Re Artù. I cavaleri della tavola rotonda – 3 di 3

La morte di Artù

4.

La morte di Artù

 

La cavalleria di re Artù, già indebolita dopo la quest del Graal (alcuni dei suoi componenti avevano trovato la morte nella loro ricerca), venne ulteriormente funestata da una faida interna.

La fedifraga storia d’amore tra Lancillotto e Ginevra, infatti, venne scoperta, gettando la corte nello sconforto: il figlio di re Ban fu costretto a fuggire, mentre la moglie del re fu processata per tradimento e condannata al rogo.

Fu lo stesso Lancillotto, con l’aiuto di alcuni cavalieri a lui fedeli, a liberare Ginevra con un colpo di mano e a condurla con sé nel castello della Gioiosa Guardia.

Artù ed il suo seguito non poterono accettare lo smacco e si mobilitarono per mettere sotto assedio il rifugio dei due amanti.

Fu una guerra fratricida, che oppose tra loro cavalieri che sino a poco tempo prima erano stati fedeli al loro sovrano; durante il più cruento di questi scontri, Lancillotto ferì a morte Galvano; il nipote del re, prima di spirare pregò lo zio di riconciliarsi con la moglie e con il migliore dei suoi cavalieri.

Gli eventi, però, non consentirono ad Artù di riportare l’armonia nella sua corte, tra quanti gli avevano giurato fedeltà.

Il re venne a sapere, infatti, che durante la sua assenza aveva usurpato il trono il figliastro che egli aveva avuto da una relazione incestuosa con la sorella Morgawse (ovvero, secondo taluni, con l’altra sorella: Morgana la fata); il traditore, che aveva osato calpestare la fiducia del proprio padre e del proprio sovrano, era Mordred, un nome destinato nei secoli ad essere sinonimo di infedeltà e di brama di potere.

Artù levò l’assedio e si recò nel Kent con i suoi cavalieri. Ginevra decise di trascorrere il resto dei suoi giorni in convento, mentre Lancillotto divenne eremita.

Lo scontro decisivo tra le due fazioni avvenne a Camlann (ovvero, secondo altre versioni, a Barham Down) e fu la battaglia più funesta mai vista in terra cristiana. Il fior fiore della cavalleria trovò la morte; Artù e Mordred si affrontarono in un duello cruento:

il figliastro del re si scagliò addosso al padre con la spada, mentre il re affondò la sua lancia sotto lo scudo di Mordred, trapassandolo da parte a parte; poco prima di spirare, però, l’usurpatore riuscì a ferire gravemente Artù alla testa.

Sir Lucano e Sir Bedivere, unici sopravvissuti alla strage, cercarono di sollevare il re, che con un filo di voce disse: “Prendete la mia spada Excalibur e portatela sulla riva del mare; vi ordino di gettarla in acqua e di tornare poi a dirmi cosa avete visto”.

Sir Bedivere prese in mano la spada ma non ebbe il coraggio di obbedire agli ordini, per cui nascose l’arma sotto un albero e poi si affrettò a tornare dal re.

“Che cosa hai visto?”, gli domandò Artù.

“Nient’altro che onde e venti”.

“Non è vero” replicò il re. “Ora affrettati ad ubbidire e, se ti sono caro, non esitare a fare quanto ti ho detto”.

Allora sir Bedivere tornò a prendere la spada, ma pensando che fosse un peccato ed una vergogna gettare via un’arma tanto nobile, la nascose di nuovo.

“Che cosa hai visto?”, domandò per la seconda volta il re.

“Nient’altro che flutti e ondate nere”.

“Ahimè, mi hai ingannato ancora. Sbrigati a compiere la tua missione; non capisci cosa potrebbe succedere se la spada cadesse in mani sbagliate?”.

Sir Bedivere tornò dove aveva nascosto la spada e si avvicinò alla riva; poi avvolse la cintura attorno all’elsa e la scagliò più lontano che potè. Allora vide un braccio ed una mano sorgere dall’acqua, afferrarla stretta, brandirla tre volte e poi inabissarsi con l’arma.

Quando sir Bedivere tornò vicino al re e gli raccontò quello che aveva visto, il sovrano si limitò ad annuire.

Nel mentre, una piccola chiatta proveniente da un lago attraccò; scesero a terra tre belle dame, che condussero Artù all’interno dell’imbarcazione per portarlo nell’isola di Avalon[1].

Nessuno seppe più nulla di Arthur Pendragon, ma i più sostengono che a condurlo via furono la Dama del Lago ed il suo seguito e che tra le donne giunte sulla chiatta vi fosse sua sorella, Morgana la fata[2]. Secondo taluni, egli non è morto ma riposa in attesa di tornare a nuova vita, assieme a Merlino, quando la sua terra avrà ancora bisogno di lui.

[1]     Questa mitica isola viene normalmente collocata all’interno della piana di Glastonbury, nel cui terreno paludoso sorgeva una collina come un’isola nel mare di acquitrini.
[2]     Il ruolo e la figura di Morgana nella leggenda di Artù appare ambiguo e, per certi versi, affascinante; le versioni moderne e cinematografiche tendono a descriverla come una donna malvagia e come perfida alleata di Mordred. Nei testi più antichi, da un lato ella appare a più riprese come avversaria di Artù, contro il quale ordisce una congiura con la complicità di Accolon; dall’altro, la fata conduce il sovrano nell’isola di Avalon, dove Artù potrà godere del giusto riposo dopo le sue imprese. Verosimilmente, il mito originario (la cui origine risale ad un passato assai remoto) presentava un legame molto forte tra Artù, Morgana e la Dama del Lago, che un misogino cristianesimo medievale ha cercato di ‘occultare’, gettando un’aura di malvagità sulle presenze femminili della leggenda, ritenute evidentemente troppo ingombranti.

Sir Bedivere getta la spada Excalibur

5.

Dalla storia al mito

 

La storia della leggenda di Artù attraverso i secoli è quasi altrettanto affascinante delle vicende legate alla Tavola Rotonda, ragion per cui si è deciso di dedicare un capitolo a parte alla genesi di questo corpus letterario[1].

Il nome di Artù appare per la prima volta nella letteratura gallese: in un antico poema risalente al VI secolo d.C., infatti, il poeta Aneirin scrisse di uno dei suoi sudditi che lui “nutriva i corvi neri sui baluardi, pur non essendo Artù” (il poema è tuttavia ricco di inserimenti posteriori e non è possibile sapere se questo passaggio sia parte della versione originale o meno).

Alcune composizioni del bardo e poeta Taliesin, appartenenti presumibilmente allo stesso periodo, citano Artù: il poema Viaggio a Deganwy contiene un interessante passaggio: “come alla battaglia di Badon con Artù, il capo che organizza banchetti, con le sue grandi lame rosse dalla battaglia che tutti gli uomini possono ricordare“.

Altre importanti citazioni sono contenute nelle “Vite dei santi” o negli “Annali di Pasqua”, conservati al British Museum come “Historical Miscellany”, che risalgono all’XI-XII secolo ma che verosimilmente trascrivono annotazioni di epoche precedenti.

Ma il riferimento più importante tra gli scritti dell’Alto Medioevo è contenuto nella Historia Brittonum, attribuita al monaco gallese Nennio, che scrisse questo compendio dell’antica storia del suo paese nel IX sec. d.C.[2];

quest’opera ci descrive Artù come un “dux bellorum“, cui vengono attribuiti almeno dodici scontri contro gli invasori; in particolare, nella battaglia del Monte Badon egli avrebbe ucciso da solo novecentosessanta nemici.

E’ importante sottolineare che Nennio consideri a tutti gli effetti Artù come un personaggio storico realmente esistito.

Secondo gli Annales Cambriae, una cronaca del X sec. d.C. relativa agli eventi più significativi del Galles nell’Alto Medioevo, Artù sarebbe stato poi ucciso durante la battaglia di Camlann nel 537 d.C.[3].

Un altro storico medievale del XII sec., Guglielmo di Malmesbury, autore dell’opera Deeds of the Kings of England, trattò dalla esistenza storica del personaggio di Artù.

Nel frattempo, la figura di Artù cominciò ad essere oggetto di un processo di mitizzazione letteraria, iniziato probabilmente in Galles. Nei racconti gallesi del “Mabinogion”, una delle testimonianze più importanti della letteratura celtica (giunti a noi in una redazione del XIV sec. ma risalenti ad una tradizione molto più antica), egli compare a più riprese.

Nella storia di “Culhwch e Olwen”, il protagonista visita la corte di Artù e cerca il suo aiuto per conquistare la mano della bella Olwen. Anche nel racconto “Peredur” (l’equivalente gallese di Percival) ci sono numerosi riferimenti al ruolo del sovrano inglese e dei suoi cavalieri[4].

La prima grande popolarizzazione della leggenda di re Artù fu però il romanzo di Goffredo di Monmouth (Historia Regum BritAnniae), che sviluppò la novella di Artù soprattutto su elementi fantastici ed avventurosi.

Le leggende di re Artù varcarono poi la Manica per diventare popolari in Francia (soprattutto in Bretagna, dove confluirono le migrazioni della comunità gallese), assimilando anche tradizioni letterarie locali[5].

La materia arturiana si diffuse poi nel resto d’Europa; in particolare, si deve al poeta Chretien de Troyes (vissuto a lungo presso la corte di Aquitania e considerato dai molti il più grande poeta medievale dopo Dante Alighieri) l’elaborazione di molti dei topoi letterari del ciclo bretone, come l’amore cortese e la ricerca del santo Graal.

Tali tematiche saranno poi rielaborate da più autori nel corso del Medioevo (tra cui Marie de France, Robert de Boron, Wolfram von Eschenbach, l’anonimo autore della Vulgata nonché l’altrettanto anonimo artefice di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, per citare solo i più noti), incorporando anche il ciclo di Tristano, inizialmente autonomo (Thomas, Beroul, Goffredo di Strasburgo).

Nel XV sec. la saga arturiana culmina nella mirabile sintesi di Thomas Malory, un nobile caduto in disgrazia durante la Guerra delle Due Rose, il quale durante la sua prigionia scrisse una summa delle leggende arturiane che divenne poi la versione “ufficiale” dell’epopea, cui attinsero molti degli autori successivi.

La materia arturiana avrebbe poi fornito ispirazione ai poemi cavallereschi del Rinascimento e sarebbe stata utilizzata come strumento di propaganda dalla dinastia inglese dei Tudor, che vantavano una discendenza diretta da re Artù.

Dopo un breve periodo di appannamento, la sensibilità del Romanticismo si riavvicinò alla poesia e all’epica medievale; la corrente pittorica dei Pre-Raffaeliti si ispira spesso alle leggende arturiane.

Il XX secolo, da ultimo, grazie alla nascita e alla grande popolarità del genere fantasy inaugurato da Tolkien e da altri autori di lingua inglese (Lewis, Howard, Ashton Smith, ecc.), conosce un vero e proprio revival del ciclo bretone, con numerose rielaborazioni e reinterpretazioni sia nel campo letterario che cinematografico, senza dimenticare il mondo del fumetto e dell’animazione[6].

Una delle questioni che ha affascinato maggiormente gli storici contemporanei consiste nello stabilire se re Artù sia stato un personaggio storico realmente esisitito ovvero se si tratti di una mera invenzione letteraria.

Se negli anni precedenti si era raggiunto un consenso generalizzato nel ritenere leggendaria la figura del sovrano, ultimamente alcune scuole di pensiero avanzano con convinzione l’ipotesi opposta.

Le tesi proposte sono state molteplici e le andiamo qui a riportare in estrema sintesi:

  1. a) Artù sarebbe stato un condottiero romano-britannico vissuto nel V-VI secolo d.C., che combattè a lungo contro i Sassoni (è la versione di Nennio); i suoi ipotetici quartieri generali sono stati di volta in volta collocati in Galles, in Cornovaglia o nella parte occidentale dell’Inghil-terra[7];
  2. b) il re di Camelot sarebbe stato un sovrano di origine celtica, identificato di volta in volta con personaggi storici più o meno famosi, tra cui citiamo: Riotamo, re dei Bretoni in Armorica; Áedán mac Gabráin ovvero suo figlio Artuir mac Áedán, signori della guerra scozzesi; Owain Ddantgwin, che sembrerebbe essere stato un re di Rhôs (nel Galles);
  3. c) il leggendario sovrano coinciderebbe con un condottiero romano, identificato ora con l’usurpatore Magno Massimo ora con il dux Lucio Artorio Casto, che nel II secolo d.C. riportò numerosi successi militari guidando un’unità di guerrieri sarmati (provenienti dall’Ucraina meridionale);
  4. questi ultimi avrebbero importato in Britannia le loro usanze militari, come l’uso costante delle cavalcature durante le battaglie: i Sarmati sarebbero così gli antenati degli antichi cavalieri;
  5. d) secondo un’altra teoria Artù sarebbe stato in realtà un re dell’età del bronzo (III millennio a.C.); la leggenda della spada nella roccia costituirebbe una metafora della fusione del metallo e della successiva “estrazione” dell’arma.

Un’interessante ipotesi è stata recentemente prospettata da alcuni storici britannici consulenti dell’ente televisivo statale BBC circa l’origine del nome “Arthur”. Esso, a loro dire, potrebbe infatti derivare dall’unione del termine bretone “Arth” (che significa “Orso”), con l’analogo termine di derivazione latina “Ursus”: dal vocabolo ancestrale “Arth – Ursus” sarebbe derivato “Arthur”.

Anche sulla base del suo nome, una scuola di pensiero ritiene che la figura di Artù non abbia nessuna consistenza autentica e che si tratterebbe di una divinità celtica (Artaius) dimenticata e poi trasformata dalla tradizione orale in un personaggio storico.

La fanciulla di Shalott. Innamorata ma non corrisposta da Lancillotto, morì di dolore

Volendo sintetizzare in poche righe i contributi dei tanti studiosi che si sono occupati della materia, bisogna tornare al clima storico della Britannia del V sec. d.C.; le legioni romane, non potendo sostenere le pressioni dei barbari dal Reno e dal Danubio, decisero di abbandonare l’isola, che si ritrovò quindi a gestirsi in un vero e proprio autogoverno.

L’aristocrazia romana e quella celtica si allearono, facendo fronte comune contro gli invasori che provenivano dal nord (Pitti e Scoti) e dal mare (Angli, Juti, ma soprattutto Sassoni).

In questa fase, evidentemente uno o più condottieri particolarmente valorosi riuscirono ad arginare l’avanzata dei Sassoni e a dare alla Britannia un periodo di stabilità.

E’ molto probabile che tali figure avessero un’ascendenza romana[8] e che si avvalessero anche di quei legionari che avevano preferito rimanere nell’isola (ivi compresi quei guerrieri a cavallo che tanto dovettero influenzare il modo di combattere nei secoli successivi: i Sarmati, cavalieri ante litteram).

Ad ogni modo, tale periodo rimase particolarmente impresso nelle generazioni successive, spesso afflitte dalle invasioni di Sassoni e Vichinghi.

Si può pensare che, nelle epoche successive, il riferimento ad un periodo in cui i Britanni fecero fronte contro il nemico occupante avesse un certo ascendente sul pubblico.

E’ quindi probabile che il personaggio del dux bellorum che fronteggiò gli invasori sia stato mitizzato e che, con il passare dei secoli, più figure siano state poi riunite dalle credenze popolari e tramandate come se fossero un’unica entità.

Secondo un meccanismo tipico del Medioevo, che non conosceva la prospettiva storica, il sovrano ha incarnato i valori delle epoche in cui sono vissuti, di volta in volta, i poeti che lo cantavano, diventando così il campione della cortesia e dei valori cavallereschi, tutte qualità probabilmente ignorate dall’Artù storico.

Questa singolare mescolanza di storia e mito, in cui trovano posto fatti realmente accaduti, l’immaginario celtico e la fantasia medievale, ci hanno donato una delle leggende più longeve che la mitologia e la letteratura ricordino.

[1]     Per approfondimenti, si rinvia ai seguenti testi: ROLLAND, Re Artù, Bologna, Il Mulino, 2011; JENKINS, Il mistero di re Artù, Milano, Armenia, 1997; REID, La storia segreta di re Artù, Roma, Newton Compton, 2003.
[2]     NENNIO, Historia Brittonum (“La storia di re Artù e dei Britanni”), par. 56, Rimini, Il Cerchio, 2003, pp. 45-46.
[3]     Va tuttavia evidenziato che alcune opere storiche antecedenti a Nennio, il De excidio Britanniae del monaco GILDAS (VI sec. d.C.) e la Historica ecclesiastica gentis Anglorum di BEDA (VIII sec. d.C.) attribuiscono le vittorie sui Sassoni ad Ambrosio Aureliano (successivamente mutato in Aurelio Ambrosio), un condottiero di origine romana. Tutta la letteratura arturiana successiva, pertanto, sarebbe frutto di una “svista” degli storici dell’Alto Medioevo (a meno di non considerare, come certuni sostengono, Ambrosio ed Artù come un’unica figura).
[4]     Sul filone gallese delle leggende arturiane si legga: AGRATI-MAGINI (a cura di), I racconti gallesi del Mabinogion, Milano, Mondadori, 1994; GIANSANTI-MASCHIO, Agenzia senza tempo. Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù, Verona, QuiEdit, 2010.
[5]     Non a caso, alcuni studiosi sostennero che, dopo alcuni secoli, quando i Normanni conquistatori “riportarono” in Gran Bretagna la materia arturiana, l’Artù gallese e quello bretone avevano sviluppato cicli narrativi il cui contenuto si era totalmente diversificato.
[6]   L’Autore è particolarmente affezionato alla versione letteraria di BRADLEY, Le nebbie di Avalon, Milano, TEA, 1986.
[7]     Alcuni studi portano ad identificare l’Artù letterario con Ambrosio Aureliano, il condottiero che vinse alcune battaglie contro i Sassoni. Si rammenta che NENNIO attri-buisce ad Artù quella gesta che GILDAS e BEDA ascrivono ad Ambrosio; GIANSANTI-MASCHIO, op. cit., pp. 339-348.
[8]     Non è inutile evidenziare che Sir Ector e Sir Kay, rispettivamente padre adottivo e fratello di latte di Artù, hanno dei nomi di evidente origine greco-romana.

 

 

 

di Daniele Bello

 

 

 

Lascia un commento