Inferno – canto I
INFERNO
Canto I
Testo Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. 3 Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! 6 Tant’è amara che poco è più morte; Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, guardai in alto e vidi le sue spalle Allor fu la paura un poco queta, E come quei che con lena affannata, così l’animo mio ch’ancor fuggiva, Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, e non mi si partia dinanzi al volto, Temp’era dal principio del mattino, mosse di prima quelle cose belle; l’ora del tempo e la dolce stagione; Questi parea che contra me venisse Ed una lupa, che di tutte brame questa mi porse tanto di gravezza E qual è quei che volentieri acquista, tal mi fece la bestia sanza pace, Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, Quando vidi costui nel gran diserto, Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, Poeta fui, e cantai di quel giusto Ma tu perché ritorni a tanta noia? «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte «O de li altri poeti onore e lume, Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; «A te convien tenere altro viaggio,» ché questa bestia, per la qual tu gride, e ha natura sì malvagia e ria, Molti son li animali a cui s’ammoglia, Questi non ciberà terra né peltro, Di quella umile Italia fia salute Questi la caccerà per ogne villa, Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno ove udirai le disperate strida, e vederai color che son contenti A le quai poi se tu vorrai salire, ché quello imperador che lassù regna, In tutte parti impera e quivi regge; E io a lui: «Poeta, io ti richeggio che tu mi meni là dov’or dicesti, Allor si mosse, e io li tenni dietro. 136 | Parafrasi
A metà del percorso della vita umana (all’età di 35 anni), mi ritrovai per una oscura foresta, poiché avevo smarrito la giusta strada. Ahimè, è difficile descrivere com’era quella foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo pensiero fa tornare la paura. È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per descrivere il bene che vi trovai dentro, dirò quali altre cose ho visto in essa. Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta strada. Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva rattristato il cuore di paura, alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta strada. Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta angoscia. E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da cui è scampato, così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò mai passar vivo nessun uomo. Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale che il piede più saldo era sempre quello più basso. Ed ecco che apparve, quasi all’inizio della salita, una lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato; e non si allontanava di fronte a me, anzi, impediva a tal punto il mio cammino che io pensai più volte di tornare indietro. Erano le prime ore del mattino, e il sole stava sorgendo insieme a quella costellazione (l’Ariete) che era con lui il giorno della Creazione, quando l’amore divino mosse per la prima volta quelle belle cose; così l’ora del giorno e la stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata; ma non al punto che non mi desse paura la vista, che mi apparve subito dopo, di un leone. Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, al punto che persino l’aria sembrava tremare. Ed ecco apparire una lupa, che nella sua magrezza sembra piena di tutti i desideri e spinse molte persone a vivere miseramente; questa mi procurò una tale angoscia, col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi la speranza di raggiungere la sommità del colle. E come colui che acquista volentieri, e poi arriva il tempo in cui perde ogni cosa, per cui piange e si rattrista in ogni pensiero, così mi rese la belva senza pace, che venendo contro di me mi sospingeva poco a poco verso il basso, dove non c’era il sole. Mentre io scivolavo a valle, verso la foresta, apparve davanti ai miei occhi qualcuno che non riuscivo a vedere bene per la penombra. Quando vidi costui nel luogo deserto, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, un’anima o un uomo in carne e ossa!» Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di Mantova. Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani. Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea) che fuggì da Troia dopo che il superbo Ilio (Troia) fu bruciato. Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni felicità?» «Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi. «O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno spinto a leggere la tua opera! Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui io trassi il bello stile che mi ha reso celebre. Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei, famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue». «Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo selvaggio. Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo. E ha un’indole così malvagia e malefica che non può mai soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame di prima. Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la farà morire con dolore. Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro. Sarà la salvezza di quell’umile Italia, per cui morirono in battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla. Costui le darà la caccia per ogni città, finché l’avrà rimessa nell’Inferno da dove l’invidia (del demonio) la fece uscire per la prima volta. Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per guidarti in un luogo dell’Oltretomba, dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali invoca la morte definitiva. E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i penitenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di raggiungere i beati del Paradiso. E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci sarà un’anima più degna di me per farti da guida: quando me ne andrò, ti lascerò con lei. Infatti, quell’imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua legge (fui pagano). Dio ha autorità in tutto l’Universo e in Paradiso governa; qui c’è la sua città e il suo altro trono; oh, felice colui che sceglie per risiedere in quel luogo!» E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai conosciuto e affinché io fugga questo male e altri peggiori, ti chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto miseri».
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