Perseo e la medusa – 1di2
PERSEO E LA MEDUSA
Il primo eroe della mitologia greca
Il ciclo di storie e leggende che fanno da contorno alla mitologia greca costituisce senz’altro uno dei patrimoni più importanti della narrativa mondiale di tutti i tempi. Mi piace pertanto ultimare questo viaggio nei “Racconti senza tempo” parlando di Perseo, protagonista di uno dei temi più ricorrenti della nostra memoria ancestrale: l’eterna lotta dell’eroe con il mostro.
Ci fu un tempo in cui, nell’Ellade (antico nome della Grecia), nacque e prosperò una città nel cuore del Peloponneso, tra le più antiche fondate dai Pelasgi, i primi abitanti del Mediterraneo.
Questa città viene citata nelle fonti antiche come la potente Argo; secondo la leggenda, il suo nome deriva direttamente da quello del suo mitico fondatore, il quale diede inizio ad una dinastia destinata a durare per nove generazioni;
i primi reggitori di quello che fu forse il primo centro urbano dell’intera Grecia appartengono ad un passato così remoto che persino gli studiosi più meticolosi si limitano appena a citare i nomi di Inaco, Foroneo, Gelanore e tanti altri sovrani di cui si sa in realtà ben poco.
Sui primi re di Argo, tuttavia, esiste una storia che non posso fare a meno di raccontarvi, prima ancora di entrare nel vivo delle imprese del nostro eroe.
Si narra, infatti, che il nobile Danao, figlio di Belo[1], avesse deciso di riparare proprio in Argo assieme alle sue cinquanta figlie (dette, appunto, le Danaidi) per sfuggire alle persecuzioni di suo fratello Egitto. Quest’ultimo, infatti, aveva ereditato dal padre e dall’avo Epafo le corone della Libia e dell’Egitto e, geloso del suo potere, voleva eliminare tutti i suoi parenti più stretti vedendo in loro una potenziale minaccia per il suo trono.
Danao, come si è detto, riparò in Argo proprio quando si era ormai estinta la linea di discendenza della vecchia dinastia locale; date le sue nobili origini (era nipote in linea retta di Poseidon, il dio del mare), venne acclamato come sovrano dagli Argivi.
Il perfido Egitto, tuttavia, non cessò di tormentare il fratello; il potente sovrano giunse in Grecia con la sua flotta, accompagnato dai suoi cinquanta figli e minacciò di assediare Argo e di raderla al suolo, se Danao non avesse accettato le sue condizioni: ciascuno dei suoi cinquanta figli si sarebbero maritato con una delle Danaidi; in tal modo, Egitto pensava di assicurarsi la successione del regno di Argo alla morte del fratello[2].
Impotente a fronteggiare l’immane esercito del bellicoso fratello, Danao dovette acconsentire alle odiose nozze. Gli storici dei tempi antichi rabbrividiscono tuttora a raccontare la terribile vendetta che concepirono le Danaidi, la quali trucidarono i loro mariti durante la prima notte di nozze[3]: tutte, tranne Ipermnestra, l’unica ad essere legata da un sentimento di vero amore con il marito Linceo: e fu grazie a loro che la dinastia dei reggitori di Argo poté continuare, più forte e solida di prima.
Essi infatti generarono Abante, che estese la sua sovranità a tutta la regione che, da allora, prende il nome di Argolide; questi era un guerriero così temibile che riusciva a terrorizzare i nemici anche solo mostrando le proprie armi custodite nel palazzo.
Abante ebbe due gemelli: Acrisio e Preto. I due fratelli non si amavano ed erano sempre in lotta fra di loro: si narra che i due avessero iniziato a battersi addirittura sin da quando si trovavano ancora nel grembo materno.
Preto e Acrisio, eredi del regno dell’Argolide, si disputarono a lungo il diritto di cingere la corona, sino a quando si giunse alla spartizione del regno: Acrisio ottenne il trono di Argo, mentre Preto ebbe la sovranità di Tirinto.
Non contento di avere ottenuto la signoria di Argo, Acrisio temeva di continuo per le sorti del suo regno anche perché, avendo avuto dalla moglie una sola figlia femmina, la bella Danae, non sapeva a chi avrebbe trasmesso il titolo alla sua morte, essendo privo di eredi maschi.
Acrisio si rivolse al famoso oracolo di Delfi per avere lumi sul suo futuro, ma la sacerdotessa di Apollo lo raggelò: ella infatti predisse che Danae avrebbe avuto un figlio maschio, ma che questi sarebbe stato destinato un giorno ad uccidere il nonno materno.
Terrorizzato dal terribile vaticinio della Pizia, la sacerdotessa di Apollo portavoce della saggezza del dio, Acrisio decise di rinchiudere la figlia in una torre ben fortificata, con porte di bronzo guardate da cani ferocissimi; solo una nutrice poteva avere accesso ai suoi appartamenti: qualsiasi contatto con persone di sesso maschile era rigorosamente proibito.
Acrisio pensava, in questo modo, di poter eludere il destino che gli era stato prospettato, ma si ingannava: il Fato, potere arcano cui neppure gli dei possono sottrarsi, stava già filando il corso della sua vita.
Alcuni mesi dopo, infatti, nonostante conducesse una triste vita da prigioniera, Danae concepì un figlio, cui venne dato il nome di Perseo. Si racconta che fu lo stesso padre di tutti gli dei, il possente Zeus, ad invaghirsi della bella figlia del re di Argo; trasformatosi in una pioggia d’oro, il dio del fulmine e del tuono penetrò attraverso le finestre della torre in cui era rinchiusa la incolpevole fanciulla, riuscendo così a sedurla.
Quando Acrisio scoprì che la figlia aveva messo al mondo un figlio maschio, concepì una terribile vendetta: fece chiudere Danae e il nipote in una cassa di legno che mise su un’imbarcazione da lasciare alla deriva.
Il “lamento di Danae”, che nella sua pur terribile disgrazia tenta di tranquillizzare il figlio con una dolce nenia, è stato reso immortale dal poeta greco Simonide, che citiamo integralmente nella traduzione di S. Quasimodo:
Quando nell’arca regale l’impeto del vento
e l’acqua agitata la trascinarono al largo,
Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa
le mani su Perseo e disse: “O figlio,
qual pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l’onda lunga dell’acqua che passa
sul tuo capo, non odi; né il rombo
dell’aria: nella rossa
vestina di lana, giaci; reclinato
al sonno del tuo bel viso.
Se tu sapessi ciò che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi. Un mutamento
avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami,
la ragione m’abbandona.
La piccola imbarcazione navigò al largo per ore ed ore ma, miracolosamente, non fece naufragio e così la cassa venne gettata sulla riva dell’isola di Serifo, che fa parte dell’arcipelago delle Cicladi.
Fu un pescatore di nome Ditti, fratello del tiranno dell’isola Polidette, a notare lamenti e vagiti provenienti da una misteriosa cassa all’interno di una barca che si era arenata sulle rive sabbiose della spiaggia.
Ditti aprì la cassa e vi trovò Perseo e la madre ancora vivi, nonostante quel viaggio infernale in balia dei flutti; il pescatore li rifocillò e li ospitò nella sua casa, sino a quando non ripresero del tutto le forze.
Un evento così eccezionale e miracoloso fece ovviamente il giro dell’isola in poco tempo; il tiranno Polidette, commosso per la tragedia scampata dei due naufraghi, offrì loro alloggio ed ospitalità all’interno della sua reggia.
Gli anni passarono in fretta: Perseo divenne un giovane bello, forte e valoroso, mentre la madre Danae rimaneva una donna assai affascinante anche con la maturità, tanto da accendere nel re Polidette una insana passione.
Il tiranno cercava in tutti i modi di convincere la donna a sposarlo, ma Danae, il cui unico pensiero era per il figlio Perseo, non ricambiava l’amore del sovrano dell’isola.
Polidette concepì allora un piano diabolico per sbarazzarsi del figlio di Danae: sparse in giro la voce che per il bene del suo regno avrebbe preso in moglie una nobile delle isole vicine e convocò nobili e cortigiani (tra cui lo stesso Perseo) per dare l’annuncio ufficiale.
Perseo, mortificato perché non era in grado di fare un regalo di nozze al re, affermò che avrebbe procurato a Polidette qualunque dono avesse chiesto. Il re dell’isola, astutamente, espresse il desiderio di ricevere in dono per le sue nozze la testa della Medusa.
Per capire meglio quanto fosse astrusa la richiesta del re Polidette, è opportuno spiegare meglio che tipo di creatura fosse la Medusa, la più terribile delle Gorgoni.
Figlie delle divinità marine Forco e Ceto, le Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa) avevano un aspetto mostruoso: il loro corpo era ricoperto di scaglie come quelle dei rettili e avevano serpenti vivi al posto dei capelli; esse, inoltre, avevano il potere di pietrificare chiunque avesse la sfortuna di incrociare il loro sguardo. Mentre Steno ed Euriale avevano il dono dell’immortalità, Medusa era invece mortale e poteva essere uccisa.
Affrontare la Medusa significava quindi andare incontro a morte certa: il malefico potere della Gorgone aveva già trasformato in duri sassi molti valenti eroi. Ma Perseo si era impegnato di fronte al re e a tutti i dignitari dell’isola: c’era in gioco il suo onore, ormai, per cui il ragazzo mai e poi mai si sarebbe tirato indietro; l’ardore giovanile e un po’ incosciente rischiava tuttavia di essere fatale al figlio di Danae.
Per fortuna, vennero in soccorso del giovane Perseo due tra le divinità solitamente più vicine agli eroi impavidi e coraggiosi: Hermes (Mercurio) e la vergine Pallade Atena (Minerva).
Hermes prestò al giovane rampollo della casata di Argo i suoi calzari alati, per consentirgli di spostarsi in volo anche per grandi distanze, e l’elmo di Ade, che rendeva invisibile chiunque lo indossasse.
La dea Atena, invece, gli donò uno scudo lucido come un specchio, raccomandando all’eroe di non guardare mai Medusa dritto negli occhi, ma solo attraverso il riflesso di quello scudo: in tal modo, Perseo sarebbe stato immune dal tremendo potere della Gorgone.
Altri oggetti magici erano tuttavia necessari a Perseo per poter compiere la sua impresa: una falce di diamante per riuscire a decapitare il mostro e una sacca magica per riporre la testa recisa. Tali oggetti, però, erano custoditi dalle Ninfe dello Stige, le quali dimoravano in luogo sconosciuto ai molti e noto unicamente a delle sinistre creature di cui pochi parlavano senza rabbrividire per la paura: le Graie.
Figlie anch’esse delle divinità marine Forco e Ceto (e quindi sorelle delle Gorgoni), le tre Graie Enio, Deino e Pefredo erano vecchie, decrepite e avvizzite sin dalla nascita; esse inoltre avevano un solo occhio e un solo dente in comune, che si passavano tra di loro a turno.
Grazie ai calzari alati e alla guida di Hermes, Perseo raggiunse senza difficoltà la dimora delle tristi e malinconiche Graie, che si trovava ai confini del mondo conosciuto, là dove il Titano Atlante reggeva la volta del cielo per ordine del sovrano dell’universo.
Giunto alfine alla meta, il giovane figlio di Danae pensò bene di nascondersi alla vista di quelle creature tanto solitarie e pericolose, per cui si acquattò con cura in attesa del momento in cui una delle Graie avrebbe passato l’unico occhio e l’unico dente ad una delle sorelle.
Perseo, astutamente, aspettò con pazienza l’attimo fatale e riuscì a ghermire con l’audacia che è propria solo dei coraggiosi e degli sfrontati quegli strumenti così vitali per la sopravvivenza di quelle antiche creature.
Il nipote di Acrisio minacciò di portarsi via il dente e l’occhio se le Graie non gli avessero rivelato dove poter trovare le Ninfe dello Stige; prive dei loro organi vitali, le figlie di Forco e Ceto non avevano scelta se non rivelare quanto era stato loro richiesto.
Perseo non ebbe alcuna difficoltà a raggiungere le Ninfe dello Stige, le quali furono molto impressionate dal carattere di quel giovane tanto sicuro di sé che, protetto dagli dei, ambiva ad uccidere addirittura la terribile Medusa: grazie alla mediazione dello scaltro ed affabile Hermes, messaggero degli dei, esse gli consegnarono senza esitare la falce di diamante e la bisaccia che il figlio di Danae aveva richiesto.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.