IL FIUME E IL DESERTO – Parte ventitreesima: Mostri di metallo

Luglio. Anno del Signore 1530.

Basma era libera dalla schiavitù mentale della sorella da soltanto tre giorni e già le sue facoltà sensitive erano ritornate come ai tempi in cui sua madre viveva e lei era in grado di vedere cose negate ai comuni mortali.

Era appena ritornata alla base sotterranea dopo la missione in Francia. Non si era affrettata a togliersi il travestimento per indossare nuovamente gli abiti da regina ai quali non si era ancora abituata. L’avrebbe fatto, dopo, più che altro per recitare la parte della gemella ingannando i servi dell’Ombra.

Non appena di ritorno, venne accolta da Lukia e Satanico, trepidanti per avere conferma dell’esito della missione. Mentì dicendo che era stanca e che avrebbe riferito i dettagli il giorno dopo, dopodiché si ritirò negli alloggi della sorella, finalmente sola.

Basma non si trovava bene sottoterra, captava i demoni dell’ombra aleggiarle intorno, come invisibili pipistrelli. Nonostante la sgradevole sensazione, le forze della Luce dentro di lei li mettevano in fuga ogni volta presentandole altre visioni piacevoli anche se lontane nello spazio e nel tempo.

Una era chiara e distinta: un antico palazzo egizio fatto ricostruire da automini, che, a guerra finita, sarebbe divenuta la residenza della regina d’Egitto. Rimesso in piedi per Fatima, o almeno, per far credere ai sudditi che dopo la vittoria non avrebbe dovuto più nascondersi.

Ma la perfida gemella non avrebbe mai potuto sentirsi a suo agio in quel luogo. Quella meraviglia sarebbe per sempre restata disabitata e all’avvento dell’Impero delle Tenebre sarebbe ridiventata una rovina.

Non era una supposizione: con gli occhi della mente, Basma vide tre possibili destini futuri già esistenti e definiti, paralleli e quasi tangibili. E nessuno vaticinava il Triumvirato dominare il mondo in armonia, bensì tre variazioni, una più orribile dell’altra.

E che fosse sua sorella o Lukia o Satanico a dirigere le sorti del mondo, la vita degli esseri umani si sarebbe svolta sottoterra, vicino ai demoni, lontana dalla Luce. E il trionfo dell’uomo effeminato le mostrava macchine a caccia di superstiti umani, costretti in nascondigli sotterranei per sopravvivere.

Macchine orrende di ogni forma: scorpioni, quadrupedi dalle fauci capaci di sbranare con denti metallici con incorporate armi da fuoco atte a sterminare, altre a ghermire e catturare schiavi per esperimenti diabolici.

Per pochi terribili istanti vaticinò un plausibile futuro che le presentava Satanico dieci anni più vecchio più simile a una laida megera che a un uomo un tempo bello, in un laboratorio, assieme a una squadra di scienziati di differenti stirpi e culture, costretti a collaborare per la creazione di un’abominia: un ibrido tra uomo e macchina.

Un cervello umano collegato ad arti metallici. Basma si sentì male davanti a ciò che vide. Fortunatamente, il suo spirito deviò e lei si trovò a entrare in un altro destino e in un prossimo futuro.

Il sudore freddo si trasformò in una piacevole sensazione di benessere alla vista di un grande missile partito da una base situata in un vulcano e in viaggio verso la Luna.

A bordo viaggiavano esseri umani fianco a fianco ad automini antropomorfi: macchine al servizio dell’Umanità, non addestrate a sterminarla e schiavizzarla. Sulla fiancata della nave spaziale era dipinto il Leone di San Marco. Anche in quel destino, l’arrivo dell’Uomo sulla Luna era frutto della collaborazione tra scienziati venuti da ogni parte del mondo: Medio Oriente, India, Cina, Giapangu, America. Nomi e volti, ciascuno con il proprio contributo. L’eco di tre nomi tra altri più esotici: Tyko Brahe, danese, Kepler, tedesco, Galileo Galilei, italiano.

Solo il fatto che il vaticinio fosse reale e quasi tangibile le diede la sensazione che forse quel destino parallelo avrebbe avuto la possibilità di venire creato, sempre che la missione fosse andata in porto.

In quella diramazione di precedenti destini, anche prima di quelle a venire, i Messaggeri erano molto più presenti e attivi, e purtroppo, anche le loro ombre.

Sia le forze della Luce che quelle delle Tenebre suggerivano ai vati l’idea di Fine del Mondo, Caduta degli dei, Apocalisse o altro. E il grande bivio a cui si era giunti poteva far intendere cambiamento in meglio oppure in peggio.

Le visioni future svanirono, mostrandole il presente, anche se distante. Messaggeri della Luce, gemelli di quelli dell’ombra si preparavano alla guerra imminente, come spettatori o suggeritori. La grande partita a scacchi sarebbe stata giocata dagli esseri umani. I Messaggeri, o dei, o angeli potevano soltanto ispirare, informare, niente di più.

In un attimo le sembrò di uscire da quel covo sotterraneo con lo spirito e involarsi in superficie e sempre ancora più su, in cielo. E da lì il panorama di differenti talismani sparsi nel mondo le apparve.

Ne individuò un paio: una statua di legno capace di proteggere la città che la ospitava, il Palladio. Poi il ben noto Sole all’Orizzonte che ora, vedeva, si trovava in Italia. Trasalì nel vedere lo stesso Sole, ma esistente contemporaneamente in un altro luogo. Non capì e credette di aver visto un nuovo destino. Un attimo dopo, comprese di non aver sbagliato: il mezzo Sole era la copia perfetta del primo, soltanto capovolta, come se un intero astro dorato fosse stato tagliato a metà.

Sentì il suo spirito venir scaraventato dal cielo alla terra e in un attimo si trovò in un paese: Nippon, il Giapangu, la terra degli alleati dei triumviri. Ma non era un guerriero a portare  al collo il talismano, bensì un santone, del quale intuì l’animo saggio e pacifico.

L’uomo dagli occhi a spina e la rada barba sembrò guardarla. I loro sguardi si incontrarono a distanza per un attimo. Un concetto le balenò in testa: speranza.

                                                                        ***

Ancora una volta l’uomo metallico gli apparve in sogno tentandolo, allettandolo e convincendolo che l’Essere Supremo e perfetto era l’ibrido tra l’Uomo e la Macchina e che a lui era destinato costruirla. Mai prima d’ora l’Umanità aveva raggiunto tale progresso da rendere possibile quel progetto divino.

Solo decenni prima il Messaggero chiamato Vulcano o Efesto aveva ispirato il suo maestro spianando la strada all’avvento di macchine sempre più perfette. Ma quel genio si era fatto contaminare dal gemello del dio votato alla Luce, la maledetta, abbagliante Luce che allettava e prometteva.

E anche lui, il pupillo, all’inizio si era lasciato incantare, abbagliato anche dal sentimento che provava per il suo maestro. Ammirazione, forse amore perverso. Alla morte di quello e dopo il grande dolore per la sua perdita si era dato a una vita smodata con donne di malaffare, per convincersi che ciò che aveva provato per un uomo non aveva nulla a che vedere con il piacere di copulare con una femmina. E aveva sprecato il suo talento da ladro per furtarelli da quattro soldi.

Forse era stata Lucrezia a salvarlo o forse Vulcano che gli era apparso e l’aveva convinto ad allearsi a quella per un grande progetto. E da quel giorno, anziché insignificanti gioielli, aveva dedicato la sua dimestichezza nei furti a rubare i progetti del maestro, custoditi e segreti, ma che lui era riuscito a trafugare, copiare e poi rimettere a posto.

Maestro dei travestimenti, camuffato da femmina, seduceva ingegneri e colpiva, promettendo notti folli e sparendo dopo ogni colpo, senza mantenere. La dimora del vero dio era una fucina sotterranea  e le macchine che lui aveva fatto costruire usando e sviluppando i progetti rubati avrebbero servito la vera causa, quella dell’Ombra che proteggeva la Materia e la conservava mantenendola solida, come il metallo.

Si svegliò di soprassalto con ancora la voce del dio che gli echeggiava nelle orecchie simile al battito di un martello su un’incudine. Si toccò il corpo, un tempo statuario e che ora stava mostrando i segni della maturità che ben presto sarebbe divenuta vecchiaia.

Per notti e notti grazie al dio del sogno aveva progettato un automo perfetto e metallico con un cervello umano nella testa simile a un elmo. E i disegni erano pronti. Mancava solo una squadra di cerusici capaci di asportare le parti viventi senza farle morire e collegarle a quelle meccaniche.

Ma solo quella mattina decise che dopo il primo prototipo sperimentale con il cervello di un altro appena prescelto, il secondo ibrido avrebbe portato il proprio, asportato dal corpo ormai destinato a morire e piazzato dentro una macchina, indistruttibile e invulnerabile, di acciaio inossidabile. La vita eterna.

                                                                          ***

Per ore Satanico si era quasi divertito a mettere alla prova Ahmed. E l’agente si era umiliato a farsi dirigere a bacchetta quasi fosse stato un automo. Gli aveva ordinato persino di scalfirsi con un  coltello e lui aveva eseguito, fingendo di non provare dolore. E infine, la proposta, perversa e terrificante, mascherata da dono divino: la vita eterna in un corpo metallico.

Lui, Ahmed, era il prescelto per divenire il primo ibrido di una nuova razza. Grazie all’ipnosi che l’aveva reso schiavo sarebbe stato il soldato meccanico perfetto, immortale, un semidio. Gli aveva mostrato il progetto, disegnato accuratamente.

Ahmed aveva celato l’orrore simulando un’espressione neutrale. E mentre fingeva di osservare quell’abominio, aveva visto il vero nome di Satanico, in calce, quasi fosse stata la firma del Diavolo in persona scritta col sangue: Gian Giacomo Caprotti. E una dedica: creando l’essere perfetto supererò finalmente il genio che fu mio maestro: Leonardo da Vinci

CONTINUA…

Torna alla ventiduesima parte

di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

Lascia un commento