I Sette contro Tebe – 2 di 3
La famiglia reale della Cadmea
Quando Cadmo divenne re di Tebe, egli si unì in matrimonio con la bellissima Armonia, figlia di Ares e Afrodite.
Sembra che tutti gli dei dell’Olimpo, per l’occasione, lasciassero la loro dimora celeste per celebrare, al suono degli inni sacri, la sacra unione tra i due sposi, nella regione che tutti ormai avevano cominciato a chiamare Cadmea[1]; per l’occasione, il re regalò alla moglie un peplo ed una collana lavorata dal dio Efesto.
Le nozze tra Cadmo ed Armonia vennero allietate da cinque figli: quattro femmine (Autonoe, Ino, Semele e Agave) e un maschio, Polidoro; la sorte, tuttavia, non fu benigna con la prole dei reali.
Autonoe, infatti, andò in sposa al nobile Aristeo (figlio di Apollo) ed ebbe un figlio, cui venne dato il nome di Atteone; questi divenne ben presto un famoso cacciatore, ma perì miseramente, sbranato dai suoi stessi cani;
si narra, infatti, che il figlio di Autonoe avesse visto accidentalmente Artemide mentre faceva il bagno; la dea, sdegnata, lo trasformò in cervo e provocò una furia rabbiosa nella muta dei cani che accompagnava lo sventurato cacciatore; gli animali, non riconoscendo il loro padrone, lo divorarono.
Ino si unì in matrimonio con Atamante[2], re di Orcomeno, mentre Agave sposò Echione (uno degli Sparti), da cui ebbe un figlio maschio cui vene dato il nome di Penteo.
[1] A quanto apprendiamo dai miti greci, in una sola altra circostanza gli dei si presentarono alle nozze di un mortale; e ciò fu in occasione delle nozze di Teti e Peleo, i genitori del prode Achille.
[2] Atamante si era legato precedentemente alla dea Nefele, da cui aveva avuto due figli (Frisso ed Elle); della loro sorte si parlerà più diffusamente nel Capitolo III, dedicato all’impresa degli Argonauti.
La bella Semele, invece, fece innamorare di sé il padre di tutti gli dei, Zeus dalla folgore fiammeggiante, che non si fece scrupoli nel sedurla e ingannare ancora una volta la moglie Hera.
Furiosa per l’ennesimo tradimento, la regina dei cieli prese le sembianze di una mortale e si presentò a Semele, consigliandole di chiedere al suo spasimante di rivelarsi in tutto il suo splendore;
quando l’ignara figlia di Cadmo si incontrò con il focoso amante, si fece promettere da Zeus che avrebbe esaudito qualsiasi desiderio ella avesse espresso. Il figlio di Crono acconsentì e Semele gli chiese di manifestarsi allo stesso modo in cui il dio si univa in amore alla dea Hera.
Zeus non potè rifiutare e si rivelò nel pieno del suo fulgore: la figlia di Cadmo morì incenerita, ma il padre di tutti gli dei riuscì a salvare il bambino di sette mesi che la fanciulla portava in grembo e se lo cucì all’interno della coscia.
Trascorso il tempo debito, Zeus partorì un figlio, cui venne dato il nome di Dioniso, e lo affidò al dio Hermes; questi lo portò a Ino e Atamante, convincendoli ad allevarlo.
La dea Hera, ancora furente per il tradimento del marito, rivolse la sua ira nei confronti del bambino e dei suoi genitori adottivi, che vennero quindi colpiti dalla follia:
Atamante diede la caccia al suo figlio maggiore, Learco, scambiandolo per un cervo, e lo uccise; poi gettò l’altro figlio Melicerte in mare, per lo strazio della madre che si gettò in acqua per salvarlo ed annegò (si tramanda che proprio in onore di queste vittime vennero istituiti in Ellade i Giochi Istmici)[1].
Per nascondere Dioniso dalla rabbia della dea Hera, Zeus lo trasformò in un capretto, che Hermes condusse in Asia;
ma anche lì il giovane figlio di Semele venne funestato dalla follia che gli aveva scagliato la regina degli dei e fu costretto a vagare, ramingo, per l’Egitto e per la Siria prima di giungere in Frigia, dove la dea Rea Cibele lo purificò e gli insegnò i riti di iniziazione collegati al culto della Grande Madre (più tardi noti nel mondo ellenico come i “Misteri”).
Una volta recuperato il senno, Dioniso scoprì il segreto della vite, della vendemmia e del vino; percorse in lungo e in largo l’India, l’Asia e la Tracia e, nel suo peregrinare, si creò un grosso seguito di adepti; spiccavano in particolare gruppi di donne che già cominciavano a definirsi sue sacerdotesse:
le Menadi e le Baccanti, che seguivano il carro di Dioniso in preda a frenesia estatica ed invasate dal furore e dall’ebbrezza;
il corteo era in genere accompagnato anche da belve feroci, da Satiri e da Sileni (esseri mitici, raffigurati come esseri umani barbuti con caratteristiche animali: avevano infatti le corna, la coda e le zampe di capra).
Attraversata la Tracia, Dioniso fece ritorno nella Cadmea, dove costrinse tutte le donne ad abbandonare le loro case e a compiere sul monte Citerone i riti misterici, in preda all’ebbrezza.
All’epoca, un ormai anziano Cadmo aveva lasciato il suo trono al nipote Penteo[2]; inorridito dal carattere orgiastico dei rituali collegati al culto in onore del cugino Dioniso, il figlio di Agave e di Echione cercò in tutti i modi di impedire tali cerimonie.
Salito sul Citerone, Penteo cercò di spiare le Baccanti, ma venne scoperto dalle sacerdotesse invasate, capeggiate da sua madre Agave. Le donne, in preda alla follia, lo fecero a pezzi, credendolo una belva feroce, e conficcarono la sua testa su un ramo di tirso; troppo tardi, esse compresero il loro tragico errore[3].
Dioniso si congedò dagli abitanti della Cadmea, proclamandosi una divinità e continuando il suo peregrinare in giro per il mondo, in attesa di essere accolto nell’Olimpo dal padre Zeus.
Dopo questi tragici eventi, Cadmo e Armonia decisero di lasciare la città e, su consiglio di un oracolo, si recarono nel paese degli Illiri, dove il figlio di Agenore venne acclamato come sovrano dalla popolazione locale;
in punto di morte, Cadmo ed Armonia vennero trasformati in serpenti e poi accolti da Zeus nei Campi Elisi (luogo nel quale dimoravano dopo la morte le anime di coloro che erano amati dagli dèi).
A quel punto ascese al trono Polidoro, figlio di Cadmo, il quale sposò Nitteide (figlia di Nitteo e nipote di Ctonio, uno degli Sparti), che gli diede un figlio maschio di nome Labdaco; questi succedette al trono paterno in tenera età, ragion per cui la reggenza venne assicurata durante i primi anni dal nonno Nitteo.
Del regno di Labdaco si sa ben poco, in verità: si racconta che il giovane sovrano mosse guerra agli Ateniesi per una questione di confini e che morì straziato dalle Baccanti, avendo tentato anche lui (come Penteo) di opporsi ai riti dionisiaci; poiché suo figlio Laio alla morte del padre aveva solamente un anno, il trono venne usurpato da Lico, fratello di Nitteo[4].
[1] Secondo Ovidio, la dea Afrodite (madre di Armonia e quindi nonna di Ino) ottenne da Poseidone di accogliere madre e figlia tra gli dei marini, dando a Ino il nome di Leucotòe ed a Melicerte quello di Palèmone (Portùnno, a Roma). Atamante venne invece mutato in un fiume. Dante Alighieri segue quasi pedissequamente la versione ovidiana nell’Inferno: “Nel tempo che Iunone era corrucciata per Semelè contra ‘l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e’ leoncini al varco” (Inferno, canto XXX, vv. 1-8).
[2] Secondo altre versioni del mito, prima di salire al trono Penteo spodestò lo zio Polidoro.
[3] Queste vicende ispirarono ad Euripide uno dei suoi capo-lavori: la tragedia “Le Baccanti”.
[4] Appartiene forse a questo periodo l’esilio di Anfitrione, durante il quale venne concepito l’eroe Eracle; divenuto più grande, l’eroe guidò i Cadmei contro la città di Orcomeno. L’assenza di Eracle a causa delle sue dodici fatiche favorì invece la odiosa tirannide di Lico. Ma la cronologia mitologica è tutt’altro che chiara, visto che nelle leggende che ruotano attorno al figlio di Alcmena il sovrano beota viene a volte identificato con Creonte, di cui si parlerà in seguito.
La reggenza degli Sparti
Il periodo di interregno, nel quale i figli di Cadmo persero il trono, va raccontato compiutamente anche se le fonti a nostra disposizione sono in realtà molto confuse.
Come si è avuto modo di vedere sopra, dopo la morte di Penteo cominciarono ad avere un certo ascendente sulla famiglia reale due discendenti degli Sparti: Nitteo e Lico, legati da profonda amicizia con il figlio di Agave[1].
Nitteo era il padre di una bellissima fanciulla di nome Antiope: questa era così seducente da far sorgere una irrefrenabile passione in Zeus, che si unì in amore con lei; quando rimase incinta, il padre scacciò Antiope e la fanciulla fu costretta a rifugiarsi da Epopeo, re di Sicione.
Disperato, il vecchio Nitteo morì di crepacuore, non prima di aver incaricato il fratello Lico di punire la figlia.
Lico mosse guerra a Sicione e la occupò, uccise Epopeo e portò con sè Antiope come prigioniera; egli fece inoltre abbandonare i due gemelli che la figlia di Nitteo aveva generato dalla sua unione con Zeus.
Non contento della sua impresa, il discendente degli Sparti prese il potere in Cadmea, approfittando della giovanissima età del legittimo erede al trono; ben presto, Lico trasformò il suo potere in una vera e propria tirannide, che egli esercitò per più di venti anni;
a farne le spese fu soprattutto la nipote Antiope, che venne trattata come una schiava e costretta a subire le angherie dello zio e di sua moglie Dirce.
Ma la storia dei regnanti della Beozia è ben lungi dall’essere completata; occorre infatti sapere che i due figli di Antiope, abbandonati lungo la strada per trovare morte certa, vennero raccolti ed allevati da un mandriano, che li adottò come figli e li chiamò Zeto e Anfione.
Crescendo, Zeto cominciò ad occuparsi del bestiame, mentre Anfione divenne maestro nella citarodia, l’arte di suonare la cetra che gli aveva donato Hermes.
Un giorno, Antiope riuscì a liberarsi dalla schiavitù e a fuggire, trovando rifugio ed ospitalità (manco a dirlo…) proprio nella capanna dove abitavano i suoi figli. Ci vollero solo pochi istanti affinchè i due gemelli riconoscessero la loro madre biologica e apprendessero delle loro vere origini.
Zeto ed Anfione partirono verso la città, portando con loro un buon numero di seguaci: essi uccisero Lico e suppliziarono Dirce legandola ad un toro selvaggio. I due fratelli presero quindi il potere ed esiliarono Laio, che trovò rifugio alla corte di Pelope (figlio di Tantalo), nel Peloponneso.
Si narra che Zeto ed Anfione divennero due sovrani molto amati dalla popolazione; a loro si deve, in particolare, la costruzione delle famose mura della città, con le celebri sette porte; secondo la versione di alcuni poeti, le pietre utilizzate per le fortificazioni si muovevano da sole seguendo il suono della lira di Anfione.
Zeto prese in moglie una bellissima donna di nome Tebe, da cui prese il nome la città; Anfione sposò invece Niobe, figlia di Tantalo, che gli diede ben quattordici figli (sette maschi e sette femmine[2]); del loro triste fato dovremo ora occuparci.
Fiera di avere una così bella discendenza, un giorno Niobe si vantò di essere una madre più felice della stessa Leto (madre di Apollo ed Artemide) e che a lei, piuttosto che ai numi, dovessere essere tributati onori divini. Dimenticava, la misera figlia di Tantalo, che gli dei ricordano tutte le offese e raramente le perdonano.
[1] Altre fonti riferiscono che Nitteo e Lico non sarebbero stati discendenti degli Sparti ma del dio Poseidone.
[2] Abbiamo seguito la versione di Apollodoro: Esiodo, invece, dice che Niobe ebbe dieci maschi e dieci femmine, Erodoto cita due figli e tre figlie; Omero parla invece di sei maschi e sei femmine.
Apollo ed Artemide incoccarono i loro archi magici, con i quali erano in grado di infliggere una morte istantanea agli sventurati colpiti dai loro dardi:
tutte le femmine vennero uccise nel palazzo reale dalle frecce di Artemide e tutti i maschi furono vittima delle frecce di Apollo mentre erano a caccia sul monte Citerone.
Disperata, Niobe lasciò Tebe e si rifugiò da suo padre Tantalo; qui la donna implorò gli dei e Zeus, per pietà, la trasformò in pietra (da quella roccia, da quel giorno scorrono incessantemente le lacrime della madre sventurata).
Dopo questi tragici eventi, Anfione morì e lo scettro passò nuovamente nelle mani dei discendenti di Cadmo.
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