Teseo e il Minotauro
Il nostro percorso tra i miti del passato prosegue con la leggenda del Minotauro; questo è stato il primo racconto che ho letto a mia figlia Beatrice, sicuro di annoiarla a morte… Invece, a distanza di qualche giorno, la sorpresi a parlare con la nostra portiera, che ci stava raccontando della recente nascita di una bambina, di nome Ariannna. Gli occhi di Beatrice si illuminarono e chiese: “Ma chi, quella di Teseo?”. Allora capii che io e mia moglie stavamo percorrendo il sentiero giusto… Questo racconto è dedicato a mia figlia Beatrice.
Teseo e il Minotauro
Tanto tempo fa regnava nell’Attica un re chiamato Egeo; la tradizione ci dice che la città più importante di questa regione fosse Atene, per la quale è opportuno spendere qualche parola in più.
Si narra, infatti, che subito dopo la sua fondazione due divinità si contendessero l’onore di dare il nome alla città: Poseidone (Nettuno), dio del mare, sperando di ingraziarsi il favore degli abitanti dell’Attica offrì il dono per lui più prezioso: il cavallo; Pallade Atena (Minerva), dea della sapienza e della guerra eroica, cercò di guadagnarsi il patronato recando a beneficio della popolazione l’albero dell’ulivo.
La dea Atena venne dichiarata vincitrice, per cui alla città appena fondata venne dato il nome di Atene; al fine di placare la collera dello sconfitto dio Poseidone, tuttavia, gli abitanti del luogo edificarono un tempio in suo onore a strapiombo sul mare, a Capo Sunion; ancora oggi, è possibile ammirare da quel monumento uno dei tramonti più belli del mondo.
Il primo re di Atene fu Cecrope, figlio della dea Terra e fondatore della prima dinastia di reggitori della città, il quale a causa delle sue origini veniva spesso raffigurato con la parte inferiore del corpo a forma di serpente (animale particolarmente sacro per i Greci in quanto aveva il privilegio di vivere più di tutti a contatto con la terra).
Fondatore della seconda dinastia di regnanti fu, invece, Erittonio, figlio della stessa dea Atena (che, però, per una strana alchimia che solo i miti possono alimentare, si è sempre dichiarata Parthenos, cioè vergine), di cui Egeo era un pronipote.
Egeo regnò su Atene per molti anni, ma il destino per lungo tempo lo privò della gioia di un erede maschio. Per paura di non poter trasmettere il trono ad un suo discendente, Egeo si recò a chiedere consiglio nel luogo più sacro di tutta l’antichità: l’oracolo di Delfi, dove – si diceva – il dio Apollo, nume solare nonché protettore della poesia e delle arti, parlava per il tramite della sua sacerdotessa, la Pizia.
Le parole dell’oracolo (“Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore“) non vennero comprese da Egeo, il quale sconsolato si recò a Trezene alla reggia del re Pitteo.
Il re di Trezene presentò Egeo a sua figlia Etra; tra i due, complice anche un improvviso stato di ubriachezza del re di Atene (favorito, a quanto si racconta, dallo stesso re Pitteo), sbocciò una passione travolgente a seguito della quale Etra rimase incinta, anche se alcuni mormorarono che fu in realtà il dio Poseidone a fecondare la figlia dl re di Trezene.
Quando seppe dello stato di Etra, Egeo decise di tornare ad Atene, ma volle nascondere i suoi calzari, lo scudo e la spada sotto una roccia; prima di partire, il re di Atene disse alla principessa di Trezene che il loro figlio avrebbe potuto presentarsi al padre solo quando fosse riuscito a sollevare la pietra e a riportare indietro le armi e i calzari.
Alcuni mesi dopo, Etra diede alla luce un figlio maschio, cui diede il nome di Teseo: il fanciullo crebbe forte e coraggioso e in breve tempo riuscì a sollevare l’enorme pietra che nascondeva le armi del padre; solo allora, la madre rivelò a Teseo la verità sulle sue origini.
Il giovane rampollo del re di Atene decise di mettersi subito in marcia per raggiungere la dimora paterna, pur sapendo che il tragitto che lo separava da Atene era infestato da ladri e banditi. Giovane, coraggioso e ambizioso, Teseo decise di andare ad Atene per la via di terra.
Si narra che, durante il viaggio che lo separava dalla città paterna, molti furono i briganti che tentarono di sbarrargli la strada, ma senza successo. Il più famoso di questi avversari si chiamava Procuste ed era solito stendere quanti gli capitavano tra le grinfie su di un letto: se la sua vittima era più lunga del giaciglio, gli amputava le gambe; in caso contrario, gli stiracchiava gli arti sino a farla morire di dolore; il giovane Teseo lo uccise praticandogli lo stesso trattamento che era solito riservare ai suoi prigionieri.
Giunto ad Atene, Teseo si presentò alla reggia ma non rivelò la sua vera identità.
All’epoca, un Egeo molto invecchiato era praticamente alla mercé della sua consigliera Medea, una maga molto potente originaria della Colchide (l’odierno Caucaso) e famosa per una serie di delitti efferati;
dopo aver funestato la città di Corinto uccidendo con le proprie mani i figli che aveva generato dall’eroe Giasone, ella era riuscita a trovare asilo in Attica, dove si era guadagnata comunque una fama di donna saggia e divinatrice presso il re.
Medea, sospettosa per l’arrivo dello straniero e temendo di perdere la posizione di potere che aveva ormai consolidato in Atene, cercò di persuadere Egeo ad uccidere il giovane. Per fortuna, il re riconobbe i calzari pochi istanti prima che Teseo bevesse dal calice di vino avvelenato che aveva preparato Medea.
Padre e figlio si erano finalmente riconosciuti e riuniti dopo tanto tempo e la maga malvagia venne esiliata per sempre da Atene.
Teseo venne associato al trono dal padre e questi lo ripagò sconfiggendo tutti i fieri nemici della città, consolidando il potere della sua dinastia in tutta la regione; ben presto, tuttavia, anche per Teseo venne il momento di confrontarsi con eventi decisamente tragici.
Alcuni anni prima, infatti, era giunto a far visita ad Atene il nobile Androgeo, figlio di Minosse, re della potentissima Creta. Poiché il giovane principe nel corso di giochi ginnici organizzati in suo onore era riuscito a umiliare gli Ateniesi in ogni disciplina, Egeo lo uccise, in preda alla gelosia.
Il sovrano di Creta Minosse, infuriato per questo terribile oltraggio, aveva dichiarato guerra agli Ateniesi e li aveva sconfitti imponendo loro terribili condizioni: ogni nove anni, infatti, sette giovinetti e sette fanciulle dovevano essere inviati a Creta per essere offerti in sacrificio al Minotauro, un feroce mostro di cui è bene parlare più diffusamente.
La nostra storia a questo punto si sposta nell’isola di Creta, dove regnava il potente Minosse, padrone incontrastato del mare che dominava dalla sua fastosa reggia di Cnosso; egli era figlio di Zeus (Giove) e della bella Europa, che il padre di tutti gli dei era riuscito a sedurre solo prendendo le sembianze di un toro.
Sua moglie Pasifae era figlia di Helios, il dio del sole, e sorella del sovrano della Colchide (nonché zia della terribile Medea di cui abbiamo fatto cenno poco fa).
Minosse era particolarmente devoto a Poseidone, il dio del mare, al quale aveva promesso di offrire in sacrificio il toro più bello di tutta l’isola; si narra, a questo punto, che lo stesso Poseidone facesse sorgere dai flutti marini un animale dalla bellezza incomparabile.
Il sovrano ne fu talmente ammirato che decise di sacrificare un altro toro in sua vece, destinando il dono di Poseidone ai suoi armenti privati; dimenticava, l’ignaro ed ingenuo Minosse, che gli dei raramente dimenticano o perdonano un torto subito.
La vendetta del dio del mare non si fece attendere: la bella Pasifae, infatti, venne posseduta da un immondo desiderio nei confronti del toro emerso dalle onde; per placare il suo ardore, la regina chiese all’artigiano più famoso dell’isola, l’abilissimo Dedalo, di costruirle una mucca di legno dove nascondersi; quello stratagemma consentì a Pasifae di ingannare il toro e di sedurlo.
Da quella folle ed insana passione amorosa nacque una creatura deforme ed atroce, cui venne dato il nome di Minotauro: il corpo gigantesco era quello di un uomo, la testa enorme era quella di un toro; si nutriva di carne umana ed emetteva terrificanti muggiti.
Il re Minosse, inorridito, ordinò a Dedalo di trovare il modo di nascondere quel terribile mostro dalla vista di tutti; e quell’abile artefice costruì attorno alle stanze presso cui dimorava il Minotauro un Labirinto, un bislacco edificio pieno di stanze, viuzze e cunicoli dalla pianta così complicata che era impossibile per chiunque entrare e ritrovare l’uscita prima di essere scoperto e divorato da quella terribile creatura affamata di carne umana;
ancora oggi, quando ci perdiamo, non facciamo alcuna fatica a dire che ci troviamo all’interno di un labirinto oppure (se siamo particolarmente raffinati) a parlare di un ‘dedalo’ di viuzze in riferimento alla pianta di un quartiere o di una cittadina particolarmente complessi.
Per evitare che svelasse il terribile segreto del Labirinto, Minosse aveva proibito al suo artefice di uscire da quell’edificio, cosicché Dedalo si trovava a vivere praticamente da prigioniero, assieme al figlio Icaro, nella costruzione che lui stesso aveva progettato.
L’abile artigiano non si diede per vinto e riuscì a costruire due immense paia di ali con le penne di volatili, assicurandole al proprio corpo e a quello del figlio con la cera.
Padre e figlio riuscirono a spiccare il volo e furono i primi ad accarezzare un sogno che ha sedotto l’umanità sino ai tempi più moderni: volare! Dedalo ed Icaro riuscirono così a fuggire dal Labirinto.
Nonostante le raccomandazioni del padre, il giovane Icaro fu talmente inebriato dall’esperienza del volo da dimenticare ogni prudenza; questi saliva sempre più su, sempre più su verso il sole, deciso a coglierne l’incomparabile bellezza come nessuno aveva potuto prima di lui.
Disgraziatamente per Icaro, il calore dei raggi del sole sciolse la cera che teneva le ali attaccate alle sue scapole; il giovane precipitò così in mare e trovò la morte. Dedalo, invece, aveva guadagnato la libertà raggiungendo le coste della Sicilia, ma l’aveva pagata comunque ad un prezzo altissimo: la perdita dell’unico figlio.
Ma è tempo di ritornare al protagonista di questa storia, vale a dire al giovane Teseo in procinto di salpare verso Creta assieme ai quattordici giovinetti destinati al sacrificio.
Il vecchio Egeo aveva chiesto al figlio di issare delle vele bianche al ritorno in patria, qualora fosse riuscito a sconfiggere il Minotauro; in caso contrario, le vele da issare sulla barca dovevano essere di color nero. Teseo salutò il padre con affetto e promise di ritornare vittorioso.
I poeti raccontano che, quando la nave proveniente da Atene approdò nel porto di Cnosso, tutti notarono la fierezza e la nobiltà del giovane figlio del re Egeo, che si presentò davanti a Minosse con la dignità che si addice agli uomini impavidi, coraggiosi e dall’animo nobile.
Il destino, che spesso aiuta i giovani e gli audaci, venne in soccorso di Teseo nelle sembianze del dio Eros, un fanciullo alato che si diverte a sconvolgere la vita delle persone istillando in loro il germe di un sentimento travolgente: l’amore.
Arianna, la giovane e bella figlia di Minosse, si invaghì del principe ateniese e cercò in tutti i modi di trovare il modo di salvarlo da un triste destino che appariva a tutti inevitabile: la morte per mano del terribile Minotauro.
In realtà, il vero nemico di Teseo era l’inestricabile Labirinto, da cui mai l’eroe sarebbe riuscito ad uscire anche una volta ucciso il mostro dalla testa di toro. Lo stratagemma utilizzato da Arianna per salvare il suo amato è talmente famoso e noto da essere divenuto proverbiale, anche a distanza di tanti secoli.
Teseo ebbe in dono dalla principessa cretese un gomitolo di filo rosso (il “filo di Arianna”, appunto); mentre il figlio del re di Atene si inoltrava nel Labirinto, questi svolgeva il gomitolo, sicuro di ritrovare la via del ritorno perché Arianna reggeva l’altro capo del filo.
Alla fine, quel gigantesco e immondo essere dalla testa taurina si parò di fronte al giovane eroe e i due ingaggiarono una terribile lotta al termine della quale solo uno dei contendenti sarebbe sopravvissuto. Dopo un combattimento fiero e al limite della resistenza, fu Teseo a sferrare il colpo fatale e a lasciare il Minotauro a terra, privo di vita.
Dopo la morte del mostro, Teseo fuggì a bordo della sua nave assieme ai quattordici giovinetti destinati al sacrificio e portando con sé la bella Arianna.
Le leggende che ci vengono tramandate dai poeti, a questo punto, sono in imbarazzo nel riferirci quanto accadde durante il viaggio di ritorno. Teseo, infatti, sbarcò per una notte nell’isola di Nasso e il mattino dopo riprese il viaggio abbandonando la giovane Arianna.
Nessuno ha mai compreso il significato di un gesto così sconsiderato, che getta sicuramente un’ombra sulla reputazione di un eroe tanto amato.
Fatto sta che Arianna rimase sola nell’isola di Nasso e stava per cadere preda della disperazione quando venne notata dal giovane e allegro Dioniso (Bacco), dio del vino e dei piaceri sfrenati, che ne fece la sua sposa e celebrò ben presto con lei una festa nuziale che i poeti ricordarono anche dopo secoli e secoli;
ci piace credere che Dioniso si fosse innamorato della bella principessa sin da subito e che lui stesso avesse ordinato a Teseo di abbandonare Arianna sull’isola; solo in questo modo (con l’obbedienza dovuta sempre e comunque alla divinità) riusciremmo a giustificare l’azione insensata del figlio di Egeo.
Giunto in prossimità della madrepatria, Teseo spiegò le vele ma sciaguratamente si scordò della promessa fatta al padre e utilizzò le vele nere.
Quando Egeo, che ogni giorno fissava il mare nell’attesa di suo figlio, vide il colore nero all’orizzonte, preso dalla disperazione si gettò in mare nell’errata convinzione che suo figlio fosse stato ucciso, compiendo così la profezia. Il mare in cui si gettò divenne in seguito noto come Mare Egeo.
La vita e le imprese di Teseo non si esauriscono certo con la lotta contro il Minotauro; asceso al trono di Atene al posto del defunto padre, egli consolidò il potere in tutta la regione dell’Attica e governò saggiamente, grazie anche ai consigli dell’eroe Edipo, che era stato una volta re di Tebe (prima di essere scacciato dalla popolazione e abbandonato dai suoi figli maschi), il quale riparò a Colono, nei pressi di Atene e dispensò al suo protettore parole di eterna saggezza.
Altre avventure lo attendevano: insieme all’inseparabile amico Piritoo, Teseo affrontò e sconfisse i Centauri, esseri metà uomo e metà cavallo; partecipò alla caccia del cinghiale di Calidone, una terribile fiera che imperversava in Grecia;
tentò di rapire Elena, principessa di Sparta, che i poeti già cantavano come la donna più bella del mondo; scese negli Inferi per cercare di sottrarre al signore dell’oltretomba, il dio Ades (Plutone), la sua legittima sposa.
Il dio dei morti si vendicò terribilmente e solo l’intervento di un altro eroe dei miti greci, Eracle (Ercole), consentì a Teseo di rivedere la luce del sole; non fu altrettanto fortunato l’amico Piritoo, che giace ancora oggi seduto sul trono dell’oblio a scontare la sua superbia.
La vita di Teseo fu anche funestata da terribili lutti: tra tutti, la perdita del figlio Ippolito (generato da un amore tra il re di Atene e Ippolita, regina della Amazzoni), calunniato dalla matrigna Fedra e poi ucciso da un mostro marino creato dal dio Poseidone.
Si narra, infatti, che Fedra, moglie di Teseo, si fosse invaghita del figliastro ma, essendone stato respinto, aveva riferito al marito di essere stata vittima di violenza da parte di Ippolito; avendo prestato fede alle menzogne di Fedra, l’ignaro figlio di Egeo aveva chiesto vendetta ai numi e invocato il suo padre putativo Poseidone, che lo aveva subito accontentato;
troppo tardi Teseo apprese la verità ascoltando la confessione di Fedra, che per la vergogna si impiccò.
Le sventure non erano finite per l’eroe ateniese, che venne spodestato dal trono in vecchiaia e venne ucciso a tradimento da un suo antico alleato mentre cercava di reclutare un esercito che gli consentisse di combattere l’usurpatore.
La triste e malinconica fine di Teseo ricorda quella di molte altre figure mitologiche, cui il Fato (cioè il destino, potere arcano cui neppure gli dei possono sottrarsi) assegnò di compiere imprese gloriose ma anche di affrontare dolori e avversità.
Noi non siamo certo in grado di spiegare perché i nostri progenitori avessero questa concezione della vita; a noi basti sapere che, grazie alla memoria e alla fantasia degli antichi Greci, i poeti del passato ci hanno tramandato una favola che non perde di fascino da oltre tremila anni.
E questo ci spinga a raccontarla una volta ancora ai nostri figli.
di Daniele Bello
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