Mito ed epica a Roma – parte IV I sette re di Roma
Parte IV
I sette re di Roma
Romolo
Subito dopo la fondazione della città, Romolo fortificò il Palatino e offrì sacrifici in onore degli dèi secondo il rito albano e quello greco (istituito da Evandro, in onore di Ercole).
Egli convocò tutti i suoi seguaci e diede loro il primo sistema di leggi. Pensando di rendere più solida la sua autorità, egli si decise di circondarsi sempre di un seguito di dodici littori (alcuni ritengono che egli adottò il numero in base a quello dei suoi uccelli augurali; altri invece sostengono che tale uso fu importato dalla confinante Etruria).
La città crebbe in estensione e in fortificazioni; perché l’ampliamento della città non fosse fine a se stesso, Romolo radunò intorno a sé gente senza un passato alle spalle, creando un punto di raccolta per chi intendeva chiedere asilo.
A Roma riparò così una massa eterogenea di individui, senza distinzione tra liberi e schiavi. Romolo elesse quindi cento senatori, perché costituissero la prima assemblea della città: essi furono chiamati patres e i loro discendenti furono i patrizi.
Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione: gli abitanti non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona.
Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare trattati di alleanza e per favorire la celebrazione di matrimoni; nessuno dette tuttavia ascolto all’ambasceria.
Romolo, allora, dissimulando il proprio risentimento, preparò apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e invitò allo spettacolo i popoli vicini. Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città: i Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta.
Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana ad un preciso segnale si mise a correre all’impazzata per rapire le ragazze. I genitori delle fanciulle fuggirono affranti, accusando i Romani di aver violato il patto di ospitalità.
Romolo si recò dalle donne rapite e le rassicurò dicendo che sarebbero diventate le spose dei Romani, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la patria e i figli.
L’ira delle ragazze rapite si placò ben presto. Fu però proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, si presentarono in delegazione dal re Tito Tazio, re dei Sabini, per chiedere vendetta.
Poiché questi indugiava, i Ceninensi invasero da soli il territorio romano. Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, Romolo si schierò con l’esercito e sbaragliò la schiera nemica; quindi si scontrò in duello con il re, lo uccise e ne spogliò il cadavere.
Ricondotto indietro l’esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una barella costruita all’occorrenza, salì sul Campidoglio e, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l’offerta tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del dio:
«Io, Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia».
Questa fu l’origine del primo tempio consacrato a Roma.
Anche gli Antemnati e i Crustumini vennero sconfitti dall’esercito di Romolo; in tutti i paesi sottomessi furono inviati coloni. Dall’altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori e parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L’ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini: e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute fino a quel momento.
“Essi, infatti, non agirono sotto l’impulso del risentimento e dell’ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla guerra: unirono la fraudolenza al sangue freddo.
Spurio Tarpeio era a guardia della cittadella romana; sua figlia [Tarpea], vergine vestale, venne corrotta con dell’oro da Tito Tazio e costretta a fare entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento, la ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali.
Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, per dare l’idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con altro mezzo e per fornire un esempio (in modo che nessun delatore potesse contare sulla parola data).
La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini erano soliti portare al braccio sinistro braccialetti d’oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al braccio sinistro: e che al posto dell’oro promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi.
Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse tradire, la uccisero proprio con il compenso che aveva richiesto”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 11
I Sabini si impossessarono della cittadella. Il giorno dopo, quando l’esercito romano aveva gremito, con il suo schieramento al completo, lo spazio compreso tra il Palatino e il Campidoglio, i Sabini non calarono subito in pianura ma rimasero ad aspettare che l’indignazione e il desiderio di recuperare la rocca spingessero i Romani a risalire la china e ad affrontarli su in alto.
Una volta iniziato lo scontro, i Romani furono sconfitti e andarono a rifugiarsi presso la vecchia porta del Palatino.
“Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera.
Da una parte supplicavano i mariti e dall’altra i padri. Li imploravano di non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri:
«Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od orfane»”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 13
Romani e Sabini stipularono un trattato e non si accordarono esclusivamente sulla pace, ma stabilirono anche l’unione dei due popoli. Associarono i due regni, trasferendo però l’intero potere decisionale a Roma. Tuttavia, per venire in qualche modo incontro ai Sabini, i cittadini romani presero il nome di Quiriti dalla città di Cures.
Nello stesso periodo vennero formate tre centurie di cavalieri: Tities, Ramnes e Luceres. Ramnensi e Tiziensi devono i loro nomi a Romolo e a Tito Tazio. Quanto invece ai Luceri, nome e origine sono poco chiari. Di lì in poi, i due sovrani regnarono non solo in comune, ma anche in perfetto accordo.
Alcuni anni dopo, Tito Tazio andò a Lavinio per un sacrificio solenne, ma fu assassinato in un moto di piazza e Romolo regnò nuovamente da solo.
Romolo dovette affrontare nuove guerre, contro gli abitanti di Fidene e di Veio, uscendone sempre vittorioso.
“Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l’esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all’improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra.
[…]
I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l’imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l’alto dalla tempesta, sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di essere rimasti orfani. Poi, seguendo l’esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, re e padre di Roma.
[…]
Ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l’altra versione, sia per l’ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione.
Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l’astuta trovata di un singolo personaggio. Questi – un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all’assemblea:
«Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l’ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: “Va’ e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo».
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 16
Numa Pompilio
Dopo la morte di Romolo, tra i senatori ebbe luogo una lotta per il potere. Per un anno il Senato preferì governare collegialmente: ma la plebe cominciò a lamentare l’aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano cento.
I senatori decretarono che il popolo avrebbe eletto il re; la nomina sarebbe stata ratificata dal Senato. La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma.
La scelta ricadde su Numa Pompilio, un uomo che godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto più di qualsiasi suo contemporaneo su tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano.
Convocato a Roma, egli ordinò che – così come Romolo aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo solo dopo aver tratto gli auspici – allo stesso modo anche nel suo caso dovevano essere consultati gli dèi. Solo quando apparvero gli auspici divini Numa fu dichiarato re.
Numa dotò la città di Roma di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva); il re sosteneva di avere degli incontri notturni nel bosco delle Camene con la ninfa Egeria e riferì che quest’ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli dèi, nonché a preporre a ciascuno degli officianti.
Per questo motivo, egli fece costruire ai piedi dell’Argileto un santuario in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto il tempio avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni.
Basandosi sul corso della luna, divise l’anno in dodici mesi. Nominò i sacerdoti per i culti di Giove, Marte e Quirino; scelse delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore; nominò pontefice un senatore, Numa Marcio, cui fornì dettagliate istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre. Per l’intera durata del suo regno, consacrò ogni attenzione a mantenere la pace e a tutelare il paese.
Romolo regnò trentasette anni, Numa quarantatré. Roma, tanto in caso di guerra quanto nella normalità della pace, non aveva più problemi di organizzazione interna e di esperienza[1].
Tullo Ostilio
Alla morte di Numa, il popolo elesse re Tullo Ostilio e il senato ratificò l’elezione.
Il nuovo re era molto bellicoso e cercava ovunque pretesti per scatenare conflitti. A causa di alcune razzie di bestiame tra pastori, ben presto egli dichiarò guerra alla città di Alba Longa. Il dittatore di Alba, Mezio Fufezio, propose allora di “stabilire quale dei due popoli governerà sull’altro senza grandi disastri e inutili spargimenti di sangue”.
“Per puro caso in entrambi gli eserciti c’erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi. Ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi: permangono però ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di Orazi e Curiazi; gli storici sono divisi, anche se la maggior parte di essi chiama Romani gli Orazi.
I re proposero ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Non vi fu alcuna obiezione e si stabilirono tempo e luogo dello scontro. In primo luogo, tuttavia, Albani e Romani stipularono un trattato secondo il quale il popolo i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato un potere incondizionato sull’altro.
[…]
Concluso il trattato i gemelli, come era stato convenuto, si armarono di tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni e ricordavano che gli dèi, la patria, i genitori, tutti i concittadini rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia.
I fratelli, pronti allo scontro non solo per il tipo di carattere che avevano ma anche esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzarono nello spazio in mezzo alle due schiere.
Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non per qualche pericolo imminente, ma perché era in ballo la supremazia legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro. Così, sul chi vive e con il fiato sospeso, si concentrarono sulla battaglia.
Venne dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttarono allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli altri si preoccupavano del proprio pericolo, ma pensavano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future della patria.
Al primo contatto, l’urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. Poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano più solo muscoli, spade e scudi branditi nell’aria: cominciò a grondare sangue dalle ferite; due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull’altro, mentre i tre Albani furono soltanto feriti.
A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane – persa ormai ogni speranza – seguivano terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non poteva affrontarli da solo tutti insieme, ma era comunque pronto a dare battaglia. Quindi, per separarne le forze, si mise a correre pensando che lo avrebbero inseguito, ciascuno con la velocità consentita dalle ferite.
Si era già allontanato dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo e che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l’avversario e si preparava al secondo duello.
Allora, con un boato di voci – quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere – e non era tanto lontano – uccise il secondo.
Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno: ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L’uno era illeso, esaltato dal doppio successo, pronto e fresco per un terzo scontro. L’altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e – una volta davanti all’avversario eccitato dalle vittorie – era già vinto: aveva negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento: il Romano gridò esultando: «Ho già offerto due vittime ai Mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra; che Roma possa regnare su Alba».
L’avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo dall’alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un’ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 24-25
Gli eserciti vennero ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio con il suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi. Appena riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del fidanzato, si sciolse i capelli e in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto.
Il suo pianto, proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria, irritò l’animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafisse la ragazza ed esclamò: «Possa così morire ogni romana che piangerà il nemico».
La pace con Alba non durò a lungo; la gente era scontenta perché le sorti del paese erano state affidate a tre soli soldati. Ciò influenzò l’indole volubile del dittatore, che aizzò Fidene e Veio di nuovo contro Roma.
Tullo Ostilio sconfisse duramente l’esercito nemico e si vendicò del traditore Mezio Fufezio, facendolo morire dopo un orribile supplizio[2]. Il re fece poi radere al suolo Alba Longa, risparmiando solo i templi. La popolazione venne trasferita a Roma, sul colle Celio.
Tullo Ostilio dichiarò quindi guerra ai Sabini che, in quel tempo, erano secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. I Romani ebbero la meglio grazie alla forza d’urto della loro fanteria e alla recente immissione di effettivi nella cavalleria.
Dopo la disfatta inflitta ai Sabini, il regno di Tullo e la potenza romana avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, ma trascuravano ormai da tempo i riti in onore dei numi[3]. Non molto tempo dopo, il bellicoso re Tullo fu colpito da una malattia dal lungo decorso; il re si dedicò allora maggiormente alla sfera religiosa, ma ciò non bastò a placare l’ira di Giove il quale incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo. Il glorioso regno di Tullo Ostilio durò trentadue anni.
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