Prometeo

Questa leggenda, tramandataci dai Greci e menzionata già nella ‘Teogonia’ di Esiodo, fu il primo racconto di mitologia che riuscii a leggere per intero da solo (complice la partenza di mio padre per un viaggio di lavoro e la mia irresistibile curiosità di sapere… come sarebbe andata a finire). Sono pertanto particolarmente affezionato a questo mito e per questo intendo iniziare questo piccolo viaggio nei racconti del passato con la storia del Titano indomabile.

Prometeo

Nei tempi in cui gli dei camminavano ancora tra i mortali e bussavano di casa in casa chiedendo ospitalità per la notte, i nostri avi ci hanno tramandato la storia dell’indomabile Prometeo.

Narrano le leggende che all’alba dei tempi i Titani, primi tra gli dei, dominassero il mondo; creature immortali, giganti dalla voce possente e dalla colossale statura, essi erano stati tuttavia maledetti dal padre Urano perché con la loro tracotanza lo avevano spodestato dal dominio dell’universo.

Ci fu, in quei tempi, una guerra terribile tra gli dei che oppose tra di loro i due pretendenti al trono celeste. Da una parte, Crono (Saturno) e i suoi seguaci che si erano stanziati sul Monte Otri; dall’altra, suo figlio Zeus (Giove) con i suoi alleati, dal Monte Olimpo; la maggior parte dei Titani prese le parti del dio Crono.

Uno solo fra di essi, tuttavia, parteggiò per Zeus; non per amore per il nuovo dio, ma perché si racconta che egli conoscesse gli eventi futuri e fosse in grado di discernere da subito il corso del Fato (il nome del destino secondo gli antichi): questi era Prometeo, il cui nome pare significhi appunto “Il Preveggente”.

Come egli aveva previsto, infatti, la vittoria arrise a Zeus, che si vendicò dei Titani che non l’avevano sostenuto precipitandoli nelle più profonde cavità degli abissi.

Uno di essi, il mostruoso Tifeo, era stato abbattuto da un fulmine e seppellito sotto un vulcano, che sussulta e provoca terribili terremoti ed eruzioni di fuoco e lava ogni volta che il mostro si agita e tenta di liberarsi; il fortissimo Atlante, invece, era stato condannato a reggere sulle sue spalle la volta del cielo; analoghi supplizi sarebbero toccati agli altri seguaci del dio Crono.

Il giorno della sua vittoria, Zeus organizzò un grande banchetto a Mekone, cui fu invitato anche Prometeo; al Titano venne richiesto di fare le parti di un grosso bue e, dopo averlo diviso, per irridere il nuovo padrone dell’universo pose da una parte carni e interiora nascondendole nel ventre dell’animale e dall’altra ossa bianche avvolte nel grasso. Zeus beffardo scelse con ambedue le mani la porzione che credeva più grossa e prese così il mucchio delle ossa e del grasso; adirato per l’inganno, Zeus meditò a lungo la sua vendetta nei confronti del Titano, che aveva osato tentare di metterlo in ridicolo davanti a tutti gli immortali.

Prometeo, intanto, era disceso sulla terra per recare conforto agli uomini mortali, che allora vivevano ancora allo stato ferino e insegnò loro come costruire una casa e gli arnesi per sopravvivere, l’arte dell’agricoltura, l’importanza della famiglia e della solidarietà.

Zeus aveva però negato loro il privilegio del fuoco e ordito un ulteriore inganno nei confronti del genere umano:

formò con la terra un’immagine di vergine vereconda,
per il volere del figlio di Crono,
l’ornò di cintura e la vestì di candida veste;
dall’alto del capo un velo dai mille ricami
di sua mano la fece cadere, meraviglia a vedersi [1].

Pandora fu il nome che venne dato alla creatura che Zeus aveva plasmato e da lei sembra che discenda la razza di tutte le donne; ella venne tra gli uomini reggendo sul capo una grande anfora d’oro, dicendo che il padre di tutti gli dei l’aveva inviata sulla terra per diffondere gioia e serenità.

Il Fato volle che fu Epimeteo, l’ingenuo fratello di Prometeo, a tentare di aprire con forza l’anfora di Pandora, convinto che in essa vi fosse il nettare che gli dei bevono alla loro mensa; ma quando l’anfora si aprì da essa fuoriuscirono, come fantasmi, tutti i mali che affliggono oggi il mondo: la vecchiaia, le malattie, gli affanni, l’odio e la violenza.

In fondo al vaso, tuttavia, gli dei vollero che albergasse comunque un sollievo per tutte le sofferenze dell’umanità, nonostante i mali che l’avrebbero afflitta.

Quando Prometeo venne a trovare l’ingenuo fratello, l’anfora giaceva ancora a terra, e attorno ad essa aleggiavano sinistre forme dall’aspetto minaccioso; ma quando il Titano tentò di richiuderla di nuovo, una dolcissima voce femminile richiamò la sua attenzione.

Fu così che Prometeo poté vedere, in fondo all’anfora, lo sguardo della più giovane delle dee; il nome della piccola creatura era Elpis, che nel linguaggio antico significa la Speranza; ella uscì dal vaso da cui erano usciti tutti i mali, perché da allora è scritto che in fondo ad ogni sventura c’è sempre la speranza a darci conforto.

Il Titano venne colpito da enorme sdegno per tutte le sciagure che Zeus aveva afflitto agli uomini e, pur consapevole di quanto fosse grave sfidare apertamente il nuovo tiranno del cielo, Prometeo giurò a se stesso che Zeus avrebbe dovuto pagare per il grave torto commesso nei confronti dei mortali.

Il Titano organizzò uno stratagemma per carpire agli dei il segreto del fuoco: egli si recò infatti con rapidi balzi alle pendici dell’Olimpo, la dimora di tutti gli dei, portando con sé un’anfora di vino rosso.

Una volta giunto, notò che tutti dormivano tranne il fabbro degli dei, Efesto (Vulcano), il quale vegliava affinché il fuoco che ardeva sul Monte Olimpo non si spegnesse mai.

Prometeo parlò con cordialità ad Efesto e gli offrì il vino della sua anfora, cui era stato tuttavia mischiato del succo di papavero; Efesto ne bevve e venne colto improvvisamente dal sonno.

Il Titano ne approfittò per ghermire dall’Olimpo le faville del fuoco e per portarlo tra gli uomini; da allora e solo da allora i nostri antenati riuscirono a carpire il segreto della fiamma e a cessare di tremare per il freddo e per la paura di notte, poiché Prometeo sfidò la inevitabile vendetta degli dei per rischiarare le tenebre dell’umanità.

Così non si può di Zeus ingannare il volere
né ad esso sottrarsi:
né infatti il figlio di Giapeto, Prometeo benefico,
sfuggì l’ira profonda di lui [2].

Come egli aveva comunque previsto, infatti, la vendetta di Zeus non tardò ad abbattersi su Prometeo. Fu Efesto con i suoi Ciclopi, esseri giganteschi con un occhio solo sulla fronte, a trascinare il Titano sui Monti della Scizia e ad incatenarlo ad una parete di roccia.

A nulla valsero i lamenti dell’Oceano e delle ninfe del mare; la vendetta del signore di tutti gli dei era implacabile e non conosceva la misericordia.

Prometeo, tuttavia, non si abbassò mai a chiedere pietà al suo carnefice; egli, invece, gridò al cielo che un giorno anche Zeus sarebbe stato spodestato dal suo trono qualora si fosse unito in nozze fatali con una dea che avrebbe generato un figlio più forte di lui; il Preveggente conosceva il nome della donna che avrebbe potuto partorire una creatura così potente, ma mai ne avrebbe rivelato il nome se prima Zeus non si fosse deciso a liberarlo.

Zeus minacciò rabbiosamente Prometeo di terribili vendette e di supplizi inenarrabili, qualora il Titano non avesse rivelato subito il nome fatale, ma questi non cedette; il signore dell’Olimpo, allora

legò Prometeo dai vari pensieri
con inestricabili lacci,
con legami dolorosi,
che a mezzo d’una colonna poi avvolse,
e sopra gli avventò un’aquila,
ampia d’ali, che il fegato
gli mangiasse immortale,
che ricresceva altrettanto
la notte quanto nel giorno
gli aveva mangiato l’uccello dalle ampie ali [3].

Le rocce cui era stato incatenato il coraggioso Titano vennero tormentate da terribili scosse di terremoto, che squarciarono le rocce e fecero tremare tutte le creature viventi, ma mai il cuore di Prometeo tremò, né il suo fermo intento vacillò sia pure per un istante.

Alla fine, non i supplizi di Zeus, non i lamenti delle ninfe, non le preghiere degli uomini riuscirono a vincere la caparbietà del Titano, ma l’intervento della stessa Madre Terra, che si offrì ad agire da paciere tra i due immortali affinché l’armonia tornasse a regnare nel cosmo.

Prometeo ubbidì alla madre di tutti gli esseri immortali e rivelò al messaggero di Zeus che la donna che avrebbe potuto generare un figlio destinato ad essere il nuovo padrone del cielo era Tetide, una dea del mare.

Zeus procurò che Tetide fosse promessa in sposa ad un uomo mortale, affinché mai potesse generare prole divina, e mantenne la sua promessa fatta alla dea Terra: l’aquila che tormentava ogni giorno il fegato di Prometeo venne uccisa dal più forte di tutti i figli di Zeus, il giovane Eracle che i popoli dell’Occidente conobbero anche con il nome di Ercole.

Eracle spezzò le catene che tenevano ancora prigioniero il Titano e a quel punto si compì un prodigio: il corpo di Prometeo divenne roccia e si fuse completamente con la montagna cui era stato incatenato così a lungo; la sua anima, invece, che mai era stata schiava o prigioniera di alcuno, spiccò il volo verso il Sole.

Le leggende dei nostri avi raccontano che Prometeo sopravvisse al cosmo di Zeus e a quello degli dei che si sono via via succeduti a lui nel cuore degli uomini; egli vive ancora: è sempre accanto a noi tutte le volte in cui qualcuno si adopera per il bene degli altri, compie una grande impresa o quando viene fatta una scoperta in grado di aiutare l’umanità.

Egli ci assiste e ci consola nei momenti di difficoltà e ci sopporta pazientemente quando dimentichiamo i suoi insegnamenti.

Gli antichi Elleni (oggi meglio noti con il nome di Greci) tramandano da secoli la storia del Titano Prometeo e credono che finché al mondo vi sarà qualcuno degno di commemorarne la memoria e di tentarne l’emulazione, le faville del fuoco che vennero portate dall’Olimpo per riscaldare l’anima dei mortali continueranno ad ardere.

[1]     ESIODO, Teogonia, Milano, Rizzoli, 1984, v. 571-575.
[2]     ESIODO, Teogonia, Milano, Rizzoli, 1984, v. 613-615.
[3]     ESIODO, Teogonia, Milano, Rizzoli, 1984, v. 521-523.

di Daniele Bello

Dicembre 30, 2016

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