionato nazionale di ginnastica artistica dove s’era piazzata al secondo posto, l’unica medaglia d’argento che la Società sportiva aveva ‘portato a casa’, neppure in quel caso sua madre le aveva fatto il ben che minimo complimento.

La trave come specialità Desiree se l’era scelta da sola, sfuggendo almeno in quel caso al controllo materno.

Le piaceva starsene lì sopra al legno, si sentiva come fosse da un’altra parte, in un altro mondo, persino i rumori si percepivano diversamente e delle altre persone vedeva soprattutto le teste di capelli, o al limite quegli sguardi col naso all’insù.

Tutto ciò le dava un senso d’isolamento che le donava protezione e serenità.

Forse inconsapevolmente scelse la trave tanti anni prima, perché aveva visto una delle atlete della prima squadra spezzarsi la tibia in un salto rovesciato mal riuscito, mentre la compagna di squadra più grande piangeva disperata e veniva portata via, lei si sentì subito attratta da quello strumento ginnico, e il giorno dopo stupì molto la sua preparatrice quando le comunicò la sua scelta.

Comunque sia, in questa sua decisione la madre non avrebbe mai potuto intromettersi, perché la signora Giulia non aveva mai praticato nessuna attività fisica, aveva sempre rifiutato ogni pratica sportiva, soprattutto perché l’avrebbe distolta dal rigido controllo su se stessa, e su chi le stava attorno.

“Dammi l’ombrello che vado a buttare via questi fiori secchi, e passo anche dalla nonna, tu aspettami là sotto” e le indicò una cappella dove avrebbe trovato riparo dalla pioggia; Desiree ubbidì e con un doppio passo elegante salì sul secondo gradino della tomba attigua a quella del padre.

Il cestino dell’immondizia e la tomba della nonna erano sufficientemente lontani per darle un po’ di libertà di cui godere, per non sentirsi addosso la tenaglia del controllo materno almeno per alcuni minuti.

La sua attenzione fu attratta da un merlo che sbucò fuori d’improvviso da un cespuglio di bosso, e s’infilò, per trovare un po’ di riparo, dentro a un cipresso dall’altra parte del vialetto; sentì di comprendere profondamente ciò che provasse quell’uccello nero, come lei era alla ricerca di un luogo sicuro e le gocce che cadevano dal cielo le apparivano simili alle incessanti parole di sua madre che la colpivano.

Ora la pioggia scendeva più convinta sbattendo con violenza sulle lapidi, Desiree fu avvolta in una nuvola chiassosa e umida, e per un attimo si sentì in pace.

Il pensiero del pasto serale infranse quel breve momento di beatitudine, per cena avrebbe trovato nel piatto il tacchino con le patate; era molto attenta nel chiedere sempre alla donna di servizio che cosa avrebbe cucinato.

Era importante saperlo, perché aveva bisogno di potersi preparare ai pasti quotidiani, era una specie di lotta da affrontare almeno due volte al giorno.

Come sempre accadeva iniziò a elucubrarci sopra, il giorno prima martedì aveva mangiato del brodo con il riso e tutto sommato era stato semplice rigettarlo senza farsi scoprire, ma quella sera lo sforzo richiesto sarebbe stato maggiore.

Sarebbe dovuta stare molto attenta, al rumore del cibo mentre le fuoriusciva dalla bocca e l’odore acido che avrebbe pervaso il bagno, poi c’era il problema dei suoi begli occhi blu simili a quelli del padre, che in un attimo si sarebbero iniettati di rosso.

A un tratto notò una statua dietro al cipresso in cui era sparito il merlo, girò dietro all’albero e si ritrovò di fronte una figura di una bambina seduta con il mento piegato, con un fiocco intrecciato ai capelli e che suggeriva una triste contemplazione.

All’incirca poteva avere la sua stessa età, accanto alle ginocchia piegate s’intravedeva a malapena l’epigrafe oramai logorata dal tempo, “alla mia Amatissima Bambina” vicino ad altre lettere indecifrabili e in basso a destra Mamma”.

Le parve che quella ragazza scomparsa era stata fortunata ad avere una madre che lo amasse, poi repentinamente cambiò idea perché magari anche la sua l’avrebbe commemorata con una frase del genere.

Ma quella dichiarazione d’amore non significava nulla, anche la signora Giulia con gli altri si profondeva a enfatizzare le qualità della figlia, ma in privato tra loro due tradivano quelle belle parole, non concedendole nessun complimento, mai nessuna soddisfazione.

“Desiree, Desiree dove ti sei cacciata?”, poi intravedendo la figlia dietro al cipresso “ma che fai là, non vedi che ti stai bagnando tutta, ma sei impazzita?” Senza fare un passo l’attese ferma al riparo dell’ombrello costringendo l’altra a correrle incontro, “Tienilo tu questo, andiamo all’auto”.

La strada del ritorno verso casa era breve, ma la mamma di Desiree faceva sempre un percorso diverso, un giro molto più lungo onde evitare di passare attraverso quel maledettissimo incrocio dove il dottor Fulvio S. aveva trovato la morte.

Il giorno in cui perse la vita, di là non avrebbe neppure dovuto passarci, il caso volle che a Desiree in asilo venisse la febbre, la direttrice sull’agenda trovò per primo il numero del suo studio e lì chiamò perché venisse a prendere la piccina che non si sentiva bene.

Lui non ci pensò su due volte, non poteva reggere al pensiero di lasciare ad attendere la sua bambina febbricitante. Salì sulla sua auto, non c’era tanta strada da fare, due svolte, il rettilineo con tre incroci e sarebbe arrivato. Non era un tipo spericolato, guidava sempre con prudenza.

Non si seppe mai come realmente andarono le cose, forse lo colse un malore, forse preoccupato pensava a Desiree, o forse no, stava semplicemente riflettendo sul lavoro da finire appena fosse rientrato in ufficio, una volta affidata la piccina nelle mani della moglie avvisata del loro arrivo.

Fatto sta che quel terzo incrocio lui lo tagliò di netto col rosso e un camion di una ditta di traslochi sbucando da sinistra, pur frenando, non poté evitare di schiantarsi sulla portiera del conducente, ecco come avvenne il fatto.

Desiree non conosceva tutti questi dettagli, d’altronde come avrebbe potuto farlo, era ancora così piccola. Di quel giorno non ricordava nulla, né della sua febbre improvvisa che l’aveva colpita in asilo, né che la venne a prendere la sua vicina di casa, mentre sua madre raggiungeva l’ospedale.

Non ricordava niente dei giorni a seguire l’incidente, la disperazione di sua madre, i colleghi e amici passati da loro per le condoglianze, né del funerale, neanche quell’evento riusciva a rammentare.

Crescendo, per quanto si sforzasse, nulla dalla sua coscienza riemergeva, le tornava in mente solo l’episodio della sua birichinata nello studio del padre.

Questa sua amnesia la faceva soffrire, angosciata che quell’unica reminiscenza consumata fosse solo un’idealizzazione, degli accrocchi di pensieri inventati, che neanche quel ricordo fosse mai realmente accaduto.

Ciò le faceva sentire un pesante, insopportabile senso di colpa, da cui riusciva liberarsi provvisoriamente solo dopo aver vomitato quasi tutto il cibo che ingeriva.

Dalle nebbie del passato fino a quello stesso giorno, Desiree si ricordava invece molto bene la frase che spesso la signora Giulia sconfortata le ripeteva, “Se tu non avessi avuto la febbre, lui sarebbe ancora qui con me!”

Si fermarono di fronte al cancello nero, la madre con un gesto meccanico prese il telecomando per aprirlo, senza guardare la figlia le intimò “…hai dieci minuti per preparati per la cena”.

L’auto scivolò lenta per il vialetto che portava alla bella villetta in cui abitavano, ma che a lei appariva come un posto lugubre in cui sentirsi reclusa e sola.

Appena entrate le due donne salirono le scale che portavano alle stanze da letto, entrambe si richiusero nella propria. Nel frattempo al pianterreno la donna di servizio uscì dalla cucina e nella sala da pranzo iniziò a preparare con cura il tavolo per la cena.

Ancora col giubbotto addosso Desiree si gettò sul letto a braccia aperte, buttò fuori con forza dal petto tutta l’aria che aveva, fino a contrarre gli addominali per farla uscire proprio tutta e quando non ne ebbe altra da far uscire, aprì gli occhi per inspirare profondamente.

Guardando il soffitto della sua stanza iniziò a ripensare alla sequenza dei movimenti da fare sulla trave, mano sinistra, gamba destra fuori, ginocchia raccolte, ora in piedi braccia alzate, piede sinistro avanti, rovesciata…, mano destra e poi sinistra.

Era minuziosa nella preparazione quasi ossessiva nella ricerca della perfezione, un vero talento l’aveva definita l’allenatrice, non per sua madre che non le aveva nascosto il suo rammarico per il risultato al campionato precedente “…arrivare secondi è la peggiore delle sconfitte, una ce la fa o non ce la fa, o arrivi prima o è come niente!”

Quest’anno Desiree voleva vincere a tutti costi, non per se stessa ma per finalmente dimostrare a sua madre che era capace di fare qualcosa di buono d’importante fino in fondo.

“E’ quasi pronta!” da basso la chiamarono, saltò giù dal letto e mentre in fretta si spogliava per prepararsi per la cena, volle ancora una volta ripetere la sequenza, …piede sinistro, mano destra…., ora braccia tese fuori poi in alto…, giravolta indietro…“La cena!”

Scese le scale lenta e controvoglia, le dita accarezzavano il corrimano di legno, non aveva mai fretta quando si trattava di mangiare.

Entrò nella sala da pranzo seguendo con gli occhi la donna di servizio, che usciva dall’altra parte della sala con il piatto di portata mezzo vuoto e facendo questo non poté evitare lo sguardo severo di sua madre, che dall’altro lato del tavolo seduta non riuscì a trattenersi “l’educazione per te è un optional, se solo tuo nonno fosse ancora vivo… lasciamo stare che è meglio… buon appetito!”

Desiree guardò sconsolata il bel piatto di porcellana di Zurigo con dentro il tacchino e le patate, un disgusto immediato la colse, fece fatica ad aprire con noncuranza il tovagliolo e metterselo sulle gambe.

“Sbrigativa mangiare… devi fare la borsa per l’allenamento, e ricorda di portarti una tutina e una maglietta in più, l’altra settimana in palestra tutta sudata si sentiva il tuo odore che era difficile starti vicino, hai notato che anche le tue compagne ti evitavano perché…”.

Desiree non l’ascoltava più, già sapeva più o meno come il discorso sarebbe proseguito, ora stava preparandosi alla sfida con il cibo di fronte a lei. Per consolarsi si sforzò di ricordare il viso del padre così gentile e rassicurante, fissato nella sua memoria in quella fantastica immagine, rappresentazione dell’affetto e della fiducia che tanto a lei mancava.

“Ma mi stai ascoltando? Su inizia a mangiare e dopo prepara anche tutto quello che ti serve per domani mattina a scuola”.

Il giorno seguente giovedì era la giornata che Desiree di più amava, sei ore di scuola e l’allenamento pomeridiano facevano sì che appena la sera sarebbe rientrata a casa, un giorno in cui sentirsi libera; in più poteva saltare la cena e rinchiudersi in camera sua, senza obiezioni materne perché ragionevolmente tanto stanca da volersi infilare subito a letto.

Il pensiero al giorno seguente le fece venire un po’ di buon umore e il coraggio per affrontare il pasto, guardando la carne decise di tagliarla a croce in quattro parti, da essere abbastanza grandi da facilmente trattenerli nell’esofago per poi subito rigettarli. Il taglio fu impreciso: due parti uguali, una più piccola e una più grande delle altre.

“Non mangi anche le patate?” Desiree fece un cenno di diniego, si pulì la bocca col tovagliolo e si alzò per andare verso il bagno del pianterreno girando a sinistra fuori dalla sala da pranzo; “sempre in bagno, eh? Ma che ci fai in quel benedetto bagno?”

Con gesti calmi ripetuti centinaia di volte, aprì l’acqua del rubinetto per coprirne il rumore, con la mano sinistra raccolse i lunghi capelli color biondo cenere, attorcigliandoseli dietro al collo.

Inginocchiata di fronte al water alzò la tavoletta e vide riflesso il suo bel viso adolescenziale nell’acqua ferma, così immobile che si potevano vedere anche i suoi occhi blu un po’ malinconici.

Decisa infilò due dita nella gola.

Passati buoni dieci minuti la madre fu distratta da una telefonata con una parente, con cui doveva discutere della vendita di un vecchio casolare appartenuto al padre cavaliere del Lavoro.

Chiudendo la comunicazione e non vedendo rientrare la figlia, andò alla porta del bagno iniziando insistentemente a bussare e a chiamare, origliando sentì lo scroscio nel lavandino. Spaventata, chiamò subito i soccorsi.

Dopo meno di venti minuti un vigile del fuoco forzò la porta e chiuse l’acqua, mentre il dottore dell’ambulanza aveva già aperto la bocca di Desiree, sconsolato con un cenno d’intesa, attirò l’attenzione dell’infermiere che lo accompagnava, e gli disse “Fate allontanare la madre!”

di Alessandro Flora

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