Ginevra – atto secondo
Rimasi lì dietro una siepe, lungo la fila di scogli in riva al mare. Ero come assente, non sentivo nulla, non provavo dolore, solo un vuoto enorme nella mente. L’alta marea salì quel tanto da sfiorare i miei piedi, al contatto con l’acqua ebbi come un balzo e il freddo dell’acqua mi scosse in un brivido di dolore.
Cos’era successo? Chi aveva profanato il mio corpo, non avevo visto, ma avevo sentito il fuoco penetrare dentro di me, rompere la mia carne. Com’era stato possibile che ci fosse qualcuno a cui piaceva questo mio corpo insulso, anche se insignificante, era il mio, ero io, una persona fatta di carne e sentimenti.
Provai ad alzarmi e il dolore si materializzò in un rivolo di sangue tiepido che scorreva lungo una coscia. Il vestito strappato mostrava parte della mia carne bianca, luminosa al chiaro di luna, come una medusa abbandonata sulla spiaggia.
Barcollando mi feci forza e appoggiandomi agli scogli, tentai di tornare verso l’interno, lo stabilimento balneare dove avevamo le cabine per tutta la famiglia.
Passo dopo passo con la lacerazione che ad ogni passo lasciava scivolare una goccia di sangue, arrivai al bordo del muretto che divideva la spiaggia dalla strada. Mi accasciai e rimasi seduta sulla sabbia con le spalle appoggiate al muretto, vinta dalla sofferenza.
Il pensiero andò a mia madre e a mio padre. Il colonnello avrebbe mosso mari e monti per assicurare alla giustizia l’artefice di tanto strazio, ma pronto in ogni caso a farsi giustizia da solo. Ero sicura che lo avrebbe fatto senza pensare alle possibili conseguenze.
Non era un tipo da perdonare nulla a nessuno. Uno dei ragazzi dello stabilimento che stava ultimando le pulizie per l’indomani, mi vide e, accortosi delle mie condizioni, si precipitò a soccorrermi.
In breve tempo si radunò una piccola folla d’ amici e villeggianti che presero a discutere sulle mie disgrazie. Poco mancò che mi mettessi ad urlare, ma non n’avevo la forza, altrimenti li avrei mandati al diavolo tutti.
La gente è sempre pronta a discutere di tutto, anche in presenza di dolore, di sofferenza, se ne sta lì a sentenziare su cose di cui non sa niente e che nulla a loro importa, se non il farsi vedere, preoccupati solo del loro buon nome.
Arrivò mio padre con la macchina. Era nero d’umore come un calabrone infuriato, mi caricò in macchina e partì verso l’ospedale come se avesse il fuoco dentro la macchina. Del tragitto, del mio ricovero e di tutto il resto non ricordo nulla. Caddi in uno stato di sonno artificioso che durò molti giorni.
Non vidi mia madre con gli occhi gonfi dalle lacrime, non ascoltai la furia di mio padre, mentre affrontava i carabinieri ordinando loro di darsi da fare, voleva il colpevole davanti a se il più presto possibile. Abituato al comando, non ammetteva scuse o ritardi di sorta.
Nemmeno la presenza di mia sorella Emma fu capace di svegliarmi dal mio sonno.
Durante quel periodo sognai cose assurde, situazioni inverosimili delle quali, ancora adesso, ho scarsi ricordi.
In una di queste scene mi vedevo alzarmi da letto in piena notte e girare per la mia camera d’ospedale, cercavo qualcosa che alla fine trovai. C’era un fascio di telegrammi arrivati da ogni amico e amica che aveva saputo della notizia, erano tenuti insieme da una graffetta.
Come una sonnambula con quella graffetta andavo in bagno, seduta nella vasca cominciavo a segare con la punta i polsi all’altezza della mano, prima da una parte poi dall’altra, il sangue scorreva copioso, riempiva la vasca e io mi abbandonavo dolcemente alle lusinghe della pace, del sonno.
Tornavo a dormire e sognavo di nuvole bianche, di cieli azzurri dove le nuvole correvano inseguendo aquiloni.
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