Donne Maledette 6/13

VI – Vincenzina

 Donne Maledette 6

Caro diario, tu e io lo sappiamo bene che fin dal primo giorno già era segnato il destino mio, lo stesso di mia madre e delle mie cinque sorelle: compiacere gli uomini del paese.

M’hanno cresciuta in una casa in campagna tra vigneti e agrumeti abbandonati dove basta l’odore delle zagare a indicare la strada perché pare che aumenti il desiderio, come il profumo delle arance e dei limoni.

Casa nostra non tiene porte a dividerla, ma tende colorate e trasparenti “Così” dice mia madre “Già dal corridoio, insieme al naso, trovano subito gusto anche l’occhio e l’orecchio”.

Lei si pensa fortunata perché ha partorito tutte femmine.

“Belle che siete” ci dice “Chi nasce femmina ha sempre pane in casa!” Con le altre mie sorelle passa giornate intere a sciacquarsi con l’acqua di rosa canina, a pettinarsi, acconciarsi, profumarsi, vestirsi, spogliarsi e rivestirsi.

Diario mio, tu lo sai che non ho mai avuto un padre, mamma Rosa ci ha partorito tutte e sei senza mai sapere con chi ci avesse fatte. Io sono stata l’ultima, la più piccola, pure se, a dodici anni sono già la più alta di tutte;

così lungagnona, di certo mamma Rosa si è già fatta un’idea di chi sono figlia oltre che sua, non ce ne sono tanti di uomini alti qui al paese, ma a me non me ne importa niente di saperlo e a lei basta solo che sono femmina  così posso portare altro pane a casa.

Due anni ancora mi restano, poi, a quattordici dicono che devo iniziare il mestiere.

A me però non mi piace truccarmi né profumarmi e tutto quell’andirivieni di uomini, quei latrati sempre uguali, mi sfastidiano e mi distraggono dallo studio.

Andare a scuola, invece sì, mi piace!

E mi piace pure la maestra perché non si trucca mai, si veste con la giacca scura e la camicetta bianca col colletto grande e ricamato, porta una gonna che non sale mai più su del ginocchio e tiene  scarpe comode col tacco largo.

A sentirla parlare m’incanto: gentile, sorridente, non grida mai e ci tratta con dolcezza, pure a me che di solito mi guardano di tutti traverso! Quant’è brava la mia maestra! Quanto mi piace!

Per questo oggi, caro diario, tornata da scuola ho posato i libri sul tavolo e ho detto che io non lo voglio fare il mestiere, voglio studiare per fare pure io la maestra.

Tutto mi sarei aspettata, diario mio, meno che uno schiaffone! Mamma Rosa m’ha lasciata in piedi in mezzo alla cucina come una scema, con le cinque dita dipinte sul viso e negli occhi la sua schiena dritta che se ne andava verso il fico.

Caro diario, tu lo sai come sono capocciona! Invece che mettermi a piangere l’ho rincorsa e le ho chiesto perché quello schiaffo e lei sai che ha fatto? Si è messa a piangere, al posto mio!

“Non si cambia il destino” mi diceva fra i singhiozzi “Ci siamo nate puttane, questo solo possiamo fare! La vita tua è qua e basta! I paesani già aspettano che ti cresca il petto, è da quando sei nata che aspettano, non ti fare grilli!” Poi s’è asciugata il viso e è rientrata urlando: “Devi ringraziare Dio che un lavoro sicuro lo tieni!”

Caro diario, mamma Rosa è convinta che il mondo finisce in fondo al paese, ma io, che la geografia l’ho studiata bene, lo so, ci stanno altri paesi dopo e certi sono così grandi che li chiamano città! Sai che ti dico, amico mio? Io piglio il treno e ci vado, poi vedi se non faccio la maestra!

Là nessuno sa che sono la piccirilla di Rosa di zucchero, mi chiameranno tutti  per nome: “Maestra Vincenzina”.

Diario mio segreto, lo dico solo a te, stanotte, dopo che si sono addormentate tutte io scappo, non ti preoccupare, a te ti porto, sei l’unico amico mio.

Ecco qua, la strada è questa, c’è la scuola e là in fondo la stazione, l’ho vista mille volte dalle finestre della classe e l’ho sognato altre mille questo momento!

Amico mio, sono stanca morta, s’è fatto quasi giorno, se non passa subito un treno, qualcuno prima o poi mi vede e mi riporta a casa, speriamo che arrivi presto!”

“Avete sentito come scrive bene Vincenzina mia? E’ vero è secca e lungagnona, lei non è fatta pe l’amore, è fatta pe’ i libri. Io l’ho sentita che usciva ieri notte, mi so messa una veste addosso e l’ho rincorsa, ma quella, con le gambe lunghe che si ritrova, sembrava una lepre!

Quando ho capito che andava alla stazione, ci so andata pure io là e l’ho cercata pe mari e pe monti, ma non l’ho trovata. Quella, sicuro m’aveva vista e sen’è rimasta nascosta, quasi sia la riportavo a casa! Capocciona!

Quando è arrivato il treno l’ho vista, quando s’è messa a correre come una matta, allora l’ho rincorsa e l’avevo quasi presa pe i capelli ma lei è stata troppo svelta: m’ha guardato, sè stretta tutt’e due le trecce in mano, ha lanciato il diario e è schizzata via sui binari incontro al treno che fischiava forte mentre frenava.

Ho urlato: Vincenzina! Vincenzina! Ma lei non sentiva, ha allargato le braccia come pe abbracciarselo quel treno maledetto, poi non l’ho vista più.

Donne maledette
storie, poesie, pazzie
di Vespina Fortuna

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