JULIA G.
JULIA G.
Il giorno era freddo ma pieno di sole.
I raggi s’infrangevano in mille riflessi fra le foglie argentate d’alberi dritti e snelli in un bosco, appena fuori da Peredelkino: un complesso di dacie che ospitava le migliori menti di Russia.
Arrivava un’aria dai monti che s’intravedono all’orizzonte, fresca e frizzante; procurava brividi all’anziana donna solitaria che passeggiava silenziosa con lenti passi.
Indossava una veste grigia, una tunica uguale a tante altre donne che giravano per le stanze del grande edificio che si stagliava alle sue spalle.
Tutte le sue finestre erano dotate di grosse inferriate. I vetri erano resi opachi dalla grande quantità di sporco accumulato dall’incuria.
I passi erano trascinati, dolorosi.
Il tempo era trascorso, ma nella mente della donna, nascosto in qualche nicchia dimenticata, doveva essere ancora presente il profumo del mare, il ricordo del vento fra i capelli, quando lei scivolava sulle acqua turbolente a bordo della sua barca. Era lei che governava la vela.
Era giovane, forte, sicura, felice insieme al suo sgraziato e illustre uomo dai piccoli occhiali rotondi e i capelli arruffati. Il vento che adesso le accarezzava la faccia non era lo stesso di allora.
Adesso era solo un’aria gelida che le procurava fitte dolorose e tormenti: raccontava di neve, di solitudine, di esilio, e passava fra le betulle sibilando.
Gli alberi sembravano piegarsi al volere del vento, ma resistevano, e avrebbero resistito, anche dopo la fine dei lenti passi di quella donna curva sotto il peso degli anni e della sofferenza.
Camminava Julia nello stormire delle foglie d’argento.
Soffice l’erba sotto i suoi piedi accoglieva anche le sue lacrime, calde e amare; piccole perle che andavano a morire fra l’erba.
Lei conosceva quegli alberi uno ad uno, li aveva visti tutti i giorni e gli anni, da quando era stata allontanata dalla sua vita e mandata in quel centro.
La volevano tenere lontano, farle dimenticare, insieme al suo passato, anche l’amore profondo che aveva provato verso quel piccolo uomo che era il padre dei suoi figli, ma lei non poteva dimenticare il suo tempo felice; non si possono imprigionare i ricordi.
Nel suo lento muoversi in mezzo agli alberi riviveva i momenti più belli del suo non lontano passato. Lo schioccare della vela, quando veniva catturata dal dolce vento del mediterraneo.
Il sole era caldo sul viso, sulle mani abituate a trarre dolci note dal suo violino e che, invece, ora tremavano, solitarie e prive di forza; prosciugate dalla mancanza di amore.
Tutto in lei era stato privato della linfa vitale. Come una foglia ormai morta anche lei voleva lasciarsi portare dal vento, verso un cielo che la osservava dall’alto della sua eternità.
Il bosco di betulle, si stringeva intorno alla sua esile figura, sembrava volerla proteggere e accogliere fra le sue braccia, tenerla lontana dalla casa dalle finestre di ferro.
Julia Gramsci era arrivata alla fine del suo viaggio terreno, voleva guardare ancora una volta quel cielo che tante volte era stato plumbeo, grigio, pesante da sopportare, come le ingiustizie subite, la lontananza dei suoi figli e il lungo periodo d’abbandono del suo amato marito, andato via molti anni prima.
Un esilio, il suo, che aveva minato per sempre la sua mente.
Di quella donna affascinante, altera e spregiudicata cosa era rimasto adesso?
Solo una figura avvolta in una tunica anonima e incolore, un uccellino sperduto in un bosco di betulle argentate, poco distante dalla grande città.
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