IL FIUME E IL DESERTO – Parte decima: l’impero delle tenebre
Maggio. Anno del signore 1930
Sorse l’alba e il corsaro Barbarossa vide all’orizzonte la costa della Sicilia stagliarsi. La gioia dell’imminenza dello sbarco si gelò non appena il profilo lineare della terraferma si ruppe in uno sciame che entro breve si mostrò come una flotta di aerogalee su cui garriva il vessillo del Leone di San Marco. Ingoiò l’amaro calice della consapevolezza di essere stato ingannato, mentre urlava ai suoi marinai l’ordine di gettarsi ai posti di combattimento.
Dal ponte dell’aerogalea ammiraglia, Andrea Doria assisteva allo scempio della flotta barbaresca. Il mare era una foresta di fiamme. In pochi minuti le bombe e i missili delle navi volanti e degli ornitotteri avevano bersagliato le navi corsare a una a una. Il trionfo era totale, confermato dal segnale che Barbarossa era stato salvato e catturato e l’elevatore lo stava portando a bordo.
Tra due fanti d’aviazione, incatenato, il pirata manteneva una stoica dignità. Doria assaporò l’effimero trionfo, che morì di colpo alla vista di una squadriglia di ornitotteri scesi dal cielo, sulle cui ali era dipinto un simbolo che non era il Leone di San Marco. Un’ombra oscurò il sole, un velivolo con l’emblema di un sole rosso con al centro uno scarabeo e un lampo sorvolò la nave.
Una bomba venne sganciata. L’ultima cosa che vide fu lo sguardo di Barbarossa, come se il pirata stesse trionfando per il comune inganno in cui loro erano caduti. Poi, fuoco, fiamme e, infine, buio.
Dal ponte dell’enorme nave su cui batteva la bandiera con il Sole e lo Scarabeo il caposquadriglia Shamoto ricevette il segnale. La balista lanciò il suo ornitottero nei cieli di Cipro. Sotto di lui la flotta del pirata Dragut era ridotta a relitti in fiamme. Lo sciame delle aerogalee dell’ammiraglio italiano Veniero era uno stormo di aquile in procinto di gettarsi sulle spoglie di una preda ormai inerme.
Individuò all’istante la galea ammiraglia, constatando quanto fosse piccola se confrontata con la portaornitotteri dalla quale lui e i suoi erano decollati. Notò un elevatore venire issato a bordo. Veniero aveva l’ordine di catturare vivo Dragut. Le spie di Lukia si erano infiltrate dovunque. Per un attimo si chiese se l’arma della vittoria sarebbe stata l’informazione o le macchine più sofisticate in mano loro.
Quando la sagoma della grossa nave volante italiana si parò davanti, tirò la leva che azionava il missile a vapore mentre gridava forte, perché gli dei lo sentissero, l’urlo di guerra «Tora! Tora! Tora!», ”tigre” nella sua lingua, tre volte.
Un attimo dopo l’aerogalea esplodeva in una grande fiamma mentre lui virava, alla caccia di altre navi. Ma gli altri aeronauti giapanghesi erano già all’opera a cancellare l’Italia dai cieli.
La gigantesca nave volante atterrò e il Doge prigioniero venne fatto sbarcare spinto su un tronetto e caricato su un’automovile. Non servivano catene per un vecchio paralizzato, sconfitto. La scorta dei vincitori, beduini a sinistra e samurai a destra, tutti a bordo di sbuffanti autocicli avanzava per la Via Appia; sui prati, file di scorpioni meccanici e altri automini marciavano, calpestandone l’erba, novelli Attila.
Il confine tra l’Italia vinta e lo Stato della Chiesa venne raggiunto. Roma si stagliò davanti, a condividere la sconfitta con la un tempo potente vicina. Sulla linea di frontiera una squadra di Guardie Svizzere in catene sembravano voler ostentare la vittoria dei beduini di scorta, armati di rivoltoni e pronti a decimare gli un tempo orgogliosi fanti elvetici. E tra gli uomini del deserto con al petto l’araldica dello Scarabeo, il Papa in catene era la rappresentazione vivente della disfatta cristiana davanti al paganesimo.
Anche il corpulento pontefice sedeva su un tronetto; il Doge sapeva che anche il suo vecchio amico era protetto da un Messaggero della Luce e che, nonostante ogni potere terreno fosse stato loro tolto, lo spirito e la volontà di resistere sarebbero rimasti fino alla fine dei giorni, nonostante la vittoria dell’Ombra.
Il trono papale venne affiancato a quello dogale. Davanti a loro, Roma. Un corteo arrivò. Portata da robusti uomini vestiti da antichi egizi, la donna ricordava una Cleopatra reincarnata. L’allegoria con la Città Eterna che un tempo aveva soggiogato l’Egitto era chiara. Il trono di Iside, la Nemesi, venne posto davanti ai loro. Il Doge evocò Minerva. Vide le labbra di Sua Santità mormorare qualcosa, di sicuro il suo Messaggero.
«La Fine del Mondo è arrivata, ma un giorno la Luce trionferà, come sempre, Ferruccio» declamò Pietro Secondo, con accento tedesco.
«E illuminerà la Tenebra, Martin. Non potranno prenderci l’anima. Né in questa vita, né nell’aldilà.»
Iside spalancò gli occhi. Solo allora il Doge vide il sole all’orizzonte al collo della sovrana. Il talismano che un tempo era stato suo. Sicuramente strappato a sua nipote Loretta-Atena. Inorridì al pensiero del destino della sua diletta, e della figlia di lei. Ma nulla fu peggiore quando ebbe la visione di Minerva venir coperta da un’ombra scaturitasi dal talismano, ormai divenuto un’arma a doppio taglio, ora in possesso della regina tenebrosa.
La visione del Messagero del Papa svanire nel buio presentò la sconfitta totale, davanti alla quale quella terrena di Roma e Venezia era nulla. Invocò la morte ma dagli occhi di Iside emanava un fluido capace di dare qualcosa peggiore del decesso della carne: la schiavitù dello spirito.
L’Ombra non poteva spegnere le Luce, ma poteva accecare celandola, forse per l’eternità. La magia ipnotica di Iside soggiogò in breve la sua volontà. Capì ora che anche il Papa era ora schiavo della regina, come Solimano. Vivi ma senza volontà, fantocci.
In un attimo vaticinò il destino del mondo. Il Gran Mogol dell’India, il principe della Russia, i sovrani Mexica e Inca, l’Imperatore della Cina, l’arconte greco, i re di Spagna e Inghilterra. Vivi e sani, ma sotto il giogo mentale di Iside a distribuirne il potere. E infine anche la donna chiamata Lukia e l’uomo dal nomigliolo Satanico divenire a loro volta marionette nelle mani della regina d’Egitto.
La realtà si divise in tre destini divergenti. Nel secondo Lukia avvelenava Iside e Satanico rimanendo la sola despota nel mondo e da Roma si autonominava Sacerdotessa di Loki, facendo delle catacombe la sua residenza.
La terza fu un incubo in cui scorpioni meccanici e automini massacravano samurai e beduini, facendo schiave le sue alleate, e instaurando un impero dominato dalle macchine. Fu una consolazione constatare che in tutte e tre le realtà l’umanità resisteva e combatteva. Contro samurai, beduini e automini. Sprazzi di luce nell’Impero delle Tenebre prossimo venturo.
Fioravante si svegliò, matido di sudore. Non era stato solo un incubo: il druido aveva realmente vissuto con gli occhi di alcuni protagonisti il destino dei giorni a venire. Tre destini per la precisione. Ricordò le visioni dell’anno prima. Le guerre dei secoli futuri, appartenenti ad altri universi paralleli.
Si trovava in una grande cella. Poco lontano vide le sue compagne di sventura, addormentate dentro sarcofaghi scoperti, come lui stesso. Si alzò. Robuste sbarre lo separavano dalla libertà. Non c’erano guardie a sorvegliarli. Da lì non si poteva fuggire. Guardò Atena in catalessi e si consolò notando che il talismano era ancora al collo di lei. Iside non se ne era ancora impadronita. Forse era ancora in tempo a salvare il mondo. Ma come?
***
Notte fonda. Le acque del Nilo gorgogliarono e un attimo dopo il Proteus emerse, accostando.
Il portello si aprì e cinque uomini uscirono. Indossavano abiti arabi. L’agente Ahmed guidò la fila, il condottiero Francesco Tagliaferri, l’agente Musico, il guerriero mexica Sole Tiepido e il capitano dell’aria Angelo Santus seguirono. Quest’ultimo al fodero aveva una pistola. Per la prima volta in vita sua portava un’arma, fermamente intenzionato a usarla. Sua moglie e sua figlia erano in pericolo, da qualche parte.
L’agente arabo aveva informato che la sua famiglia, quella di Francesco e i loro compagni erano stati avvistati in quella zona. Il Doge aveva anche contermato che ”sentiva” che esse erano vive. Sempre scettico riguardo all’occulto, ora aveva voluto credere alle parole del vecchio. A volte bisognava rivedere le proprie convinzioni. Tastò la pistola per confermare che, per salvare le sue dilette, era ora disposto sparare.
Un gorgoglio alle loro spalle segnalò che il Proteus si stava nuovamente immergendo. Da quel momento l’unica via era avanti, nella bocca del leone, nella notte, verso l’ignoto.
CONTINUA…
di Paolo Ninzatti
Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.
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