E Parthan ci lasciò vivere…
I latrati del cane erano alti e strazianti.
Echeggiavano tra le pareti nere della Torre e le impregnavano di disperazione. Il maestro aveva condotto i due allievi in una stanza nei sotterranei: pochi mobili scuri, nessuna finestra sul cielo senza tempo, vorticante di rossi e neri. Due gabbie di ferro erano poste a terra.
Nyumute, un bambino vugdiano magro come un chiodo, ridacchiava con la lingua fra i denti mentre la bestiola nella gabbia davanti a lui guaiva di dolore.
Il bambino recitava un incantesimo nella sua lingua incomprensibile e teneva gli occhi neri, dal taglio a mandorla, fissi sul suo cane. La bestia si era rannicchiata e scalciava violentemente come schiacciata da qualcosa. Lanciava dei latrati pietosi, sommessi e all’improvviso acuti, e dalle fauci usciva un’inesorabile rivolo di sangue.
Parthan, di fronte all’altra gabbia, fissava il suo cane. La bestiola era terrorizzata e cercava di mordere le sbarre della minuscola prigione. Si era occupato di quell’animale fin da cucciolo, per più di un anno. Gli aveva dato da mangiare, lo aveva spazzolato e ci aveva giocato.
“Che cosa stai aspettando?” Tuonò il maestro alle sue spalle. “Moccioso codardo che non sei altro!”
Il maestro era un uomo alto con il viso largo, vistosi basettoni castani e gli occhi nervosi. Indossava una giacca di velluto molto raffinata.
Parthan si voltò, continuava a non capire.
***
“Perché sei triste mamma?” Nora-fe alzò il naso dalla pista che stava seguendo; erano a caccia nella steppa chiazzata di neve e, da quando avevano lasciato la capanna comune, sua madre non aveva detto una sola parola. Il cielo nuvoloso andava schiarendo. La piccola Nora-fe soffiò via un ciuffo di muschio dal musetto color carbone e scrollò la testa.
“Non fare rumore adesso.” Le disse sua madre a bassa voce, portandosi una zampa sul muso. Eriendal era una chajrn piuttosto alta per essere una femmina, aveva il pelo biondo paglia e una bella coda sottile. Quel giorno, però, i suoi graziosi lineamenti felini erano oscurati da un pensiero e Nora-fe non voleva darsi per vinta. Arricciò il naso e mostrò le piccole zanne in segno di disappunto.
Continuò a parlare piano piano. “Ci vogliono cacciare dalla capanna comune perché non hai un compagno?”
Gli occhi gialli di Eriendal le rivolsero uno sguardo severo.“Chi ti ha detto una cosa simile?”
“Anun-gal” rispose Nora-fe abbassando la testa. “Dice che le femmine come te non dovrebbero stare nel villaggio.”
Eriendal si trattenne, ma strinse forte la lancia nella zampa e oscillò la coda. La primavera era appena iniziata e, alle falde del monte, l’aria ancora fredda ma molto profumata; lasciò che il vento calmasse la sua rabbia.
“Non ascoltare quelle lingue di serpente” rispose con fermezza. “Noi cacciamo e proteggiamo il villaggio come i maschi e quindi abbiamo il diritto di vivere nella capanna comune.”
“Sì ma…” continuò la piccola.
“Ma? Che altro ti ha detto Anun-gal?”
“Che io sono strana! E che porterò sciagura alla tribù!” Gli occhi grigio piombo di Nora-fe si colmarono di lacrime ma la piccola le represse velocemente, passandosi la zampa sul muso con un gesto distratto, così come aveva visto fare tante volte a sua madre.
Eriendal si accovacciò nella neve per guardare la figlia sul muso; strofinò il piccolo naso di lei con il suo socchiudendo gli occhi. “Non devi credere alle sciocchezze di quel cacciatore senza lancia! Tu fai parte della tribù come tutti gli altri! E sarai una grande cacciatrice! Però adesso dobbiamo seguire il moa o non porteremo niente al villaggio e sarebbe una pessima cosa!”
Nora-fe annuì poco convinta: intuiva ancora qualcosa di non detto nel sorriso tirato di sua madre. Alle volte la sentiva parlare nel sonno e pronunciare un nome con un misto di rabbia e malinconia. Nora-fe rimaneva a lungo a guardarla nella penombra della capanna comune.
Eriendal si concentrò nel seguire le tracce del moa, che puntavano verso un bosco molto fitto alle pendici della montagna. A qualche passo dai primi abeti di un intenso verde lucido, un masso appuntito di roccia nera spuntava dal terreno umido. Lo osservò intensamente e serrò la mascella per un istante di troppo perché Nora-fe non lo notasse: era molto sveglia per la sua età e, implacabile. La sua vocina la raggiunse alle spalle come una coltellata.
“Mamma?” Chiese la cucciola gravemente. “Chi è Parthan?”
La madre, rassegnata, rispose.
***
Spirava un vento sgradevole quel giorno, freddo e carico di nevischio, che veniva direttamente dalle vette del Velèriand e scompigliava la pelliccia di Eriendal quasi volesse strapparla. La neve era caduta copiosamente durante la notte e le tracce del moa sulla coltre bianca erano fin troppo semplici da seguire.
Il Mota-nee, la foresta alle falde del monte, si intravedeva appena sotto la coltre candida, mentre la roccia nera che ne delimitava i confini spiccava fortemente nel bianco del paesaggio. Da sempre, e i saggi non sapevano dire il perché, la roccia nera non si copriva di neve, né si bagnava di pioggia.
I chajrn, se potevano, la aggiravano e cercavano di non disturbarla: la Grande Madre Terra era saggia e il popolo di Eriendal si fidava ciecamente di lei, ma sapeva anche che non era il caso di essere troppo curiosi o avventati con i suoi misteri.
Eriendal seguiva le tracce del moa con il muso basso e le orecchie ben tese, mentre il rumore del vento e della neve che scricchiolava la assorbivano completamente, dandole la piena sensazione della caccia.
All’improvviso si fermò. Il vento era cambiato, si alzò di scatto annusando l’aria: nel freddo pungente, oltre all’odore muschiato del moa, si era insinuato quello dolciastro del sangue. E non era sangue di moa, né di selvaggina, era il sangue dei mojun: i pallidi senza pelliccia.
Incuriosita seguì la pista del sangue e, a breve, si trovò faccia a faccia con la roccia nera. Era liscia, alta il doppio di lei e si assottigliava verso l’alto come una zanna.
Non vi era traccia di neve, e questo lo sapeva, ma si intravedevano striature rosse e lucide sulla superficie. L’odore del sangue si era fatto più intenso. Senza pensare ai tabù imposti dagli sciamani del villaggio, Eriendal leccò la roccia. Era indubbiamente sangue mojun, ed era fresco.
Drizzò il pelo e si accovacciò guardandosi intorno: altre chiazze rosse si dirigevano verso la foresta. Un solo uomo, a giudicare dalle impronte; e molto ferito, a giudicare dal sangue.
Cautamente seguì la traccia, il perché non avrebbe saputo spiegarlo. Ogni volta che un mojun aveva messo piede sull’altopiano erano arrivati giorni difficili: lotte per il territorio, per la selvaggina, per la sopravvivenza a volte, perché vi erano umani che catturavano i chajrn come se fossero animali.
Si inoltrò nella foresta, alti alberi dalla corteccia scura, muschio profumato e poca luce che filtrava a chiazze nel sottobosco ghiacciato.
All’improvviso il ringhio tonante del moa scosse l’aria. Eriendal si affrettò, a grandi balzi, e vide di spalle l’enorme bestia dalla pelliccia bianca e nera levarsi sulle zampe posteriori per attaccare qualcosa.
Non ci pensò due volte, eresse bene il busto, caricò il peso sulla zampa destra e scagliò la lancia con precisione. L’arma sibilò nell’aria e si piantò tra le scapole del moa che lanciò un grido gutturale voltandosi verso il nuovo avversario; Eriendal si acquattò a quattro zampe, prese velocità con due rapide falcate e si scagliò nell’aria ruggendo a fauci spalancate. Affondò gli artigli nella carne dell’animale, ma venne colpita da una feroce zampata sul muso. Fu scagliata lontano, sbatté contro un grosso albero e rovinò a terra con un lamento sommesso. Sentiva il sangue bollente negli occhi e nel naso. Aveva attaccato troppo presto, il moa era grosso e non era sfiancato a dovere.
La bestia caricò spalancando il muso appuntito, Eriendal si tirò in piedi e si voltò a fronteggiarlo.
Schivò di un soffio la sua carica e gli saltò in groppa artigliandosi con le quattro zampe, affondò le fauci nel collo e cominciò a soffocarlo. Il moa compì uno stretto giro contorcendosi, Eriendal perse la presa: era troppo forte per lei sola. Insanguinato, l’animale si alzò sulle zampe e scosse con forza la testa, Eriendal fu di nuovo scagliata lontano e finì per urtare una roccia con la schiena.
Accecata e stordita fece per alzarsi ma il moa inferocito le fu immediatamente sopra e la schiacciò con le zampe anteriori, strappandole le collane della tribù e ciuffi di pelliccia.
Eriendal ruggì forte e cercò ancora di mordere, ma la bestia, aperte le fauci, le afferrò la testa per stritolarla. Fu in quell’istante che si udì un tuono, vicino, squassante, vivido. Una luce improvvisa e accecante, seguita dal pungente odore di pelo bruciato. Con un grugnito gorgogliante il moa rovinò a terra, schizzandole addosso una nube di ghiaccio.
Con le ultime energie riuscì a voltarsi. Udì la neve scricchiolare. Si pulì alla meglio il sangue dagli occhi e lo vide.
Era un uomo, un mojun, dalla carnagione chiara e i capelli castano scuro. Era ferito al volto e al corpo. Indossava una specie di lunga giubba nera bordata di rosso, strappata. Teneva una mano insanguinata sul petto e barcollava cercando di reggersi in piedi.
I suoi occhi allucinati erano i più strani che avesse mai visto, grigio piombo, e febbricitanti. Ma quello che la colpì nel profondo e le fece sussultare il cuore fu il suo odore: sapeva di uomo, certo, ma anche di sangue, sudore, morte e incantesimi. Quell’uomo puzzava di magia.
Istintivamente drizzò il pelo sulla schiena: la magia era il male, era la dannazione del creato, e quell’umano non avrebbe portato niente di buono. Provò ad alzarsi per fronteggiarlo, per niente al mondo gli avrebbe permesso di avvicinarsi al villaggio.
L’uomo fece uno stentato passo in avanti, girò la testa come se non riuscisse a vederla. Aveva un braccio penzolante, inerme, che grondava sangue. Barcollò e cadde all’indietro. D’istinto Eriendal balzò in avanti e gli atterrò sopra trattenendolo con le cosce. Sarebbe bastato un istante, un guizzo delle sue zanne, e quell’obbrobrio sarebbe scomparso per sempre, ma si bloccò.
***
Nora-fe era rimasta con i grandi occhi spalancati e le fauci semi aperte dallo stupore. Non avrebbe mai immaginato che sua madre si fosse trovata così vicina alla morte, la sua espressione faceva capire quanto fosse stata terrorizzata dal mojun.
Eriendal tacque, per un attimo i suoi occhi si velarono di lacrime.
“Perché non lo hai ucciso mamma?” chiese Nora-fe con un filo di voce.
Eriendal le dedicò un sorriso d’affetto. “Mi guardò” disse.
Nora-fe non capiva e fece una smorfia perplessa: tutte le prede ti guardano ma non per questo i chajrn non le uccidono.
“Aprì gli occhi e mi guardò” continuò sua madre. “Non c’era rabbia in quegli occhi, non c’era paura. Quando vide scendere le mie zanne insanguinate li chiuse, semplicemente, e alzò la testa porgendomi il collo.”
Nora-fe spalancò gli occhi. “Voleva morire mamma?” chiese con innocenza.
Eriendal annuì e guardò inconsciamente verso la roccia. “Sì, voleva morire. E io non sono riuscita ad accontentarlo.” Sospirò, poi le diede un’affettuosa zampata sulla testa. “Andiamo adesso.”
Di nuovo gettò uno sguardo alla roccia nera senza neve e puntò decisa verso la pista. Nora-fe la seguì per un tratto poi, improvvisamente, la piccola puntò i piedi e si lamentò. “Però non mi hai detto che cosa è successo dopo.”
La madre sospirò, ma continuò il racconto.
***
Eriendal richiuse le fauci e continuò a fissarlo. Paura e dubbio le contorcevano le viscere: sapeva di dover proteggere il villaggio eppure le sue zampe si rifiutavano di colpire: era troppo inerme, troppo rassegnato, troppo stanco di vivere.
L’uomo aprì di nuovo gli occhi e la guardò con una specie di odio triste.
“Che stai aspettando?” disse a fatica. Eriendal trasalì e si rese conto di aver allentato la presa. Avrebbe voluto rispondergli qualcosa di sprezzante, ma la verità era che in quegli occhi vedeva solo dolore.
“Cosa sei venuto a fare qui?” ringhiò afferrandolo per il bavero della giacca, ma la testa dell’uomo ciondolò all’indietro. Eriendal lo lasciò cadere e fece per andarsene: sarebbe morto assiderato in poco tempo. Non voleva accollarsi l’onere di porre fine alla sua vita, ma sarebbe stata la Grande Madre a occuparsene come meritava!
Fatti alcuni passi si fermò. Tornò indietro, caricò l’uomo sulle spalle come si fa con i daini e si incamminò verso il sentiero che conduceva a uno dei capanni di caccia della tribù.
***
Il maestro tornò a sedere su una sedia elegante dalla spalliera alta, e portò le mani in grembo. Il volto era impassibile mentre la voce risuonava feroce nella stanza.
“Te lo ordino per l’ultima volta! Uccidi quel cane!”
Nyumute si fermò esausto, ansimava e il suo animale continuava a rantolare dal dolore; le continue pause non facevano altro che aumentarne l’agonia. Parthan, in lacrime, si voltò verso la sua gabbia poi tornò a fissare il maestro e scosse il capo senza riuscire a dire una parola.
L’uomo avvampò. Si alzò di scatto dallo scranno, afferrò Parthan per il bavero della casacca e lo scagliò verso la gabbia. Il ragazzo batté la schiena e finì a terra con la bocca spalancata in un urlo muto.
“Ti faccio vedere io.”
Il maestro impose le mani su di lui e pronunciò le parole dell’Arte. Parthan si sentì afferrato da una forza invisibile. Era terrorizzato, sentiva le risate di Nyumute, i latrati dei cani, il rumore sordo della mobilia infranta.
“Guarda! Noi siamo i padroni della vita e della morte! “ gridò il maestro mentre continuava la sua opera di tortura. “Nessuna compassione! Nessuna pietà! Tu eseguirai i miei ordini o morirai! Questa è la legge della Torre!”
***
Raggiungere il capanno era un’impresa difficile. Il freddo si faceva più intenso, man mano che il pomeriggio lasciava spazio alla sera, e la neve era alta. Avvertì un nuovo odore portato dal vento, abbassò le orecchie e allargò le narici.
Iniziò a correre, con rapidi balzi raggiunse il primo albero dal grande fusto e si slanciò verso un ramo, poi un altro e un altro ancora, facendo cadere la neve accumulata in brevi spruzzi. Vi era qualcosa di malvagio in ciò che aveva portato il vento: un presagio di sventura, un desiderio d’orrore.
Il capanno era spoglio e ben nascosto tra i rami di un grosso albero ai margini di una radura pietrosa. Aveva un tetto spiovente fatto di rami di pino intrecciati, completamente coperto di neve, e due piccole feritoie alle pareti per osservare la selvaggina in arrivo. Si infilò nello stretto ingresso, adagiò il corpo sul pavimento e rotolò con la schiena a terra ansimando a fauci aperte. La sensazione di pericolo non la abbandonava un istante. Un rantolo soffocato alle sue spalle le indicò che l’uomo era ancora vivo e necessitava di cure.
Tamponò le ferite come meglio poté, provando una strana sensazione nel toccare quella pelle senza pelliccia, solo radi peli castani. C’erano tagli, bruciature e strane piaghe scure che non sapeva definire, ma anche molte cicatrici. Eppure non sembrava un guerriero, né un cacciatore.
All’improvviso Eriendal trasalì e scattò all’indietro ringhiando. All’ingresso era comparso, senza un suono, un uomo alto e magrissimo, con lunghi capelli neri e gli occhi rossi come quelli dei conigli albini. Aveva un volto pallido e un’espressione famelica. Eriendal fu presa dal terrore antico della preda, come se stesse per essere divorata. Lo sconosciuto entrò e fissò l’uomo a terra.
Eriendal iniziò a soffiare, ma era terrorizzata. Da quell’individuo emanava un odore nauseabondo che sapeva di fatalità, di putrefazione. Il suo sguardo si spostò su di lei con l’espressione di un bambino che vede un verme su una foglia, indeciso se schiacciarlo o meno.
L’uomo a terra emise un nuovo rantolo, aveva la febbre e tremava; l’intruso si accovacciò accanto a lui. Le sue movenze erano silenziose e gentili. Dal nero della pelliccia d’animale che lo copriva spuntò una mano avvolta in un guanto di pelle e si appoggiò sulla fronte del ferito. La voce che si udì subito dopo era come un rasoio nel velluto.
“Grazie amico mio. Non era questo l’epilogo che avevi immaginato, vero? Senza il tuo aiuto non sarei mai stato libero. In un certo senso mi spiace doverlo fare, ti meritavi una fine più onorevole. Tu sei uno che ci tiene a queste cose, l’ho sempre saputo…”
Mentre parlava gli accarezzava il volto, ma Eriendal vide che i suoi occhi brillavano di malvagio piacere. Si lanciò puntando le zampe alla parete e investì l’intruso con tutta la sua mole; l’uomo dalla pelle cerulea era quasi senza peso, un fuscello. Urtò il capo contro la parete opposta e si ritrovò seduto con l’enorme leomane addosso. La cahjrn caricò tutta la sua paura negli artigli e cercò di colpirlo al volto.
L’uomo la fissò con i suoi occhi terribili ed Eriendal avvertì uno schianto nel cuore, si urinò addosso dalla paura e rimase paralizzata. Ogni fibra del suo corpo si rifiutava di muoversi, riusciva a malapena a girare lo sguardo e i suoi occhi color paglia si riempirono di lacrime di rabbia. Aveva ancora le fauci spalancate.
L’intruso la spinse via con garbo, rovesciandola su un lato con una smorfia di disgusto nel sentire l’odore che aveva impregnato la sua pelliccia. Poi la afferrò per una zampa costringendola a girarsi in modo da vedere bene la scena e tornò ad accovacciarsi vicino al ferito.
“Parthan vecchio mio, potevi scegliere una guardia del corpo migliore. Ma credo non sia proprio nel tuo stile. Avremmo potuto fare grandi cose insieme, ora che la Torre è distrutta, ma è evidente che le tue motivazioni non coincidono con le mie.”
Riprese a fissarlo. Il colorito di Parthan divenne, se possibile, più pallido, le occhiaie si incupirono rendendo la sua faccia simile ad un teschio, il corpo iniziò a sussultare e a tremare, il respiro si fece irregolare.
***
Un ultimo tonfo si spense nella stanza. Parthan cercò di rialzarsi, riuscì solo a girarsi sulla schiena.
Il volto di Nyumute comparve sopra al suo, lo vide leccarsi le labbra. Parthan scosse il capo terrorizzato, le lacrime gli offuscavano la vista e il cuore gli scoppiava nel petto.
Il maestro sorrise. “Questa era la tua prova ragazzo e hai fallito. Non appartieni alla nostra stirpe. Nyumuta!” Chiamò.
“Si maestro?”
“Uccidilo.”
“Con piacere Maestro.”
Parthan smise di respirare, smise di piangere, smise di tremare.
Qualcosa si infranse in lui e qualcosa si liberò. Qualcosa che, sapeva, era sempre stato nella sua anima ma non aveva trovato la via alla coscienza fino a quel momento. Era oscuro, immenso, mostruoso e famelico e gli gridava nella mente, latrati in forma di parole, e bramava il dolore altrui più di ogni altra cosa.
Aprì le mani, che si caricarono di fiamme roventi. Assaporava per la prima volta un potere primordiale, ruggente, la forza inarrestabile degli elementi. La sua mente non recitava incantesimi o parole, era tutt’uno con le energie alla base del mondo. Distese le dita verso il volto terrorizzato di Nymute. Il ragazzino gridò mentre il suo corpo veniva avvolto da fiamme che parevano avere vita propria e cominciò a correre in tondo urlando. Parthan afferrò l’aria intorno a sé, la concentrò in un dardo vorticante diretto verso il compagno. Nymute fu spezzato in due e scagliato contro la mobilia come un cencio.
Infine Parthan si rivolse al suo maestro.
***
Parthan aprì gli occhi di scatto e afferrò con forza la nuca del suo aggressore.
“Come sono contento di vederti fratello mio” sibilò.
“Non ti affaticare” replicò l’altro con un ghigno. “Sei molto debole, rischi di farti male.”
“Sei gentile a preoccuparti per me, Drarek, ma sono piuttosto irritato dal tuo comportamento.”
L’intruso di nome Drarek emise un gemito ma non staccò le mani. Il suo incantesimo di morte proseguiva. Dalla presa di Parthan, Eriendal vide una scia color argento fluire lungo la schiena dell’avversario, una scia irregolare che iniziò a spandersi e a ghiacciare. I due corpi iniziarono a tremare nello sforzo di resistere, l’uno alla morte, l’altro al gelo.
“Facciamo come i bei vecchi tempi? Vediamo chi ci va più vicino?” lo sfidò Drarek. “Devo avvisarti però che tu stai sanguinando, io sono in piena salute.”
“Se ti turba affrontarmi adesso puoi sempre aspettare che guarisca. O hai paura di morire?”
“La paura di morire, caro amico mio, è l’ultima cosa che può spaventare uno come me. Non trovi? Però ho delle faccende da sbrigare, molte faccende, e non posso permettermi di averti come bastone tra le ruote. Sei incline alla vendetta, avresti la deplorevole tendenza a venirmi a importunare.”
Parthan sorrise mostrando i denti sporchi di sangue. “Solo perché mi hai tradito, imbrogliato e abbandonato mezzo morto?! Mi offendi. “
Drarek sbuffò. “Eri troppo preso dal tuo desiderio di redenzione per vedere ciò che è ovvio! Noi siamo fatti per dominare! Il fatto che tu ti sia lasciato impietosire da chissà cosa non cambia i miei piani. Ti avrei voluto dalla mia parte, come ai bei vecchi tempi fratello mio! Ma dato che sei diventato debole e sentimentale, non mi resta che avere pietà di te e porre fine alla tua misera esistenza. Spero apprezzerai questo gesto, lo faccio solo in nome della nostra vecchia amicizia.”
Parthan iniziò a tossire, un rivolo di sangue gli colò dal naso e dalla bocca; Drarek tremava dal freddo; la sua pelliccia ormai era coperta di brina e uno strato di ghiaccio irregolare cominciava a diffondersi anche sulle assi della capanna. Eriendal cercava di muoversi, di ruggire, ma ogni tentativo le procurava fitte acutissime e nessun muscolo le obbediva.
“Mi considererai un ingrato, lo ammetto” disse Parthan ansimando, mentre afferrava anche con l’altra mano la nuca di Drarek ormai congelata. “Ma mi hai abbandonato nel bel mezzo della Torre. Una di quelle cose che considero molto scortesi.”
“Sono addolorato.” Sussurrò di rimando. “Il grande Cane Rosso dell’Imperatore, il massacratore di eserciti, il preferito dalla Duchessa,” sibilò con astio. “Che muore come un animale in un capanno di cacciatori primitivi.”
Eriendal era travolta dall’orrore e non riusciva a pensare. Gli incubi peggiori per la sua gente, ciò che lei considerava la forma più atroce di insulto alla natura, si manifestava sotto i suoi occhi, a un passo dal villaggio. Avrebbe voluto ucciderli entrambi! Sbranare le loro gole e porre fine a tanta blasfemia. Ma anche solo respirare le costava una fatica terribile.
“Adesso facciamo sul serio.” scherzò Drarek. “E’ stato divertente ma perdonerai se non mi trattengo. Ah, per la cronaca, ho vinto io.”
Si abbandonò a una risatina vezzosa. Con un rapido gesto tolse il guanto destro: la sua mano era ossuta e lunga e, mentre compiva piccoli movimenti delle dita, iniziò a coprirsi di pustole e tagli. La premette con forza sul viso di Parthan, questi emise un grido lancinante.
Eriendal trattene il fiato. Parthan staccò le mani dal suo avversario e le abbatté con forza a terra. L’intera struttura crepitò, il legno completamente congelato si sbriciolò. Caddero, urtando i rami e la corteccia del grande abete fino a piombare nella neve; Eriendal sprofondata per metà nel manto candido avvertiva il freddo pungente sotto forma di migliaia di aghi nella pelle.
Drarek fu il primo a rialzarsi. La pelliccia si era lacerata nella caduta, sotto di essa indossava una divisa nera dal collo alto e risvolti d’argento che formavano complicati intrecci sul tessuto. Spolverò via la neve di dosso, infastidito, e si avvicinò al corpo esanime di Parthan. Sul bianco abbacinante, il sangue ne incorniciava la figura scomposta come le ali strappate di una farfalla.
Drarek gli sferrò un poderoso calcio al volto.
“Questo per avermi rovinato la pelliccia!” Sputò. Poi gli piantò il tacco dello stivale sul petto finché non sentì scricchiolare. “Quest’altro perché mi hai offeso con una mossa tanto stupida! Cosa hai ottenuto?! Eh? Niente!” gridò. “Sei patetico!”
Un rumore di carne strappata precedette di un istante un fiotto di sangue scuro che imbrattò la neve e il volto di Parthan. Drarek abbassò lo sguardo stupito, poi il suo volto ossuto si deformò in una smorfia di rabbia e dolore: la lancia spezzata di Eriendal lo aveva trapassato da parte a parte e la giovane chajrn ansimava forte alle sue spalle.
Parthan fece una risata stentata “Ho ottenuto parecchio invece…”
***
Quando si svegliò, Parthan era in un morbidissimo letto con cuscini di piume e baldacchino. Non era la stanza piccola e spoglia delle camerate, si trovava ai piani alti.
Al suo fianco una donna dall’età indecifrabile, vestita con un abito sontuoso, lo guardava amorevole. Era la Duchessa della Torre.
“Ben fatto piccolo mio” gli disse, e lo invitò ad alzarsi. “Benvenuto tra noi, benvenuto nella nostra famiglia.”
Intorno lei alcuni bambini, maschi e femmine, ridevano e si scambiavano occhiate e si davano di gomito. Un bambino più alto degli altri, dalla carnagione bianchissima e gli occhi rossi, si fece avanti.
“Ciao.” Salutò porgendogli la mano. “Io sono Drarek.”
Col muso chino, Erendal concluse la storia.
“Il mojun chiamato Drarek si accasciò a terra. Non so che fine abbia fatto. Presi Parthan in braccio e scappai verso il villaggio senza guardarmi indietro. Avevo una zampa rotta e ancora oggi mi fa male quando c’è la neve alta.”
Con un sorriso amaro si carezzò la coscia, sotto lo sguardo stupito di Nora-fe che non sapeva se spaventarsi o ammirare il coraggio della madre.
“E poi?” chiese la piccola con un filo di voce.
“E poi…” Eriendal guardò lontano. “Fui punita per aver portato lo straniero al villaggio. I cacciatori e i guerrieri corsero tutti nel bosco per scacciare il nemico, ma trovarono solo tracce di sangue nero che conducevano alla pietra.”
“E Parthan?”
“Parthan guarì velocemente e una sera andò via senza saltare.” disse sotto voce.
***
Lo aveva capito fin dal primo sguardo, quel giorno. Era giusto così, comprendeva le sue motivazioni ma non voleva che accadesse. Aveva ascoltato le storie terribili sull’infanzia di lui, sulla Torre e sul suo apprendistato per diventare assassino dell’Imperatore. Sul fatto che Drarek non era morto e che sarebbe tornato a vendicarsi se fosse rimasto. Le aveva detto che altri sarebbero venuti e che non vi era possibilità di redenzione per lui. Il suo passato, il guinzaglio del padrone, lo avrebbe strangolato per tutta la vita. Sparire per sempre era il suo gesto d’amore per lei e per il villaggio: lasciarli vivere. Ma a Eriendal si spezzò il cuore.
Lo abbracciò. Lui di solito, era molto reticente a lasciarsi andare, le effusioni lo mettevano in imbarazzo, ma erano soli quella notte e la strinse forte, a lungo.
Più tardi lei gli leccò le labbra un’ultima volta, poi lo guardò senza parlare mentre toccava la pietra nera e svaniva nell’aria…
***
“Mamma? Che hai?” chiese Nora-fe con un’espressione corrucciata.
Eriendal si passò rapidamente la zampa sul muso e fece un ampio sorriso. “Questo vento!!! Mi fa lacrimare gli occhi.”
La piccola la osservò a lungo. Poi si guardò le piccole zampe sottili e nere, gli artigli minuscoli; toccò la pelliccia castana e troppo corta del suo muso e socchiuse gli occhi, grigi come il piombo.
Eriendal serrò le fauci. “Non chiedermelo” pregò tra sé e sé.
“Andiamo a casa?”
“Sì piccola,” rispose con enorme sollievo. “Torniamo a casa…”
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