Dal latino al volgare
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Dal latino al volgare
L’espansione dell’Impero Romano determinò la diffusione della lingua di Roma, il latino, che divenne così veicolo di cultura e di modernizzazione.
Il latino grammaticalmente corretto, però, era usato soltanto dai dotti, che si erano formati nelle scuole e sui testi classici. Proprio dalla divergenza con il latino classico hanno preso vita le lingue romanze, in particolare sono derivate dal latino volgare, quello parlato quotidianamente dalla gente comune.
Nella vastità del territorio romano si parlavano delle varietà popolari di latino, catalogate dai dotti con nomi specifici: SERMO PROVINCIALIS (lingua degli abitanti delle provincie), SERMO MILITARIS (gergo militaresco), SERMO VULGARIS / SERMO PLEBEIUS (lingua delle persone incolte) e SERMO RUSTICUS (lingua degli illetterati).
In tutte queste varianti erano presenti parole più espressive di quelle del vocabolario latino, che si caricavano spesso di un potere semantico maggiore. Inoltre le persone preferivano usare metafore colorite al posto di quei termini che nella lingua dotta risultavano neutri e privi di carica emotiva.
Quindi il latino, che si era diffuso seguendo i confini dell’impero, subiva continue modifiche dovute non solo all’organizzazione sociale, ma anche alle lingue parlate nei vari territori prima dell’arrivo dei Romani, e di quelle portate da popoli che via via si imponevano a seguito di dominazioni.
Un esempio di questa influenza linguistica è rappresentato dai Longobardi che a metà del VI secolo si stanziarono nella penisola italiana. Sebbene conservassero i propri usi, adottarono la lingua di Roma, tanto che nel 643 redassero le loro leggi in latino (Editto di Rotari).
La nostra penisola fu territorio di conquista di vari popoli, Germani, Bizantini, Arabi e Slavi. Ovviamente questi flussi dei persone che si stanziavano sul territorio ebbero sempre conseguenze sul modo di parlare.
Il 476 è la data che segna la fine dell’Impero Romano, quando il generale barbaro Odoacre depose Romolo Augustolo e fu acclamato dai barbari; iniziò così la frantumazione territoriale, e di pari passo quella linguistica.
Nonostante l’unificazione politica apportata dai Longobardi nel 774 per rifondare l’impero, e con essa l’unificazione religiosa e culturale, il popolo disperso nelle campagne percepì il latino una lingua sempre più incomprensibile, ormai mero strumento ufficiale della Chiesa e del Palazzo imperiale.
Una delle prime testimonianze scritte del volgare italiano è L’INDOVINELLO VERONESE, scoperto dal paleografo Luigi Schiapparelli nel 1924 in calce a un codice dell’VIII-IX secolo custodito alla Biblioteca Palatina di Verona. Si tratta probabilmente di una formula, scritta in chiave scherzosamente enigmistica, che i chierici copisti mettevano in fondo ai codici per compiacersi della fatica compiuta.
Il testo è una metafora che paragona l’atto dello scrivere a quello dell’aratura, e recita:
SE PAREBA BOVES / ALBA PRATALIA ARABA
ET ALBO VERSORIO TENEBA / ET NEGRO SEMEN SEMINABA
SI SPINGEVA AVANTI I BUOI / ARAVA BIANCHI CAMPI
TENEVA UN BIANCO ARATRO, SEMINAVA NERA SEMENTE
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