La cerbottana del fantasma
2 novembre. Anno del Signore 1517
La figura era alta come un uomo di statura abbondante; la cappa di cui era vestita ondeggiava a ogni movimento, bianco contrasto al verde del bosco. Sembrava danzasse, come una ninfa silvestre, quasi eterea. Il candido manto copriva la testa e il volto.
La figura assunse la forma di un uccello, o un angelo, o un antico romano togato che portasse le braccia alla testa. Mani o artigli celate dalla tela bianca brandivano una specie di canna che venne portata all’altezza di una bocca nascosta, come il flauto di un fauno. Non furono note a uscire dallo strumento, bensì un dardo, che venne soffiato fuori e, veloce e preciso, centrò un abete distante.
«Colpito!» urlò una voce infantile uscita da dietro il candido manto.
«Ma è ora di ritornare. Le lezioni inizieranno esattamente tra tre minuti!» fece eco un’altra vocetta uscita dalla pancia della figura.
Il mantello cadde nell’erba d’un colpo, mettendo in mostra due bimbe, una sulle spalle dell’altra. Quella sopra, che brandiva la canna, saltò giù con l’agilità di una scimmia.
Mentre quella dalla chioma rossa che aveva sostenuto la compagna piegava il lenzuolo bianco contando i secondi, l’altra nascondeva la cerbottana e i dardi nell’incavo del tronco di un pino.
Un attimo dopo, corsero leste verso la scuola, lasciandosi dietro i giochi segreti e proibiti e assumendo la finta espressione di diligenza e obbedienza che tanto piaceva ai rispettivi genitori.
Le agenti Atena e Artemide e i loro consorti sognavano per le figlie un avvenire di libri e cultura, lontano da rischi e pericoli. Fulvia e Anna avevano in parte soddisfatto i desideri dei genitori, dandosi da fare per ottenere bei voti diventando le favorite delle Signora Eleonora, la maestra.
Brave in tutto. Leggere, scrivere, matematica, alchimia, ginnastica e recitazione. Il talento nell’ultima materia era stata la mascherata per le scappatelle nel bosco a esercitarsi in arti marziali nella segreta ambizione di giocare alla mamma.
E le figlie di due agenti non potevano tenersi lontane dal fantasticare avventure. Il sangue non era acqua e le due bimbe che avevano appena compiuto nove anni avevano ereditato ciascuna il talento materno. Anche quello di saper fingere.
Entrarono nella scuola puntualissime alla fine della ricreazione, passarono per la camerata, ponendo il lenzuolo ben piegato sul letto di Fulvia, arrivando nella classe prima delle compagne.
Non appena videro che al posto della maestra, nell’aula si stagliava un gruppo di frati in saio grigio, Fulvia, figlia di Atena, lanciò uno sguardo sospettoso degno di sua madre in direzione di Anna. La figlia di Artemide confermò con gli occhi bruni ereditati dal padre che qualcosa non andava.
Dai sai, i monaci grigi estrassero pugnali, spade, asce. Uno un archibugio.
Le sei gabbie erano appese alle travi della cappella del collegio. Le bimbe vi erano state rinchiuse, cinque alla volta. Fulvia e Anna, da dietro le sbarre guardavano le compagne in preda al terrore, allodole impaurite in cattività. Per fortuna non capivano.
Loro, che invece avevano sempre origliato i discorsi materni, da provette aspiranti spie, sapevano che quelli non erano pacifici frati dediti alla carità cristiana, bensì Flagellanti, paladini di una versione violenta del Verbo di Gesù che Lui non aveva mai detto. Assassini.
Sotto di loro, il capo dei frati predicò: «O anime innocenti! Nostro Signore disse: “Lasciate che i pargoli vengano a me”. E voi lo raggiungerete. La fiamme che ben presto brucieranno questa scuola che insegna alle femmine a pensare, leggere e scrivere, distribuendo scienza diabolica in questa Italia del Diavolo, raggiungerà alla fine anche questa cappella sconsacrata. Ma prima che il fuoco purificatore vi liberi da questa Babilonia, esso farà evaporare la pozione soporifera e voi vi addormenterete prima di morire.»
Indicò i calici posti sotto ciascuna gabbia. Poi la settima, sul pavimento davanti all’altare, dove era rinchiusa la maestra.
«Colei che vi ha corrotto, invece, al servizio di una Repubblica che obbliga le bimbe ad andare a scuola, brucerà sveglia, assaggiando l’Inferno che l’attende nell’aldilà. Avrete un’ora esatta per prepararvi al trapasso. Vi abbiamo lasciato la Bibbia da leggere e aghi e filo per esercitarvi all’unica arte che si confà alle femmine: cucire. Nel Purgatorio che vi attende sarà la pena da espiare prima del giudizio del Signore.»
Gettò la chiave delle gabbie sul pavimento e uscì assieme agli altri.
Rimase il coro degli invochi alla mamma di ciascuna bimba. Anche Anna fece altrettanto e la vaga unione mentale a distanza, che spesso le aveva inviato immagini di strana gente dalla pelle color terracotta, si fece più forte. La distanza sembrò accorciarsi.
Grazie a quelle visioni, aveva imparato a costruire la cerbottana e i dardi, come gli uomini di quel paese lontano dove Artemide si trovava, modificando un flauto tappandone i fori con la cera. La vicinanza materna le diede coraggio e inventiva.
Fulvia notò il lampo di speranza negli occhi di Anna. Non credeva alle fandonie delle visioni della madre dell’amica, ma ammirava la sua creatività.
Cominciò a contare i secondi che mancavano all’ora fatale, mentre le mani di Anna strappavano la doppia pagina centrale della Bibbia, arrotolandola velocemente ma con sicura precisione e ricavandone una cerbottana lunga due spanne circa, che sigillò con la cera della candela a loro lasciata per leggere e cucire nella penombra della cappella.
Strappò un paio di altre pagine delle Sacre Scritture ricavandone striscie rettangolari larghe un dito. Con maestria, la bimba arrotolò i brandelli di carta ricavandone frecce coniche. Fissò un ago alla punta del dardo cartaceo con la cera. Infilò quindi ogni freccetta nella cerbottana per aggiustarne il calibro strappando la carta di troppo.
I secondi passavano, troppo veloci, mentre Anna faceva passare il filo sottile dal foro di uscita della cerbottana, che, sbucato da quello opposto, venne legato alla cima di uno dei dardi. Infilò quella specie di arpione nella canna e prese accuratamente la mira.
La chiave giaceva presso la porta d’ingresso, appena visibile alla luce dei ceri, attaccata con uno spago a un pezzo di legno. Era passato un quarto d’ora secondo i calcoli di Fulvia, quando Anna sparò il piccolo arpione che andò a piantarsi nel ligneo portachiavi.
Trainarono la chiave fino a sotto la gabbia, per poi issarla. I secondi passavano, inesorabili. Aprirono la serratura e furono libere. Saltarono sul pavimento, liberarono la maestra, e mentre la signora si dava da fare per liberare le compagne, Fulvia seguì Anna che si era impadronita di un calice pieno di sonnifero. Varcata la porta, nel vestibolo, notarono un tendaggio bianco. Di comune intesa, lo strapparono.
I Flagellanti avevano già cosparso di olio porte e facciate della scuola e della cappella adiacente. Il capo stava già armeggiando con la pietra focaia per accendere la torcia. Il frate armato di archibugio assunse un’espressione sorpresa prima di accasciarsi al suolo.
L’operazione di accensione della fiaccola venne interrotta e mentre gli altri cercavano di scoprire la causa dello svenimento del complice. Un altro uomo in saio grigio si accasciò, senza un lamento. Fu la volta di un terzo.
Il mistero venne risolto quando videro un piccolo dardo infilato al collo dell’ultimo caduto. Qualcuno li stava bersagliando. Quando un altro Flagellante cadde, il capo identificò la traiettoria del dardo. Insieme agli ultimi due superstiti fece in tempo a barricarsi dietro un muretto.
Un tintinnio metallico risuonò, appena percettibile da dietro la loro trincea. Fece segno ai complici di aggirare il muretto. Sfoderò la spada alla ricerca del misterioso arciere o balestriere che fosse. Udì i passi e vide l’ombra. Spada in mano, seguito dai due, uno con ascia bipenne e l’altro con un coltellaccio, si gettò verso l’uomo, ma si trovò davanti una figura ammantata di bianco.
Esitarono nel dubbio che si trattasse di un fantasma, o un angelo. In ogni caso non aveva né arco né balestra. L’angelo portò una specie di flauto all’altezza del volto incapucciato. Un soffio, e quello con la scure cadde.
Quello col coltello se la diede a gambe. Il capo attaccò e trafisse la gola del cecchino. Niente sangue.
L’essere cambiò forma e un altro paio di gambe spuntò da sotto la cappa. Il demonio quadrupede in bianco trottò via mentre una coda spuntava uscendo dal manto nella forma del flauto lanciadardi. Paralizzato dalla paura, il frate percepì il soffio che gli donò il buio liberatore.
Anna colpì il fuggitivo alle spalle. Fulvia con in mano il calice dell’oleoso intruglio soporifero in cui Anna aveva intinto i dardi, indicò un’aeronave con i soccorsi che si avvicinava. Fine del gioco.
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.
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