Inferno – canto XXXII
INFERNO
Canto XXXII
TestoS’io avessi le rime aspre e chiocce, io premerei di mio concetto il suco ché non è impresa da pigliare a gabbo Ma quelle donne aiutino il mio verso Oh sovra tutte mal creata plebe Come noi fummo giù nel pozzo scuro dicere udi’mi: «Guarda come passi: Per ch’io mi volsi, e vidimi davante Non fece al corso suo sì grosso velo com’era quivi; che se Tambernicchi E come a gracidar si sta la rana livide, insin là dove appar vergogna Ognuna in giù tenea volta la faccia; Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, «Ditemi, voi che sì strignete i petti», li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, Con legno legno spranga mai non cinse E un ch’avea perduti ambo li orecchi Se vuoi saper chi son cotesti due, D’un corpo usciro; e tutta la Caina non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più, E perché non mi metti in più sermoni, Poscia vid’io mille visi cagnazzi E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo se voler fu o destino o fortuna, Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta, Lo duca stette, e io dissi a colui «Or tu chi se’ che vai per l’Antenora, «Vivo son io, e caro esser ti puote», Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Allor lo presi per la cuticagna, Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi, Io avea già i capelli in mano avvolti, quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? «Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle, «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; El piange qui l’argento de’ Franceschi: Se fossi domandato “Altri chi v’era?”, Gianni de’ Soldanier credo che sia Noi eravam partiti già da ello, e come ’l pan per fame si manduca, non altrimenti Tideo si rose «O tu che mostri per sì bestial segno che se tu a ragion di lui ti piangi, se quella con ch’io parlo non si secca». 139 | ParafrasiSe io avessi uno stile poetico aspro e duro, quale sarebbe adatto a descrivere il centro della Terra sul quale pesano tutte le rocce, io esprimerei il contenuto dei miei versi in modo più appropriato; ma poiché non ne dispongo, mi appresto a scrivere con un certo timore; infatti descrivere il fondo dell’intero universo non è impresa da prendere alla leggera, né propria di una lingua infantile. Ma mi aiutino quelle dee (le Muse) che aiutarono il poeta Anfione a cingere di mura Tebe, così che le mie parole non siano dissimili dalla realtà. O peccatori più di tutti gli altri creati per il male, che state nel luogo (Cocito) di cui è arduo parlare, sarebbe stato meglio se in vita foste stati pecore o capre! Non appena noi fummo giù nel pozzo oscuro, molto più bassi dei piedi del gigante Anteo, e mentre io ancora osservavo l’alta parete rocciosa, sentii qualcuno che mi diceva: «Sta’ attento dove cammini: cerca di non calpestare le teste di coloro che in vita furono tuoi fratelli». Allora mi voltai e mi vidi davanti e sotto i piedi un lago ghiacciato, che sembrava fatto di vetro e non d’acqua. Il Danubio in Austria non si ghiacciò mai così d’inverno, formando una crosta tanto spessa, e neppure il Don sotto il cielo freddo (di Russia), come quel lago d’Inferno; e se anche vi fossero caduti sopra il monte Tambura (?) o il Pania, non ne avrebbero fatto neppure scricchiolare la superficie. E come la rana gracida col muso a pelo d’acqua d’estate, quando la contadina sogna spesso di spigolare; così le anime dolenti e livide erano immerse nel ghiaccio fino a dove appare il rossore (al viso), battendo i denti come fanno le cicogne. Ognuna teneva il viso rivolto in basso; fra di loro la bocca è testimonianza del freddo (per il battere dei denti) e gli occhi del cuore angosciato (per le lacrime). Dopo che io ebbi guardato per un po’ intorno, guardai ai miei piedi e vidi due dannati così vicini che avevano i capelli mischiati fra loro (i conti di Mangona). Io dissi: «Ditemi, chi siete voi che stringete tanto i petti?» E quelli piegarono il collo; e dopo aver drizzato il viso verso di me, i loro occhi, che prima erano molli di pianto all’interno, gocciolarono le lacrime sulle labbra e il gelo le strinse serrando loro gli occhi. Mai una spranga di ferro strinse così duramente due legni; e allora quei due cozzarono le teste come montoni, tanta fu l’ira che li sopraffece. E un altro dannato, che per il freddo aveva perso entrambe le orecchie, tenendo il viso basso mi disse: «Perché ci guardi con tanta insistenza? Se vuoi sapere chi siano questi due, sappi che vengono dalla valle da cui scende il fiume Bisenzio, come il padre loro Alberto. Nacquero dalla stessa madre; e potrai cercare in tutta la Caina, senza trovare un’anima più degna di loro di essere confitta in questa gelatina (nel ghiaccio); non colui (Mordrec) a cui il re Artù ruppe il petto e l’ombra con un colpo di lancia; non Focaccia; non questi che mi fa ombra col capo, al punto che non vedo oltre e che fu chiamato Sassolo Mascheroni; se sei toscano, sai bene di chi si tratta. E perché tu non mi parli ancora, sappi che io fui Camicione de’ Pazzi; e attendo qui Carlino che faccia apparire meno grave la mia colpa». Poi io vidi mille visi paonazzi per il freddo, cosa per cui provo ancora ribrezzo, e me ne verrà sempre, vedendo acque gelate. E mentre procedevamo verso il centro (di Cocito) a cui tendono tutti pesi della Terra, e io tremavo in quel freddo eterno; non so se fu per mio volere, o per destino o fortuna, ma mentre camminavo tra le teste colpii forte nel viso un dannato. Questi piangendo mi gridò: «Perché mi calpesti? se tu non vieni ad accrescere la punizione per (il tradimento di) Montaperti, perché sei qui a tormentarmi?» E io: «Maestro, ora aspettami qui in modo che io risolva un mio dubbio su costui; dopo mi farai fretta quanto e come vorrai». La mia guida si fermò e io dissi a quel dannato che ancora bestemmiava duramente: «Chi sei tu, che rimproveri così gli altri?» Lui rispose: «Chi sei tu, piuttosto, che cammini per l’Antenòra colpendo le teste degli altri, così che, se io fossi vivo, sarebbe un oltraggio troppo grave?» La mia risposta fu: «Io sono vivo, e ti può tornare utile, se cerchi la fama, il fatto che io includa il tuo nome nei miei versi». E quello a me: «Ho desiderio del contrario. Lèvati da qui e non seccarmi oltre, dal momento che le tue lusinghe non valgono nulla in questo basso Inferno!» Allora lo afferrai per la collottola e dissi: «Farai bene a dirmi il tuo nome, o non ti rimarrà neanche un capello». E lui a me: «Anche se mi strapperai tutti i capelli, non ti dirò chi sono e non mi mostrerò nemmeno se mi colpirai sul capo mille volte». Io avevo già i suoi capelli attorcigliati nella mia mano e ne avevo strappate diverse ciocche, mentre lui latrava con gli occhi rivolti verso il basso, quando un altro gridò: «Che cos’hai, Bocca (degli Abati)? non ti basta far rumore con le mascelle, senza latrare? che diavolo ti succede?» Io dissi: «Ormai non voglio più che tu parli, malvagio traditore; infatti io porterò sulla Terra notizie veritiere di te, che ti infameranno». Rispose: «Va’ via e racconta quello che vuoi; ma non tacere, se mai uscirai di qui, il nome di colui che ha avuto la lingua così sciolta. Egli rimpiange qui l’argento dei Francesi: potrai dire “Io vidi Buoso da Duera, là dove i peccatori stanno freschi”. E se ti chiederanno: “Chi altri c’era?”, sappi che qui accanto c’è Tesauro dei Beccheria, a cui i fiorentini tagliarono la testa. Credo che più in là ci sia Gianni dei Soldanieri, che aprì le porte di Faenza durante la notte, insieme a Gano di Maganza e a Tebaldello de’ Zambrasi». Noi ci eravamo già allontanati da quel dannato, quando io ne vidi altri due ghiacciati entro una buca, messi in modo tale che la testa di uno faceva da cappello all’altro; e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra addentò l’altro dove il cervello si congiunge col midollo spinale: Tideo non morse in modo diverso le tempie a Menalippo per odio, rispetto a quanto faceva quel dannato col teschio e le altre parti. Io dissi:«O tu che mostri in modo così bestiale odio verso colui che stai divorando, dimmi la ragione a questo patto: se tu hai ragione a lagnarti di lui, sapendo chi siete e il suo peccato, io ti ricambierò una volta tornato sulla Terra, purché la lingua con cui parlo non mi caschi». |
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