Mito ed epica a Roma – Storie sugli dei
- Storie sugli dei
Come si è detto, i Romani non furono particolarmente creativi nella narrazione di storie aventi come protagonisti i numi; non possiamo però fare a meno di citare due leggende presenti nelle Metamorfosi di OVIDIO. La prima ha come protagonista il re Pico, figlio di Saturno, che fece innamorare di lui la potente Circe; poiché il giovane respinse le profferte amorose della maga, discendente del dio Sole, quest’ultima la trasformò in un picchio.
In terra d’Ausonia regnava Pico, figlio di Saturno,
appassionato di cavalli addestrati al combattimento.
Il suo aspetto era quello che vedi: tu stesso puoi ammirarne
la bellezza e giudicare da questo ritratto come era in vita.
Il suo cuore era pari all’aspetto; non aveva visto
quattro volte i ludi che ogni quattro anni si svolgono in Grecia,
in Elide. Con il suo volto aveva affascinato le Driadi nate
sui monti del Lazio; per lui sospiravano le divinità
delle fonti e le Naiadi tutte, quelle dell’Albula,
del Numicio, dell’Aniene, dell’Almone dal brevissimo corso
o dell’impetuoso Nare, del Fàrfaro dall’onda scura,
quelle che vivono nel regno boscoso di Diana Scìtica
o nel lago vicino. Ma lui le disprezzava tutte:
corteggiava una ninfa sola, una ninfa che si diceva fosse
stata partorita sul Palatino da Venilia a Giano, il dio bifronte.
Non appena fu in età da marito, la fanciulla
andò in sposa al laurentino Pico, preferito fra tutti.
Di rara bellezza, ma ancor più rara per l’arte per l’abilità nel canto,
ella fu chiamata Canente: con il suo canto riusciva a commuovere
le selve e i sassi, ad ammansire le belve, riusciva a frenare
le correnti dei fiumi, a trattenere nel volo gli uccelli.
Un giorno, mentre lei cantava con la sua dolce voce di donna,
Pico uscì di casa per andare nelle campagne di Laurento
a caccia di cinghiali; in groppa ad un focoso cavallo,
stringeva nella sinistra due giavellotti e indosso aveva
un mantello purpureo fermato da una fulgente borchia d’oro.
In quello stesso bosco si era recata anche la figlia del Sole,
lasciando i campi che sono detti Circei dal suo nome,
per raccogliere erbe rare su quei fiorenti colli.
Quando, nascosta in una macchia, vide il giovane Pico,
rimase di sasso: le caddero di mano le erbe che aveva colto
e si sentì percorrere da un fuoco in tutte le sue vene.
Come si riebbe da quel violento turbamento, fu sul punto
di svelare il suo desiderio; ma la corsa del cavallo
e la scorta stretta intorno a lui le impedirono d’avvicinarsi.
‘Non mi sfuggirai,’ proruppe, ‘se anche ti rapisse il vento,
(se mi conosco, se non è del tutto svanito il potere
delle mie erbe e le mie formule non mi tradiscono)’.
Detto questo, evocò il fantasma senza corpo di un cinghiale
e lo fece correre davanti agli occhi del re,
fingendo che andasse a rintanarsi in un bosco fitto d’alberi,
dove la vegetazione è più folta e un cavallo non può addentrarsi.
Subito Pico ignaro si lanciò all’inseguimento di una preda
fantasma, smontò con un balzo dalla groppa sudata del cavallo
e, inseguendo una chimera, si inoltrò a piedi nel cuore del bosco.
Circe recitava preghiere, pronunciava parole infernali,
supplicava dèi ignoti con una nenia misteriosa,
che usava per annebbiare il volto niveo della luna e stendere
una coltre di nuvole davanti a quello di suo padre.
Anche questa volta a quella nenia il cielo si oscurò,
la terra esalò nebbie e i compagni di Pico si persero
in un intrico di sentieri, finché nessuno scortò più il re.
Trovato il luogo e il momento adatto Circe disse: ‘Per questi tuoi occhi,
che hanno ammaliato i miei, per la tua bellezza, delizia mia,
che mi spinge a supplicarti anche se sono una dea, prendi a cuore
la mia passione e accetta come suocero il Sole, che tutto penetra
con lo sguardo: non disprezzare, ingrato, Circe, figlia del Titano!’.
Ma lui, sprezzante, respinse lei e le sue preghiere:
‘Chiunque tu sia, non sono tuo. Un’altra, sì, un’altra mi lega a sé
e prego il cielo che mi leghi per quanto è lunga la vita!
Finché il destino mi conserverà la figlia di Giano, Canente,
mai violerò per un altro amore il patto che mi lega a lei’.
Dopo avere invano tentato e ritentato di commuoverlo,
Circe esclamò: ‘Me la pagherai, non rivedrai mai più Canente;
imparerai con i fatti di cosa sia capace una donna offesa
nel suo amore; e Circe è donna, innamorata e offesa’.
Due volte allora si girò verso ponente, due volte verso levante;
tre volte lo toccò con la verga e tre volte recitò una formula.
Il giovane fuggì, ma con stupore si accorse di correre
più veloce del solito; si vide addosso delle penne
e, sdegnato di dover vivere d’un tratto nei boschi del Lazio
(mutato in uccello), trafiggeva le querce selvatiche
con il duro becco; furioso, infliggeva ferite lungo i rami.
Le penne assunsero il colore purpureo del mantello;
la borchia d’oro, che prima fermava la sua veste,
diventò una piuma e il collo si cingeva di riflessi d’oro;
di ciò che apparteneva a Pico l’unica cosa che rimase fu il nome.
Intanto i compagni, dopo averlo chiamato a lungo
per la campagna, senza riuscire a trovarlo,
scoprirono Circe (ormai lei aveva attenuato la foschia
lasciando squarciare le nebbie dal vento e dal sole);
la investirono di giuste accuse, reclamavano il loro re e, passando
ai fatti, si accingevano ad assalirla minacciandola con le armi.
Lei allora sparse veleni di morte e succhi malefici,
dall’Èrebo e dal Caos chiamò a raccolta la Notte e gli dei
della Notte, invocò Ecate con lunghe grida selvagge.
Sussultarono (incredibile a dirsi) le foreste,
gemette il suolo, impallidirono gli alberi accanto,
trasudarono i pascoli, madidi di gocce di sangue,
sembrava che le pietre emettessero sordi muggiti,
che latrassero i cani, che il suolo brulicasse di neri
serpenti e che in volo si librassero gli spiriti dei morti.
Inorridito dai prodigi, il gruppo tremava e lei con la bacchetta
magica toccò il loro volto istupidito dal terrore:
a quel tocco i giovani mutarono il loro aspetto in quello mostruoso
di svariati animali: nessuno conservò la propria natura.
Sulle spiagge di Tartesso si spegneva il tramonto del sole:
invano gli occhi e il cuore di Canente avevano atteso il ritorno
del marito. I servitori e la gente, al lume delle torce,
perlustravano in ogni luogo tutte le selve.
E la ninfa non si accontentava di piangere, di strapparsi
i capelli, di percuotersi il petto (ma fece anche tutto ciò);
poi corse fuori e vagò impazzita per le campagne del Lazio.
Per sei notti e per sei giorni il sole tornò a splendere;
fu vista vagare senza dormire e senza cibarsi
per monti e valli, dove la guidava il caso.
L’ultimo a vederla fu il Tevere: stanca per il dolore
ed il cammino, abbandonava le membra lungo la sua riva.
Afflitta, sussurrava tra le lacrime parole con un fil di voce
che, nel dolore, si scioglievano in melodia, come
il funebre canto che il cigno intona in punto di morte.
Poi, struggendosi per lo strazio, sin nell’intimo del suo cuore,
si dissolse e a poco a poco svanì nella leggerezza dell’aria.
Il luogo, però, serba ancora il suo ricordo: le antiche Camene
lo chiamarono per rispetto Canente dal nome della ninfa.
OVIDIO, Metamorfosi, Libro XIV, vv. 320-434
OVIDIO, sempre nelle sue Metamorfosi, narra anche questa bellissima storia sugli amori di Pomona: la dea dei frutti rifiutava ogni contatto amoroso con dèi e semidei dell’altro sesso, sino a quando non venne conquistata dal multiforme ed innamorato Vertumno.
E già a governare il popolo del Palatino vi era Proca.
Sotto il suo regno visse Pomona; nessuna
tra le Amadriadi del Lazio coltivava gli orti come lei,
nessuna era più appassionata per le piante da frutto:
da qui viene il suo nome. Ella non amava boschi o fiumi,
ma la campagna e i rami carichi di frutti maturi.
La sua destra non stringeva un giavellotto, ma una falce ricurva,
con cui sfoltiva la vegetazione lussureggiante e potava i rami
che s’intrecciavano tra di loro; incideva la corteccia per innestarvi
una marza e offrire linfa al tralcio di un’altra pianta.
Non tollerando che soffrissero la sete, irrigava
con rivoli d’acqua le fibre contorte delle avide radici.
Questa era la sua passione, il suo impegno; non bramava l’amore.
Temendo la violenza dei contadini, cingeva i frutteti
ed evitava il contatto con i maschi vietando loro l’ingresso.
Cosa non fecero per possederla i Satiri, i giovani dediti
alle danze, i Pan dalle corna inghirlandate di aghi
di pino, Silvano (sempre più giovanile
dei suoi anni) e quel dio che spaventa i ladruncoli
con la falce e con il pene! Chi la amava più di tutti
era Vertumno, ma senza miglior fortuna.
Quante volte, camuffato da robusto mietitore,
portava spighe in una cesta: era il ritratto preciso del mietitore!
Cingendosi a volte le tempie di fieno fresco,
sembrava che avesse rivoltato l’erba falciata.
A volte nella mano rigida portava un pungolo,
sembrava che avesse appena tolto il giogo agli stanchi giovenchi.
Con una falce in mano era un colono che sfrondava e potava le viti;
con una scala sulle spalle si credeva che andasse a cogliere la frutta;
con la spada era un soldato, con la canna in mano era un pescatore.
Insomma, sotto gli aspetti più diversi, trovava sempre il modo
di godersi lo spettacolo di Pomona e della sua bellezza.
Un giorno poi, avvolto il capo in una cuffia colorata,
con i capelli sulle tempie, appoggiandosi a un bastone,
si camuffò da vecchia e penetrò nelle sue piantagioni;
ammirandone i frutti, esclamò: “Quanto sei brava, Pomona!”.
E alle lodi aggiunse una quantità di baci, come mai
una vera donna anziana avrebbe dato. Poi sedette, tutta curva,
su una zolla, ammirando i rami incurvati dai frutti dell’autunno.
C’era di fronte un olmo avvolto da un rigoglio d’uva luccicante.
Elogiato l’olmo insieme alla vite che l’accompagnava, disse:
“Eppure, se questo tronco se ne stesse lì, senza tralci,
non avrebbe nulla di attraente se non le proprie fronde.
E anche la vite, che si abbandona abbracciata all’olmo,
se non gli fosse unita, giacerebbe per terra, afflosciata.
Ma a te l’esempio di questa pianta non dice nulla;
eviti l’accoppiamento, non ti curi di congiungerti.
Oh, se tu solo lo volessi! Elena non sarebbe stata
corteggiata da spasimanti più numerosi dei tuoi;
neppure colei che scatenò la guerra dei Làpiti
e la moglie del pavido o – se vuoi – coraggioso Ulisse.
E anche ora, ora che fuggi e respingi chi ti vorrebbe:
migliaia di uomini ti bramano; e anche dei, semidei
e tutte le divinità che vivono sui monti Albani.
Ma se vuoi essere saggia, se vuoi maritarti bene e ascoltare
questa vecchia che ti ama più di costoro – e più di quanto
tu creda – non accettare nozze banali e scegli
come compagno di letto Vertumno. Sul suo conto
posso garantirti io: nessuno lo conosce più di quanto
lo conosca io. Non vaga qua e là frivolo per il mondo:
niente mondanità; non fa come tanti che si innamorano
di ogni donna che vedono: tu sarai la sua prima e ultima
fiamma e a te sola dedicherà la sua vita.
Considera poi che è giovane e la natura gli ha donato
la bellezza e l’abilità di trasformarsi in ogni aspetto:
ordinagli l’impossibile, al tuo ordine egli diventerà ciò che vuoi.
E poi non avete gli stessi gusti? Non è lui il primo a prendersi
i frutti che ti stanno a cuore, a stringere lieto in mano i tuoi doni?
Ma lui non desidera i frutti spiccati dall’albero
o le succose verdure che crescono nel tuo giardino:
egli non desidera che te. Abbi pietà del suo fuoco ardente;
ciò che lui implora, fai come se fosse lui stesso per bocca mia a chiederlo.
Non temi il castigo degli dei, di Venere che detesta
gli animi duri, l’ira di Nèmesi che nulla dimentica?
E perché cresca il tuo timore (molte cose la vecchiaia
mi ha permesso di conoscere), ti narrerò un episodio assai noto
in tutta Cipro; credo possa piegarti e renderti più mite.
Ifi, un uomo di umili natali, aveva visto una volta Anassàrete,
una nobile fanciulla dell’antica stirpe di Teucro;
l’aveva vista e in tutte le ossa aveva sentito una vampata.
Dopo aver lottato a lungo, non riuscendo a vincere quella folle
passione col giudizio, andò a supplicare davanti alla sua porta.
E lì, confessato il suo infelice amore alla nutrice,
la scongiurò, per il bene della fanciulla, di non essergli ostile;
oppure, blandendo questo o quello dei numerosi servitori,
si raccomandava angosciato di avere il loro appoggio.
Spesso affidava le sue parole a teneri biglietti,
a volte appendeva alla sua porta ghirlande intrise
con fiumi di lacrime o stendeva il suo corpo delicato
davanti alla soglia, maledicendo con pianti la porta sprangata.
Lei, più spietata del mare che si gonfia al tramonto dei Capretti,
più dura del ferro temprato nelle fucine del Nòrico
e della roccia viva che si radica in terra,
lo disprezzava e lo derideva, aggiungendo perfidamente, alla crudeltà
dei suoi atti, parole arroganti e privandolo d’ogni speranza.
Dopo tanto penare Ifi non resse più al dolore
e davanti alla porta pronunciò queste ultime parole:
“Hai vinto, Anassàrete: smetterò di infastidirti
con i miei lamenti. Prepara in letizia il tuo trionfo,
inneggia alla tua vittoria e incoronati di splendido alloro.
Hai vinto e io muoio senza rimpianti. Gioisci, donna di ferro!
Una volta almeno sarai costretta a lodare una mia azione:
ti faccio cosa gradita e dovrai riconoscermi qualche merito.
Sappi però che la mia passione per te si spegnerà
solo con la morte e sarà per me come se morissi due volte.
Non saranno voci a recarti notizia della mia morte.
Io ti comparirò davanti (non dubitare, potrai vedermi),
perché tu possa saziare i tuoi occhi crudeli con il mio cadavere.
E se è vero che voi numi vedete le vicende dei mortali
ricordatevi di me (la mia lingua non ha più la forza
di pregarvi); fate che per secoli si parli ancora di me:
il tempo che mi avete tolto in vita, datelo al mio ricordo”.
Questo disse e, levando gli occhi in lacrime e le braccia pallide
verso quella porta che tante volte aveva ornato di ghirlande,
nell’atto di fissare un cappio all’architrave, urlò: “È questa,
dimmi, la ghirlanda che ti piace, donna crudele e scellerata?”.
Vi infilò il capo, sempre rivolto verso di lei
e, quando gli si spezzò la gola, penzolò come peso morto.
Urtata dallo scalciare dei piedi, la porta (con cigolii
che parevano d’angoscia e sgomento) si aprì e rivelò
l’accaduto. I servitori levarono un urlo e staccarono il corpo:
troppo tardi; lo riportarono alla casa della madre (il padre era morto).
La madre lo strinse a sé, abbracciò la salma fredda del figliolo
e, dopo aver levato i lamenti che fanno i genitori in lutto,
dopo avere adempiuto ai rituali di tutte le madri in lutto,
guidò piangente il funerale per le vie della città,
portando la salma sul feretro destinato alle fiamme.
Volle il fato che il dolente corteo passasse vicino alla casa
di Anassàrete e che l’eco del pianto giungesse sino alle orecchie
di quella barbara, ormai incalzata dalla vendetta divina.
Turbata, ella mormorò: “Guardiamo questo triste funerale”;
salì in cima alla casa affacciandosi a un’ampia finestra.
Ma non appena scorse Ifi disteso sul feretro,
le si irrigidirono gli occhi, dal corpo velato di pallore
dileguò il tepore del sangue e, quando tentò di ritrarsi,
rimase inchiodata dov’era; quando tentò di girare il viso,
non vi riuscì; a poco a poco quella pietra che da tempo
aveva nel suo duro cuore le invase tutte le membra.
Non mento, credimi: a Salamina esiste ancora la statua
che serba la sua immagine e un tempio dedicato
a Venere lungimirante. Memore di ciò, ninfa mia cara,
ti prego: metti da parte la tua ritrosia e unisciti a chi ti ama.
E io ti auguro che una gelata primaverile non danneggi
i frutti nascenti e che venti impetuosi non strappino i tuoi fiori”.
Dopo aver parlato inutilmente come si addiceva ad una vecchia,
Vertumno riprese l’aspetto giovanile abbandonando
gli abiti senili e apparve a Pomona in tutto il suo splendore:
come quando il disco del sole, squarciando la coltre
delle nubi, senza che nulla lo offuschi, rifulge luminoso.
Si apprestava a prenderla con la forza, ma non fu necessario:
sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta dall’amore.
OVIDIO, Metamorfosi, Libro XIV, vv. 622-771
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