Colpa del Cielo
Luka non era mai di buon umore prima del caffè.
Quelli che precedevano il rito mattutino erano i momenti meno indicati per rivolgergli la parola: nel migliore dei casi rispondeva a monosillabi, nel peggiore emetteva dei grugniti animaleschi per esprimere la propria disapprovazione. Persino Jezebeth, che di solito non si faceva scrupoli a litigare con nessuno, aveva l’accortezza di mantenersi a debita distanza.
Strappato senza pietà al sonno dal trillo insistente della sveglia, Luka si vendicò con una manata, che la mandò a schiantarsi sul pavimento. Il suo squillo si interruppe a metà, come il respiro di un uomo ucciso da un colpo di pistola.
Luka provò un senso di macabra soddisfazione, ma durò poco, per essere sostituito dalla consapevolezza che doveva alzarsi e dal bisogno impellente della dose quotidiana di caffeina.
Borbottando tra sé, si tirò su a sedere, cercò le ciabatte a tentoni con i piedi e afferrò gli occhiali sul comodino. Dopo averli inforcati, si alzò dal letto e si trascinò nel piccolo bagno di fronte alla camera da letto.
L’acqua fresca sul viso lo fece sentire un po’ più umano, anche se la mancanza di carburante gli provocava ancora un’acuta sofferenza.
Lo specchio appeso sopra il lavandino gli restituì l’immagine desolante di un giovane soldato appena rientrato da una battaglia: occhi pesti, infossati in una trincea di occhiaie; pelle tirata sugli zigomi e intorno alla bocca; e i capelli, infine, simili a un folto cespuglio in pieno autunno. Si sforzò di dare una parvenza di ordine a quella matassa aggrovigliata con un elastico, ripromettendosi di tentare di nuovo di pettinarsi una volta che le sue condizioni psicofisiche fossero migliorate.
L’appartamento era molto silenzioso, la cucina ancora al buio, le persiane serrate. Luka premette l’interruttore della luce e accese la macchina del caffè. Il familiare ronzio dell’apparecchio gli dipinse sul volto la morbidezza del sollievo alla prospettiva della bevanda calda presto nello stomaco.
La serenità, però, fu passeggera.
Non era rimasta neppure una capsula per il caffè. Era sparita persino la scatola, gelosamente conservata in una delle credenze.
Luka fissò il ripiano vuoto per un tempo interminabile, inebetito.
Non riusciva a credere di essersi dimenticato di controllare lo stato delle sue scorte. Si lasciò ricadere su una delle sedie intorno al tavolo accostato al muro e si passò stancamente le mani sul volto.
Appollaiato all’altro capo del tavolino, le gambe raccolte al petto, i piedi scalzi sul bordo della sedia, come se fosse sul punto di spiccare un balzo, Jezebeth l’aveva osservato dacché aveva fatto il suo ingresso in cucina, anche se l’angelo non aveva neppure notato la sua presenza, troppo assorbito dal proprio obiettivo.
Il demone trovava ridicolo che un essere sovrannaturale sprofondasse in un simile abisso di oscurità per un motivo tanto triviale, ma si astenne dal farlo notare ad alta voce.
Non che temesse di esprimere le proprie opinioni; semplicemente, preferiva rimandarle a quando Luka fosse rinsavito abbastanza da dargli ascolto. Se l’angelo lo avesse assalito, avrebbero attirato l’attenzione degli altri condomini e la loro copertura sarebbe finita a farsi benedire.
“Benedire”, ripeté tra sé il demone, sardonico. “Esilarante.”
Per quanto potesse divertirlo assistere alla distruzione psicologica di un angelo, dopo un po’ l’immobilità e il silenzio di Luka, rotto solo dai loro respiri, lo fecero spazientire, così azzardò un circospetto: «Ehi?»
Il collo dell’angelo si torse come una frusta e il suo sguardo schizzò verso quello del demone. Gli occhi, dietro le lenti, apparivano più grandi del solito, poiché la pupilla si era dilatata fin quasi a inglobare cornea e iride. Sul viso provato dal sonno sortiva un effetto ancora più inquietante, ma l’unica reazione di Jezebeth fu inarcare un sopracciglio con aria di sfida, anche se dovette trattenersi dall’assumere una posizione difensiva.
Luka emise qualcosa che non poteva qualificarsi come una frase. Dal momento che il demone non rispondeva, riprovò e questa volta riuscì ad articolare un’affermazione più intelligibile: «È finito il caffè».
Per sottolineare il concetto, spinse verso di lui la scatola vuota.
Jezebeth si impose di non cedere. Solo perché il Patto lo obbligava a sperimentare le emozioni dell’angelo come se gli appartenessero non significava che dovesse assecondare i suoi capricci. Il legame si rivelava utile in battaglia, nient’altro.
Trascorse qualche attimo di silenzio.
Jezebeth incrociò le braccia al petto.
Luka si massaggiò la pelle sotto gli occhi ed emise un brontolio da anima in pena.
Jezebeth lanciò un’occhiata infuriata al soffitto, come se fosse colpa del Cielo se a lui era toccato un angelo così patetico. In effetti, lo era.
Alla fine scattò in piedi e afferrò la giacca di jeans che pendeva dallo schienale della sedia. La indossò distrattamente sopra la t-shirt nera e si avviò a grandi passi verso la porta.
Perplesso, Luka si sporse per seguire i suoi movimenti e biascicò, incerto: «Jez…?»
Ma il demone sollevò una mano per metterlo a tacere. Chiuse le dita a pugno, eccetto l’indice, che rimase a mezz’aria, ammonitore. «Non dire una parola» sillabò Jezebeth, prima di lasciare l’appartamento e sbattere la porta dietro di sé.
Pochi minuti più tardi era già di ritorno, a passo pesante, così come se n’era andato, il viso corrucciato e lo sguardo di chi è irritato dal mondo in generale. Quest’ultimo, comunque, non era proprio una novità. Sottobraccio teneva un pacchetto, che gettò sul tavolo con calcolata indifferenza.
Il contenitore atterrò davanti a Luka, che per un lungo momento riuscì solo a contemplarlo come se fosse un miracolo.
«Adesso sbrigati» gli ingiunse il demone in un ibrido tra un ordine e un ringhio, appena l’angelo spostò l’attenzione su di lui. «Se fai tardi al lavoro, la gente potrebbe farsi delle domande e poi il direttore accuserà anche me». Pronunciò quel pronome con particolare veemenza. «E io non ho alcuna intenzione di sorbirmi i suoi piagnistei per le tue cazzate. È chiaro?»
Quello che era chiaro era che Luka non aveva ascoltato una sola parola del suo sfogo. Lo guardava a occhi sgranati, ma il suo stato d’animo era indefinibile. Quando si alzò dalla sedia e si mosse verso di lui, d’istinto Jezebeth si preparò ad affrontare un’aggressione. Invece l’angelo gli gettò le braccia al collo, gesto che lo spiazzò molto più di un qualsiasi attacco.
Rigido come una statua, non ebbe alcuna reazione finché non fu Luka a ritrarsi con un ampio sorriso. Fece per aprire bocca, ma l’indice del demone troncò il suo commento sul nascere.
«Non. Una. Parola».
Docile, l’angelo annuì e si dedicò al proprio caffè, senza smettere quel sorriso fastidioso, mentre Jezebeth monitorava le sue azioni per assicurarsi che non perdesse altro tempo.
Il demone si era ormai arreso all’evidenza: l’ascendente del Patto su di lui era troppo potente perché potesse opporvisi. Ciononostante, però, non riusciva neppure ad accettare del tutto di sentirsi così protettivo nei confronti di un angelo, una creatura che avrebbe dovuto considerare la propria nemesi.
Con la spalla addossata allo stipite della porta e lo sguardo dardeggiante sulla figura di Luka, il demone rievocò il giorno in cui l’angelo gli aveva proposto il Patto.
“Potrebbe essere di grande vantaggio per entrambi,” aveva fatto notare.
“Un grande vantaggio,” gli aveva fatto eco Jezebeth, beffardo, “oppure una gran seccatura.”
Quando però l’angelo gli aveva dimostrato di avere ragione, salvandogli la vita la prima volta, il demone aveva dovuto ritrattare la “gran seccatura”. Del resto, a oggi non era ancora morto, per cui doveva riconoscere, almeno tra sé, che Luka non era il peggior angelo con cui avrebbe potuto ritrovarsi a collaborare.
Spin-Off tratto dal romanzo “Quando gli angeli meritano di morire”
di Veronica Tomasiello – Nica
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