Mito ed epica a Roma – Parte III. La fondazione di Roma
Parte III
La fondazione di Roma
La principale fonte di cui disponiamo sulle leggende riguardanti la fondazione di Roma è sicuramente il celebre Ab Urbe Condita di Tito LIVIO, il maggiore storico dell’Età Augustea: alla nascita della città e a i primi sette mitici sovrani è dedicato il Libro I della sua monumentale opera.
LIVIO parte, come già VIRGILIO, dalla caduta di Troia, ma riferisce una tradizione leggermente diversa da quella riportata dall’autore dell’Eneide. Secondo lo storico, ai superstiti troiani fu riservato un trattamento molto duro; gli Achei si astennero dall’applicare rigorosamente il codice militare di guerra solo nei confronti di due di essi, Enea e Antenore, perché essi erano sempre stati sostenitori della pace e della restituzione di Elena.
“Destinato per volontà del fato a dare il via ad eventi di ben altra portata, [Enea] arrivò in un primo tempo in Macedonia, quindi fu spinto verso la Sicilia sempre alla ricerca di una sede definitiva e dalla Sicilia approdò con la flotta nel territorio di Laurento (anche a questo luogo viene dato il nome di Troia).
I Troiani sbarcarono in quel punto: privi com’erano, dopo il loro interminabile peregrinare, di tutto tranne che di armi e di navi, si misero a fare razzie nelle campagne; per questo motivo il re Latino e gli Aborigeni che allora regnavano su quelle terre accorsero armati dalle città e dai campi per respingere l’attacco degli stranieri.
Del fatto si tramandano due versioni. Alcuni sostengono che Latino, vinto in battaglia, fece pace con Enea e strinse con lui legami di parentela. Altri, invece, raccontano che, una volta schieratisi gli eserciti in ordine di battaglia, prima che fosse dato il segnale di inizio, Latino avanzò tra i soldati delle prime file e invitò ad un colloquio il comandante degli stranieri. Quindi si informò sulla loro provenienza […]
Pieno di ammirazione per la nobiltà d’animo di quel popolo e dell’uomo di fronte a lui e per la loro predisposizione tanto alla guerra che alla pace, gli tese la mano destra e si impegnò per un’amicizia futura tra i due popoli. I due comandanti stipularono allora un trattato di alleanza, mentre i due eserciti si scambiarono il saluto. Enea fu ospitato presso Latino: questi consolidò l’alleanza dandogli in moglie sua figlia.
Questo accordo rinforzò la speranza dei Troiani di vedere finite una volta per tutte le loro infinite peregrinazioni grazie a una sede stabile e definitiva. Fondarono una città, che Enea chiamò Lavinio dal nome della moglie. Dopo poco tempo, dal nuovo matrimonio nacque anche un figlio maschio cui i genitori diedero il nome di Ascanio”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 1
In séguito, gli Aborigeni e i Troiani dovettero affrontare insieme una guerra contro il re dei Rutuli Turno, cui era stata promessa in sposa Lavinia prima dell’arrivo di Enea. All’esito della guerra i Rutuli furono vinti, ma gli Aborigeni persero il loro re Latino.
Turno e i Rutuli ricorsero allora all’alleanza con gli Etruschi e con il loro re Mesenzio, signore dell’allora ricca città di Cere. Enea, spaventato di fronte alla prospettiva di una guerra simile, per riunire Troiani e Aborigeni sotto la stessa autorità e sotto lo stesso nome decise di chiamare “Latini” il nuovo popolo;
nonostante l’Etruria fosse così potente da raggiungere con la sua fama non solo la terra ma anche il mare, i Latini ebbero la meglio, ma nello scontro Enea perse la vita. Un trattato di pace stabilì che il confine tra Etruschi e Latini sarebbe stato il fiume Albula (il Tevere).
Ascanio, il secondo figlio di Enea, dopo aver passato la giovinezza sotto la tutela della madre Lavinia, una volta giunto alla maggiore età decise di fondare una nuova città sotto il monte Albano, cui venne dato il nome di Alba Longa; LIVIO riferisce tuttavia che l’identità dell’effettivo fondatore di Alba fosse controversa sin dall’antichità (“Non mi metterò a discutere – e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa così antica? – se sia stato proprio questo Ascanio [a fondare la città] o uno più vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga – quello stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome”). Certo è che a regnare sulla nuova città furono i discendenti del figlio di Lavinia.
Alla morte di Ascanio, su Alba Longa regnò suo figlio Silvio; quindi sul trono salirono Enea Silvio, Alba, Ati, Capi, Capeto e Tiberino, che annegò nel fiume Albula dandogli il proprio nome. Poi la città venne governata da Agrippa, da Romolo Silvio – che perì colpito da un fulmine – e da Aventino, che venne sepolto in quel colle che ancora oggi porta il suo nome; in seguito regnò Proca. Ecco la genealogia dei re nelle parole di LIVIO.
“Quindi regnò Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli generò Enea Silvio che a sua volta mise al mondo Latino Silvio (questi fondò alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi); in séguito il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa.
Da Latino nacque Alba, da Alba Atys, da Atys Capys, da Capys Capeto e da Capeto Tiberino il quale, essendo annegato durante l’attraversamento del fiume Albula, diede ad esso il celebre nome passato ai posteri.
Quindi regnò il figlio di Tiberino, Agrippa, il quale trasmise il potere al figlio Romolo Silvio. Questi, colpito da un fulmine, tramandò di mano in mano il regno ad Aventino il quale fu sepolto sul colle che oggi è parte di Roma e che porta il suo nome. Quindi regnò Proca”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 3
Proca generò due figli maschi: Numitore e Amulio. Secondo le volontà paterne, il trono sarebbe dovuto passare a Numitore; riferisce però Tito Livio, cui lasciamo volentieri la parola, che “la violenza valse più della volontà del padre o della deferenza dovuta all’età. Esiliato il fratello prese il potere Amulio, che aggiunse delitto a delitto: egli eliminò la discendenza maschile di Numitore e fece vestale la di lui figlia Rea Silvia; con la scusa dell’onore, le venne tolta la speranza di generare figli, con il vincolo di una verginità eterna[1]”.
La vestale Rea Silvia, tuttavia, diede alla luce due figli; forse perché era più decoroso ritenere un dio autore della colpa, la paternità dei gemelli venne attribuita al dio Marte.
Il crudele Amulio, a quel punto, ordinò che la sacerdotessa venisse rinchiusa in prigione e che i figli fossero gettati nelle acque del fiume Tevere; egli affidò quindi i bambini a due schiavi, con l’ordine di metterli in una cesta, portarli nella parte più alta del fiume e affidarli alla corrente.
A causa delle recenti piogge, il fiume era straripato ed aveva allagato i campi circostanti, ragion per cui i due schiavi abbandonarono i neonati in uno degli stagni che si erano formati, confidando che la corrente li trascinasse facendoli annegare. Il caso volle, tuttavia, che la cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenasse in una pozza d’acqua sulla riva, ai piedi di un albero di fico detto Ruminale[2].
Si racconta, a questo punto, che una lupa assetata, scesa dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli. Di lì a poco un pastore di nome Faustolo scorse i due fanciulli, ne ebbe pietà e li porto con sé, facendoli allevare dalla moglie Acca Larenzia[3]. I bambini crebbero così nella capanna di Faustolo e di Acca Larenzia e vennero chiamati Romolo e Remo. Lasciamo nuovamente la parola a LIVIO.
“La Vestale, vittima di uno stupro, diede alla luce due gemelli. Sia che fosse in buona fede, sia che intendesse rendere meno turpe la propria colpa attribuendone la responsabilità a un dio, dichiarò che Marte era il padre dei suoi figli.
Ma né gli dèi né gli uomini riuscirono a sottrarre lei e i figli alla crudeltà del re: questi diede ordine di arrestare e incatenare la sacerdotessa e di buttare i due neonati nella corrente del fiume. Per una qualche fortuita volontà divina, il Tevere, straripato in masse d’acqua stagnante, non era praticabile in nessun punto del suo letto normale, ma – a chi li portava – faceva sperare che i due neonati venissero ugualmente sommersi dall’acqua nonostante questa fosse poco impetuosa.
Così, nella convinzione di aver eseguito l’ordine del re, [i servi di Amulio] esposero i bambini nel punto più vicino dello straripamento, là dove ora c’è il fico Ruminale (che, stando alla leggenda, un tempo si chiamava Romulare). Quei luoghi erano allora completamente deserti. Tutt’ora è viva la tradizione orale secondo la quale, quando l’acqua bassa lasciò in secco la cesta galleggiante nella quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa assetata proveniente dai monti dei dintorni deviò la sua corsa in direzione del loro vagito e, accucciatasi, offrì loro il suo latte con una tale dolcezza che il pastore-capo del gregge reale – pare si chiamasse Faustolo – la trovò intenta a leccare i due neonati.
Faustolo poi, tornato alle stalle, li diede alla moglie Larenzia affinché li allevasse. C’è anche chi crede che questa Larenzia fosse chiamata lupa dai pastori perché si prostituiva: da ciò lo spunto per questo racconto prodigioso.
Così nati e cresciuti, non appena divennero grandi, cominciarono ad andare a caccia in giro per i boschi senza rammollirsi nelle stalle e dietro il gregge. Irrobustitisi così nel corpo e nello spirito, non affrontavano soltanto le bestie feroci, ma assalivano i banditi carichi di bottino: dividevano tra i pastori il frutto delle rapine e condividevano con loro svaghi e lavoro, mentre il numero dei giovani aumentava giorno dopo giorno”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 4
Si racconta che i due fratelli un giorno furono assaliti dai predoni, adirati per la perdita dei bottini più volte perduti. Romolo si difese energicamente, ma Remo fu catturato e condotto di fronte al re Amulio, con l’accusa di aver compiuto numerose scorribande nelle terre di Numitore.
Remo venne quindi consegnato a Numitore perché lo punisse; questi, mentre teneva in prigionia il giovane, venne a sapere che aveva un fratello gemello; comparando la loro età ed il carattere per nulla sottomesso, fu toccato nell’anima e capì di trovarsi di fronte al nipote.
Nel frattempo, Faustolo (che aveva intuito da tempo che i gemelli da lui salvati fossero i discendenti del re, esposti alle insidie del fiume per ordine di Amulio), si era deciso a raccontare a Romolo le sue vere origini[4].
Romolo radunò, pertanto, un gruppo consistente di compagni e si diresse da Amulio; raggiunto da Remo, che era stato liberato dal nonno e portava anche lui con sé una schiera di seguaci, i due sobillarono le genti contro il crudele prozio. L’usurpatore venne quindi ucciso e Numitore ritornò re di Alba Longa.
Romolo e Remo furono quindi presi dal desiderio di fondare una città nei luoghi in cui erano stati esposti e poi cresciuti. Siccome i due erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio selettivo, Romolo e Remo ritennero che toccasse agli dei del luogo indicare, attraverso gli auspici, chi dovesse dare il nome alla nuova città e regnarvi dopo la fondazione. Così, per interpretare gli auspici divini, Romolo scelse il colle Palatino e Remo l’Aventino.
La tradizione riferisce che, per primo, fu Remo a scorgere sei avvoltoi (segno benaugurale), mentre Romolo ne scorse subito dopo un numero doppio.
A quel punto, la folla si mise ad acclamare come sovrano ciascuno dei due gemelli: alcuni ritenevano più importante la priorità nel tempo del presagio, mentre altri ritenevano più rilevante il numero degli uccelli intravisti; ne nacque una zuffa, al termine della quale prevalsero i seguaci di Romolo.
Mentre Romolo stava tracciando il solco delle future mura della città, tuttavia, Remo ne scavalcò i confini in segno di scherno. Romolo, preso dall’ira, uccise il fratello. Egli diede quindi il suo nome (Roma) alla città appena fondata: era il giorno 21 aprile del 753 a.C.
“Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti.
Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore”.
LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 7
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