IL FIUME E IL DESERTO – Parte trentacinquesima: Mondi paralleli
Luglio. Anno del Signore 1530
Ahmed si sentiva considerato allo stesso livello di un animale domestico, o peggio, una suppellettile, un mobile. Erano in viaggio da tre giorni ed entro due sarebbero arrivati in Giapangu, ma fino ad allora non era stato un volo noioso, tutt’altro. Lucrezia Borgia e Salai litigavano ogni giorno, e davanti a lui, come se gli guardassero attraverso.
Un schiaffo per la dignità di una persona normale, ma un gran vantaggio per una spia. Le sfuriate di Caprotti nei riguardi della Borgia e gli argomenti di difesa di quest’ultima svelavano le perversa personalità dei due, oltre alla mentalità dell’ammiraglio che rispecchiava la religione di quel paese lontano e alieno.
Caprotti sembrava quasi piangere il sacrificio di una ventina di ornitotteri, neanche quelli fossero stati esseri viventi. Non una, una parola di rimpianto per i piloti morti. Né da lui, né da lei. Da ogni parola, urlata trapelava l’idea che i piloti erano morti con onore da martiri e che si sarebbero reincarnati in altri esseri, umani o meno. Su questo non vedeva molta differenza tra il fanatismo di certe frange dell’Islam. Ma per i giapanghesi non c’erano settantadue vergini a premiare il sacrificio della propria vita.
Oltre a sorbirsi Giacomo rinfacciare Lucrezia che la causa delle perdite fosse dovuta alla sua sete di vendetta contro l’Italia e gli argomenti difensivi di lei, Ahmed riusciva a interpretare, capire e memorizzare importanti informazioni.
E quando finalmente la conica massa del vulcano che loro chiamavano Fusci Iama o qualcosa del genere si stagliò all’orizzonte, Ahmed aveva ormai un’idea abbastanza chiara sia dell’entità delle forze nemiche, che delle tattiche e strategie che avrebbero usato.
Se soltanto avesse potuto avvisare il Doge di quanto deboli fossero al momento le forze di Shimada, menomate dell’aviazione e senza più antimissili, un’attacco di Doria avrebbe cancellato le forze aeree giapanghesi dai cieli del mondo.
Ma, purtroppo, ora, entro un paio di mesi, da quanto aveva capito dai battibecchi dei due, altre navi, ornitotteri e antimissili sarebbero stati ricostruiti e allora niente avrebbe potuto fermare quella follia.
***
Alle sessioni dei sensitivi partecipavano ora anche Basma e il Doge. Oltre ai cinque talismani e il Palladio, anche il Sole all’Orizzonte aiutava ad aprire gli occhi della mente. I destini futuri erano ora ben definiti. E, sempre, gli avvenimenti, grandi. Ma i piccoli dettagli erano sempre invisibili. I piccoli dettagli, gli imprevisti che nulla avevano a che vedere con le scelte umane, le vere pietre indicatrici su quale strada prendere. Imprevisti, piccoli contrattempi eppure capaci di cambiare il corso del destino.
La malattia di Alessandro il Grande non era dipesa dalle scelte di costui. Qualsiasi scelta avesse fatto, sarebbe morto in ogni caso. Lo stesso valeva per qualsiasi persona chiave con la potenzialità di creare grandi sconvolgimenti, ma che il morso di uno scorpione in un determinato momento avrebbe stroncato in ogni caso. A meno che qualche altro non avesse creato un altro destino e costui o costei non avesse incrociato la strada dello scorpione.
Ferruccio Alberti pensò subito a Lucrezia Borgia, che in differenti destini sarebbe morta dando alla luce l’ultima figlia di Alfonso D’Este, nel ’19. Ironia della sorte, lui, responsabile del nuovo destino e indirettamente della morte dello sposo di lei, le aveva salvata la vita. E ora la Borgia era la sua nemica più potente.
Indirettamente, lui aveva salvato anche la vita smodata di Caprotti. Se Lucrezia non l’avesse ingaggiato, l’infido Salai sarebbe morto ammazzato. Così aveva visto durante la sessione. L’equilibrio cosmico era fragile. E purtroppo nessun vaticinio svelava i segreti e le strategie del nemico.
Se solo avesse saputo il segreto degli antimissili che seguivano il bersaglio. Ma nessun Messaggero gliel’vrebbe rivelato. L’unica consolazione era una vaga visione di un futuro armonico, conseguente alla vittoria delle forze della Luce su quelle dell’Ombra.
Purtroppo, questa visione era ancora sfocata, segno che non era ancora stata definita e a causa di qualche imprevisto si sarebbe dissolta nel nulla, lasciando invece le orrende conseguenze della vittoria delle Tenebre che al momento, erano chiare e nitide, segno che nulla avrebbe potuto cambiarle.
Né la versione del trionfo delle macchine di Salai, né quella del dominio dell’ultima dei Borgia. Unica consolazione era che il terzo destino, quello con il trionfo di Fatima, anch’esso ormai delineato, era nitido, ma ormai lontano e in procinto di svanire nel marasma delle infinite probabilità.
La sessione terminò e il Doge ritornò coi piedi per terra. Se voleva vincere, doveva mobilitare messaggeri in carne e ossa. Spie, agenti. Ma al momento l’unica carta vincente era lontana. Sperò che Ahmed in qualche modo, dal Giapangu, potesse inviargli importanti informazioni. L’egiziano era l’ultima speranza per la Repubblica e la Luce.
***
Solimano valutò l’entità delle perdite subite. L’intera flotta dei corsari barbareschi e l’Egitto. Gli rimanevano soltanto un esercito formidabile e dei potenti alleati. Qualsiasi sovrano impulsivo avrebbe lanciato un’armata di giannizzeri e mamelucchi alla riconquista della provincia perduta. Ma lui era Il Magnifico e sapeva che talvolta la diplomazia era l’arma migliore per rifarsi dalle disfatte.
L’Impero aveva perduto una provincia in occidente. Orbene, avrebbe fatto di tutto per compensare la perdita in Africa con una nuova conquista in levante, in Asia. O magari soltanto un prottettorato sotto l’egemonia ottomana. L’Asia era enorme. C’era solo l’imbarazzo della scelta. L’occasione sarebbe arrivata dopo la fine della guerra. Al momento era importante vincerla. Con l’aiuto di Dio. Inshallah!
Avrebbe mandato un’ambasciata al Doge per un incontro al vertice con Francia, Grecia ed Egitto, che la Sublime Porta avrebbe riconosciuto come stato sovrano. Avrebbe proposto come luogo il nuovo palazzo reale, residenza dell regina. Fece chiamare il segretario e dopo un po’ dettò un’epistola.
***
La piccola aeronave atterrò a Stromboli. Il capitano Rametti scese alla testa di un drappello di dieci soldati. Sarebbero bastati per arrestare una suora anche se ex spia. La monaca maltese era relegata in prigionia da anni. Aveva servito la Spagna. Rametti aveva l’ordine del Doge di scortare questa Sorella Orsola fino a Venezia. Sua eccellenza voleva donarle la grazia in cambio del suo servizio, questa volta per la Repubblica, con la promessa del condono.
Nonostante spia, la donna era una fervida cristiana e la missione per portare la Buona Novella in Giapangu sarebbe stata un’offerta allettante. Oltre a parlare di Nostro Signore, la donna avrebbe ripreso la sua attività di spia, al di sopra di ogni sospetto. Rametti sperò che Orsola riuscisse a carpire determinati segreti su quegli antimissili che seguivano il bersaglio. Lo sperò veramente perché, ormai l’arma nemica era lo spauracchio di ogni aeronauta.
Guidò la scorta in direzione della caserma delle forze di stanza all’isola.
Davanti alla costruzione c’erano una ventina di croci. Capì quasi subito il destino di quei poveri soldati e si precipitò all’interno anche se non nutriva molte speranze.
Si affrettò a guidare i militi verso la capanna della suora, ordinando di stare attenti, perché, in qualche modo, anche se sembrava assurdo che una suora di mezza età riuscisse ad avere ragione di soldati giovani e provetti, Orsola poteva essere lei l’assassina.
Una porta spalancata confermò una fuga frettolosa. Ma come poteva Sua Eccellenza aver sperato in una redenzione da quella traditrice?
Lanciò i suoi soldati a rastrellare il terreno tutt’intorno, anche se non nutriva molta speranza di trovarla. Se era lei ad aver ucciso i soldati, probabilmante si era dileguata via mare. Qualcuno l’aveva aiutata a imbarcarsi.
Passarono ore mentre Rametti almanaccava ipotesi su ipotesi. Forse i giapanghesi erano stati sull’isola e l’avevano salvata. Allora quella spia si era messa al servizio di quei bastardi.
Il sole volgeva al tramonto quando un esploratore giunse al suo cospetto con in mano una freccia.
«Era piantata nel suolo, comandante. C’è un messaggio legato.»
Il soldato gliela consegnò e Rametti slegò il rotolo di cartapecora. Lesse.
Il testo era breve e conciso, ma nonostante alcuni termini che lui non comprese, Rametti capì che in esso era rinchiuso il segreto sugli antimissili.
Sua Eccellenza avrebbe esultato per le informazioni, anche se leggendo il termine ”magnetici” gli fece pensare a ”magnare”, ricordandogli che non aveva ancora desinato.
Ordinò di imbarcarsi all’istante. Al pilota disse di dirigersi verso Venezia. Al cuoco di bordo, di preparare la cena.
CONTINUA…
Torna alla trentaquattresima parte
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.