Il Vello d’oro – 2 di 3
4.
Il viaggio verso la Colchide
Giasone prese il comando della nave Argo e gli eroi si misero in viaggio, guidati dall’accorta prudenza dell’abile Tifi e allietati dal canto di Orfeo.
Gli eroi sbarcarono quindi a Lemno, un’isola governata da sole donne: tempo addietro, infatti, tutti gli uomini di quella terra avevano ripudiato le mogli legittime per unirsi alle loro schiave, che rapivano sulle coste della Tracia; furiose, le consorti massacrarono tutti i loro padri e i mariti;
solamente la regina Ipsipile aveva risparmiato in segreto il suo genitore.
Quando gli Argonauti sbarcarono nell’isola rimasta in potere delle donne, essi vennero accolti con tutti gli onori: le donne vollero unirsi in amore con quegli eroi venuti da lontano, per concepire una nobile discendenza.
Ipsipile arrivò ad offrire a Giasone il trono di Lemno: il figlio di Esone rifiutò, ma non disdegnò l’ospitalità che veniva offerta a lui ed ai suoi compagni. Tra i lussi, i banchetti e le mollezze, gli Argonauti stavano per perdere il loro spirito guerriero per cui Eracle dovette rimproverarli aspramente per convincerli a riprendere il viaggio.
Dopo aver lasciato Lemno, i compagni si diressero verso il paese dei Dolioni, dove regnava re Cizico, che li accolse con ospitalità.
In quella terra, tuttavia, vivevano anche dei terribili giganti con sei braccia, figli della dea Terra, che all’alba del nuovo giorno attaccarono il gruppo di eroi;
gli Argonauti non si fecero sorprendere e, a colpi di arco e lancia, fecero strage di quei mostri; particolarmente letali furono le frecce di Eracle, intrise del veleno dell’Idra di Lerna.
Durante la notte la nave Argo riprese il mare ma fu investita dal vento contrario; senza rendersene conto, gli eroi partiti alla ricerca del Vello d’Oro si ritrovarono di nuovo sulla costa dei Dolioni.
Questi ultimi, avendo scambiato la nave per una imbarcazione nemica, attaccarono gli Argonauti; vi fu un’aspra battaglia nel buio della notte, senza che le due parti si riconoscessero.
Quando sorse l’alba e tutti si accorsero di quanto era successo (lo stesso re Cizico era morto nello scontro), un’angoscia infinita si impadronì dei Dolioni e dei loro ospiti; per tre giorni interi, essi piansero e si tagliarono i capelli, poi seppellirono il re Cizico con grandi onori.
Dopo i funerali gli Argonauti ripartirono: poiché vi era bonaccia, si dovette procedere a remi: per navigare più in fretta, nacque una gara tra tutti i nobili eroi a chi resistesse di più (Eracle arrivò addirittura a spezzare il suo remo).
Giunti nella Misia, l’equipaggio della nave Argo decise di fare una sosta: Eracle si allontanò per cercare un albero adatto per costruire un nuovo remo.
Accadde tuttavia che Ila, il ragazzo amato dall’Alcide, nell’andare a prendere acqua a una fonte venne rapito dalle Ninfe per la sua grande bellezza.
Polifemo udì il ragazzo che gridava aiuto, brandì la spada e corse a cercarlo; poi incontrò Eracle, gli riferì ciò che aveva sentito e insieme si misero alla ricerca di Ila.
Nessuno dei tre poté far ritorno quella notte e il mattino seguente la giornata si presentava così ventilata che Giasone decise di fare vela senza i compagni perduti.
Inutili furono le proteste di alcuni degli Argonauti (tra cui Telamone), così come i tentativi di convincere Tifi a cambiare rotta: il figlio di Esone, sostenuto da Calais e Zete, fu irremovibile[1].
Lasciata la Misia, gli Argonauti giunsero al paese dei Bebrici, dove sedeva sul trono il re Amico, figlio di Poseidone. Era un uomo forte ma violento, che sfidava tutti gli stranieri che passavano di là a una gara di pugilato, uccidendoli tutti.
La sfida di Amico venne raccolta da Polluce, uno dei Dioscuri, che colpì il suo avversario sopra l’orecchio frantumandogli l’osso; il re cadde in ginocchio per il dolore ed in un istante perse la vita; i Bebrici allora assalirono il figlio di Zeus e di Leda, ma i suoi nobili compagni strapparono le armi ai nemici e li misero in fuga.
Il viaggio condusse quindi la nave Argo sulla spiaggia di Salmidesso dove abitava Fineo, un indovino reso cieco dal dio Apollo perche aveva osato rivelare con esattezza il sacro pensiero di Zeus.
Per dargli maggiore tormento, gli dei funestavano lo sventurato vaticinatore con le Arpie, delle terribili creature alate che piombavano giù dal cielo a rubare qualsiasi cibo Fineo tentasse di ingerire: quel poco che gli veniva lasciato, si impregnava di un odore talmente ripugnante che nessuno avrebbe osato anche solo accostare la bocca.
Gli Argonauti volevano sapere da Fineo la rotta giusta per il loro viaggio; il profeta promise di rivelare tutto, a patto che lo liberassero dalle Arpie.
Allora gli eroi prepararono una tavola imbandita: subito i mostri alati si precipitarono giù con orribili strida e rubarono tutto il cibo. Come le videro, Zete e Calais, i figli alati di Borea, brandirono la spada e inseguirono le Arpie attraverso il cielo sino a quando non intervenne Iride, la messaggera degli dei, che assicurò che Fineo non sarebbe stato più tormentato da quei mostri.
L’indovino rivelò così agli Argonauti come affrontare il viaggio e li mise in guardia dalle rupi Simplegadi, che avrebbero incontrato in mare.
Queste due enormi rocce, mosse dalla violenza del vento, si scontravano una contro l’altra, impedendo il passaggio via mare: erano sempre avvolte dalla nebbia e da fragore immenso e neppure gli uccelli riuscivano ad attraversarle.
Fineo consigliò agli Argonauti di far volare una colomba in mezzo alle due rupi: se l’avessero vista in salvo, anche loro potevano arrischiarsi a passare; ma se quella non ce l’avesse fatta, era meglio evitare ogni tentativo.
Gli Argonauti ripresero il mare; quando furono ormai vicini alle Simplegadi, liberarono da prua una colomba e quella riuscì a volare dall’altra parte; gli Argonauti allora aspettarono che le rocce si riaprissero e poi, remando a tutta forza, superarono il passaggio[2].
La nave Argo giunse nell’isola di Mariandine, dove il re Lico (da sempre nemico acerrimo dei Bebrici) accolse con gioia gli eroi. Qui morì l’indovino Idmone, ferito da un cinghiale; morì anche Tifi, il timoniere: Anceo prese il suo posto alla guida della nave[3].
Gli Argonauti attraversarono quindi il capo ed il porto delle Amazzoni, quindi arrivarono davanti alla piccola isola di Dia, sacra ad Ares. Uno stormo di uccelli sacri al dio della guerra[4] si levò da quel luogo infausto e attaccò la nave; queste creature combattevano scagliando le proprie piume acuminate sui loro nemici; una di esse colpì Oileo, che rimase ferito alla spalla.
Gli Argonauti si ricordarono allora dei consigli di Fineo e di come questi avesse riferito dell’avversione di questi animali al rumore: indossati gli elmi dispersero lo stormo rivolgendo agli uccelli urla possenti. Metà degli uomini si diede a remare mentre gli altri li proteggevano sollevando gli scudi, sino a quando la nave non trovò un punto per attraccare.
Qui, al cospetto degli Argonauti, apparvero dei naufraghi: erano i figli del defunto Frisso, partiti alla volta di Orcomeno per reclamare parte dell’eredità del loro avo Atamante.
Gli Argonauti furono ben lieti di aiutarli e rifocillarli e chiesero loro sostegno nella loro impresa di riportare in Ellade il Vello d’Oro; i nipoti di Nefele promisero di perorare la causa degli eroi davanti al re della Colchide.
[1] Polifemo restò in Misia, dove fondò la città di Ghio e ne divenne il re; Eracle invece tornò in Ellade per proseguire le sue dodici fatiche.
[2] Da allora le Simplegadi sono ferme: era destino, infatti, che, se una nave fosse riuscita ad attraversarle, quelle rupi sarebbero rimaste immobili per sempre.
[3] Giunti in Paflagonia, Giasone scelse tre nuovi membri degli Argonauti: i fratelli Deileonte, Autolico e Flogio, vecchi amici di Eracle.
[4] Secondo alcuni, tali creature erano della stessa stirpe degli uccelli Stinfalidi.
5.
La conquista del Vello d’Oro
Gli Argonauti giunsero finalmente nella Colchide, al margine orientale del Ponto Eusino, e qui il figlio di Esone dichiarò ai suoi compagni di volersi recare personalmente alla corte del re Eete per chiedere al sovrano se era disponibile a consegnare amichevolmente il Vello; solamente in caso di rifiuto, gli Argonauti avrebbero attaccato battaglia.
Si formò così una delegazione composta da Giasone, Telamone e Augia (fratellastro di Eete), unitamente ai figli di Frisso; il gruppo avanzò attraverso un altopiano denominato il Circeo, dove si presentò ai visitatori il macabro spettacolo di cadaveri esposti sulle cime dei salici (l’usanza del luogo riservava la sepoltura alle sole donne, mentre i corpi dei maschi erano lasciati alla mercé degli uccelli).
Il gruppo di eroi giunse infine al palazzo reale, dove venne accolto da Calciope (moglie del defunto Frisso), che ringraziò Giasone per aver salvato i suoi figli, e Medea, un’altra delle figlie di Eete.
Giunse infine il sovrano che, quando venne a sapere dello scopo per cui erano giunti gli Argonauti, si infuriò e ordinò agli stranieri di far ritorno nella loro terra di origine.
Il figlio di Esone rispose con pacatezza e nobiltà d’animo, ragion per cui Eete non se la sentì di opporre nuovamente un netto rifiuto: egli pertanto promise che avrebbe consegnato il Vello d’Oro a condizione che Giasone aggiogasse all’aratro due tori dagli zoccoli di bronzo (i due animali, dono di Efesto, erano enormi, selvaggi e spiravano fuoco dalla bocca), seminando poi sul terreno i denti del drago ucciso da Cadmo.
Nell’udire le condizioni Giasone rabbrividì, ma in suo aiuto intervenne il favore degli dei: Eros, spinto dalla madre Afrodite (in combutta con Hera e Pallade Atena) ispirò in Medea una travolgente passione verso l’eroe di Iolco[1].
La figlia di Eete era una maga potentissima: ella decise di aiutare Giasone a conquistare il Vello d’Oro, a patto che il giovane giurasse di sposarla e di portarla con sé in Ellade[2].
Giasone giurò e Medea gli diede un farmaco magico, con il quale avrebbe dovuto spalmare la spada, la lancia e anche il suo stesso corpo, prima di affrontare i tori: per un giorno intero questo farmaco lo avrebbe reso invulnerabile al ferro e al fuoco. Poi gli rivelò che, nel seminare i denti di drago, dalla terra sarebbero spuntati degli uomini in armi; per sopravvivere alla loro furia guerresca, Giasone avrebbe dovuto gettare in mezzo delle pietre: gli uomini allora avrebbero cominciato a guerreggiare e ad uccidersi tra di loro.
Giasone spalmò su di sé l’unguento magico, andò nel bosco sacro del tempio ed aggiogò i tori, nonostante questi lo tormentassero con un fiume di fuoco. Poi seminò i denti di drago e dai solchi della terra spuntarono i giganti “e la piana di Ares, l’uccisore di uomini, fu irta di solidi scudi, di lance, di elmi brillanti”; quando li vide, il figlio di Esone scagliò delle pietre contro quei guerrieri, che cominciarono a combattere uno contro l’altro; dopo un’aspra lotta, Giasone ebbe vita facile ad uccidere i pochi superstiti, stremati dalla fatica.
Nonostante il giovane fosse riuscito a superare la prova, Eete rifiutò di dargli il Vello d’Oro e anzi tramò per bruciare la nave Argo e uccidere tutto l’equipaggio. Ma prima che il re della Colchide potesse mettere in atto il suo piano, Medea nottetempo andò da Giasone, lo condusse al bosco di Ares e con i suoi filtri magici fece addormentare il drago che stava di guardia.
il serpente
stregato dall’incantesimo scioglieva la lunga spina
dalle spire nate dal suolo, e allungava i suoi infiniti
anelli, così come quando sul mare in bonaccia
si rovescia un’onda scura, muta, senza frastuono;
ma tuttavia teneva alzata l’orribile testa,
bramoso di avvolgere entrambi
nelle mascelle mortali.
Medea intinse un ramo di ginepro,
tagliato da poco, nella mistura,
e sparse il filtro possente sopra i suoi occhi,
pronunciando le formule: lo circondò l’odore
del filtro e lo addormentò[3].
Così Giasone poté impossessarsi del Vello e salire sulla nave Argo, per la gioia di tutti i suoi compagni di avventura, che si misero ai remi per lasciare la Colchide.
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