Col sale grosso
“In piedi, entra la corte.”
L’usciere in livrea cachi, aprì le grandi porte color noce; l’aula era in sommesso fermento, e tutti si alzarono. Il giudice dalla toga nera, da sotto i suoi occhiali di tartaruga, diede una scorsa agli atti e intonò: “L’imputato è stato messo al corrente dei capi d’accusa?”
“Sì, Vostro Onore.”
“L’udienza è aperta. La parola all’Accusa.”
L’Accusa era un uomo piccolo, scriminato come si conviene, un po’ curvo, con il vezzo di muovere le spalle per sistemare la toga. Prima di alzarsi, allineò con cura le penne che aveva davanti, le carte, e gli appunti.
“Signori della corte, avete udito e udito, in questi giorni, le orrende accuse a carico dell’imputato. Lungi da me il tediarvi ancora, ma esse sono così terribili e disumane, che è doveroso, se non necessario, esporle di nuovo, in modo che non vengano dimenticate. In questa nostra società è fin troppo facile scordare i veri principi che regolano la vita civile, -e dico ‘veri’ con la maiuscola-, sdoganando ogni nefandezza nel nome del relativismo.”
Il giudice cambiò posizione sul suo scranno, e l’avvocato, tutt’altro che stupido, proseguì: “Signori della corte, l’imputato è accusato di un crimine che definire orrendo è solo una pallida metafora. Le parole non possono descrivere a pieno le azioni che quest’essere ha compiuto, più e più volte, prima che le forti braccia della Giustizia lo afferrassero.”
La platea, nel sentire il tono stentoreo ma affranto dell’avvocato, ammutolì, scambiandosi occhiate torve e deluse.
“Quest’essere li coglie nel sonno, o mentre fanno merenda, o sullo scivolo, e li insegue senza sosta fino a che non riesce a catturare i più deboli, i più indifesi.” L’avvocato si rannicchiò a mimare debolezza e impotenza. “E sapete per quale motivo?” chiese con un filo di voce. La platea asfissiò, e lui la passò in rassegna con lo sguardo cupo: uno per uno gli astanti si mossero sulla sedia non osando fiatare.
L’accusa fece una teatrale pausa, e poi puntò il dito, come uno stiletto, in direzione dell’imputato.
“Chiamo alla sbarra il signor Cattivo.”
Il signor Cattivo scambiò uno sguardo titubante con il suo avvocato, poi si alzò e, gettando un’ombra massiccia sulla platea attonita, caracollò verso la sbarra. Era grosso, verde, con occhi gialli e piccoli, lunghe zanne consunte, e un completo blu con cravatta che gli stringeva il collo possente. Si sedette tra scricchiolii e gemiti del legno.
“Signor Cattivo, lei è accusato di aver divorato decine di inermi bambini, si rende conto dell’atrocità delle sue azioni?”
“Obiezione!” Tuonò l’avvocato difensore, un tipo grassoccio dai capelli unti e le mani piccole. “Siamo qui per valutare un presunto reato, e non per dare scontate lezioni di moralità.”
“Accolta.” Rispose distrattamente il giudice.
L’Accusa fece un ghigno lupesco. “Molto bene. Signor Cattivo, lei ha ucciso e divorato decine di bambini, come si dichiara nei confronti dell’accusa?”
L’orco sbatté gli occhi, e fece un sommesso ‘Uhm?’
L’accusa incalzò: “Signore, glielo chiedo con altre parole: ha squartato, dissanguato, spezzato e cucinato le carni di dodici bambini quest’anno?”
L’orco annuì: “Sì certo.”
L’avvocato accusatore aprì le braccia alla platea, come a dire: visto?
“Avrebbe voluto che li mangiassi crudi? O interi?” continuò l’orco facendo spallucce. Un paio di persone, in platea, accennarono una risatina, ma furono subito fulminati.
“Signor Cattivo, lei trova divertente il dilaniare le carni di innocenti, indifesi, pargoletti?” gli occhi dell’accusa si velarono di lacrime, per dare maggiore intensità alle sue parole.
“Onestamente?” chiese l’orco.
“Onestamente.” Rispose l’accusa.
“No, non lo trovo divertente.” Sospirò. “Preferirei di gran lunga avere le carni già pronte e sporzionate da acquistare al supermercato, piuttosto che andare in giro a cercarmi i bambini da solo. È una faticaccia, lo sa? Sgattaiolano da tutte le parti, piangono in continuazione, vomitano…”
Un mormorio che sapeva di linciaggio serpeggiò nell’aula. Il giudice fece tanto d’occhi, l’Accusa si indignò a tal punto da sistemare la toga almeno dieci volte, mentre l’avvocato difensore sorrideva e annuiva con approvazione.
“Lei è un mostro!” Si lasciò sfuggire l’Accusa.
“Obiezione.”
“Accolta.”
“Beh, ho anche altre cose da fare che correre dietro a dei poppanti. E poi sporcano. Credete che scuoiarli e dissanguarli sia un lavoro facile? Ci vuole tempo. E poi vanno rimossi gli organi, e l’intestino che manda a male tutti i tagli. E io? Passo la maggior parte del tempo in cantina a fare il macellaio, vi pare una bella vita?”
La platea ruggì e l’Accusa tornò alla carica: “Capisce che così dicendo, -e lo dico per amor di giustizia-, non potrà appellarsi all’infermità mentale? Lei uccide per cosa?”
“Per mangiare.” Fece l’orco come se parlasse a un idiota. “Per cos’altro vuole che lo faccia? Per collezionismo? Lei ha idea di quanto tempo e risorse servano per smaltire le carcasse?!”
Di nuovo un boato si levò dalla platea indignata, un trambusto che durò qualche minuto, finché il giudice non invocò il silenzio con il suo martello di legno.
“Silenzio! Silenzio!”
“Non ho altre domande.” Disse l’Accusa, e sventolò la toga fino alla sua sedia.
“Avvocato…” chiamò il giudice, facendo un gesto di autorizzazione con la mano aperta. Il grasso difensore si alzò, sistemò dei fogli picchiettandoli sulla scrivania, e si avvicinò alla sbarra.
“Signori della corte,” esordì. “ È facile, di fronte alle diversità, farsi trasportare da semplicistiche considerazioni: quel che è giusto, e quel che è sbagliato. Ma chi stabilisce ciò che è giusto? Chi ne ha il diritto?”
La difesa afferrò i baveri della giacca e, con fare tronfio, si avvicinò al signor Orco il quale, nonostante fosse un po’ chinato, lo superava in altezza di almeno un metro.
“Signor Cattivo, forse nessuno le ha mai fatto questa domanda,” si rivolse per un attimo verso l’Accusa. “Perché si è sempre troppo portati a dare giudizi affrettati, piuttosto che comprendere.”
“Obiezione!”
“Respinta.”
“Grazie signor Giudice. Dicevo: Signor Cattivo, perché lei mangia i bambini?”
L’orco si illuminò di un gran sorriso: “Perché è così che si mangia.” Rispose con orgoglio. “Perché è così che si fa.”
“Ha mai provato a mangiare altro, magari del maiale?”
“Che orco sarei se non mangiassi i bambini?!” Tuonò. “Lo faceva mio padre, e il padre di mio padre. È così che si cresce sani e forti!” Continuò l’orco alzando la voce. “Dove volete che prendano le proteine i miei bambini?”
La platea si inalberò come un cavallo imbizzarrito.
“Ordine! Ordine!”
“In galera!” gridava la gente. “La pena di morte!”
L’orco si alzò in piedi, tra gli ‘ooh‘ e ‘aaah‘ della gente.
“Voi distruggete le tradizioni! Insegnerò ai miei figli come si acchiappano, e come si scuoiano. Insegnerò loro come si seccano con il sale grosso, e come preparare i fegatini, e come fare i prosciuttini per Natale, e come abbrustolire le costine per Pasqua! Si è sempre fatto così! Sempre! E sempre si farà…” continuò a gridare mentre le guardie lo trascinavano via.
Il signor Orco Cattivo fu condannato a vent’anni, commutati poi in arresti domiciliari. Ora gestisce un blog di cucina, con più di diecimila followers… tra i quali il suo avvocato.
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