Mito ed epica a Roma – Il poema di Roma: l’Eneide 2di4
Con il padre sulle spalle e seguito dal figlio Julo, l’eroe troiano riuscì a riparare nel tempio di Cerere e a scampare così all’eccidio; sua moglie Creusa, tuttavia, non riuscì a stare dietro al marito e non sopravvisse al sacco di Troia.
Il giorno dopo, Enea ed i Teucri sopravvissuti all’orribile massacro costruirono delle navi e si misero in mare, alla ricerca di una nuova patria; il viaggio li condusse dapprima in Tracia, ma solo per incontrare il fantasma dello sventurato Polidoro (ucciso con l’inganno dal re Polinestore).
C’è in distanza un paese di grandi pianure
sacro a Marte, abitato dai Traci, dominato
un tempo dal feroce Licurgo. Quel paese,
finché la Fortuna fu amica, era legato a Troia
da antica ospitalità e da sacra alleanza.
Qui dunque vado a sbarcare; sul lido ricurvo
spinto da avverso destino edifico le prime mura
di una città che chiamo Eneade, dal mio nome.
Offrivo un sacrificio agli Dei protettori
dell’opera intrapresa e a mia madre, Venere,
immolando uno splendido toro al re dei Celesti
sull’alto lido. C’era per caso, lì vicino,
un monticello coperto in cima di cornioli
e di una macchia fitta di piantine di mirto.
Mi avvicinai ad esso pensando di strapparne
qualcuna dalla terra e coprire gli altari
coi loro rami frondosi: ma mi colpì un tremendo
miracolo, incredibile a dirsi. Appena sradico
dal suolo la prima pianta ne esce un sangue nero,
macchia le zolle. Un freddo orrore mi scuote le membra,
per la paura il mio sangue si rapprende, gelato.
E mi accanisco di nuovo a svellere un altro
flessibile stelo, cercando le cause nascoste
di quell’orribile sangue; e di nuovo le gocce
colano e colano nere dalla rotta corteccia.
Pensando a tante cose supplicavo le Ninfe
agresti e il padre Marte, protettore dei campi
getici, perché il prodigio non fosse infausto, non fosse
annunzio di sventure. Ma mentre assalgo un terzo
virgulto, con sforzo maggiore, e lotto in ginocchio
contro la sabbia tenace, odo dal monticello
un gemito lagrimoso, una voce che dice:
“Perché mi strazi, Enea? Pietà di chi è sepolto;
non macchiarti le mani pietose. Non sono
straniero, ma Troiano, e il sangue che vedi colare
non esce dal legno. Ah! fuggi questa terra crudele,
quest’avido lido! Io sono Polidoro: una ferrea
messe di dardi qui m’ha trafitto ed è cresciuta
con tenaci radici e sottili polloni”.
Preso da un dubbio pauroso stupii, mi si rizzarono
in testa tutti i capelli, mi si strozzò la voce.
Il povero Priamo, un tempo, non sperando ormai più
nella vittoria troiana e vedendo le mura
assediate dai Greci, aveva mandato suo figlio
Polidoro con molta quantità di danaro
al re di Tracia, perché fosse allevato in pace.
Appena la potenza dei Teucri fu schiantata,
appena la Fortuna li abbandonò, costui
si schierò con le armi vittoriose, seguendo
la parte di Agamennone: disprezzò ogni giustizia,
uccise Polidoro, s’impadronì dell’oro
con la forza. A che cosa non spingi i cuori umani,
febbre dell’oro, maledetta! Appena mi riebbi
dallo spavento narrai quel prodigio divino
a mio padre, anzitutto, e agli altri capitani
chiedendone il parere. La volontà di tutti
fu che si andasse via da quella terra infame
e spergiura, si dessero le vele al vento. Allora
facciamo il funerale a Polidoro. Eleviamo
un grande monte di terra per tomba: tristi altari
adorni di nero cipresso e di scuri drappeggi
sorgono per i Mani, ed intorno agli altari
stanno le donne d’Ilio con le chiome disciolte,
come si usa. Versiamo tazze spumanti di latte
e coppe di sangue, chiudiamo l’anima nel sepolcro,
per l’ultima volta a gran voce le diamo l’addio supremo.
VIRGILIO, Eneide, Libro III, vv. 13-68
(traduzione di C. VIVALDI)
I Troiani giunsero poi nell’isola di Delo, dove l’oracolo di Apollo sentenziò:
Su, cercate l’antica madre.
Qui la stirpe di Enea e tutti i suoi discendenti
domineranno su tutte le terre e sui mari.
(Antiquam exquirite matrem.
Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris
et nati natorum et qui nascentur ab illis)
VIRGILIO, Eneide, Libro III, vv. 96-98
Anchise ritenne che la terra d’origine dei Troiani fosse Creta (la patria di Teucro); ma quando Enea ed i suoi compagni raggiunsero l’isola, i raccolti si seccarono e una pestilenza colpì tutti gli abitanti; gli dei apparvero in sogno al figlio di Venere e gli rivelarono che la loro vera patria era l’Italia (Dardano era infatti originario della penisola italica).
Ancora una volta i Teucri ripresero il mare e approdarono su un isola dell’arcipelago delle Strofadi, dove furono assaliti dalle Arpie, mostri alati con viso di donna dal corpo di uccello: esse cacciarono i Troiani pronunciando anche sinistre maledizioni nei confronti di Enea e dei suoi compagni.
Solo Celeno, fermandosi su un’altissima rupe,
funesta profetessa, ci gridò: “Discendenti
dell’eroe Laomedonte, vi preparate forse
– dopo averci ammazzato tanti bovi e giovenchi –
a dichiararci guerra? E volete scacciare
dal patrio regno le Arpie che nulla v’han fatto di male?
Imprimetevi in cuore quanto vi dico: io,
la maggiore di tutte le Furie, vi rivelo
ciò che l’Onnipotente predisse ad Apollo, ed Apollo
predisse a me. Andate pure in Italia, in favore
di vento ci arriverete, potrete attingere il porto;
ma non cingerete di mura la città promessa
prima che una feroce fame – giusto castigo
per averci aggredito – non v’abbia costretto
a rodere coi denti persino le mense”.
Poi levandosi al volo si rifugiò nel bosco.
VIRGILIO, Eneide, Libro III, vv. 245-258
(traduzione di C. VIVALDI)
Il figlio di Anchise fece quindi rotta verso nord e giunse in Epiro, dove incontrò Eleno e Andromaca, che avevano fondato una nuova Troia a Butroto; i compagni di Enea vennero accolti con gioia. Eleno profetizzò ad Enea che avrebbe dovuto fondare la sua città sulle rive di un fiume della costa più remota d’Italia; egli diede al suo conterraneo dei preziosi consigli su come evitare i pericolosi scogli di Scilla e di Cariddi, raccomandandogli di consultare la Sibilla Cumana, una sacerdotessa di Apollo che viveva in una grotta.
Il segno sarà questo, tienilo bene a mente:
quando tu preoccupato per le molte fatiche
in riva a un fiume remoto scoprirai sotto un elce
una candida scrofa stanca del parto, distesa
per terra vicino all’acqua, enorme, con ben trenta
candidi porcellini intorno alle mammelle,
allora avrai trovato il luogo della città,
e lì sarà il riposo sicuro dei tuoi travagli.
Non devi spaventarti di Celeno, del triste
augurio delle mense: i Fati troveranno
il modo di salvarti, Febo ti aiuterà.
VIRGILIO, Eneide, Libro III, vv. 388-395
(traduzione di C. VIVALDI)
Dopo essersi rimessi in mare, la flotta dei Troiani giunse in Sicilia, dove i compagni di Enea scamparono a stento ad un attacco del ciclope Polifemo ma riuscirono a salvare Achemenide (un compagno di Ulisse, abbandonato per errore dai suoi compagni), che venne accolto dai Teucri come un fratello. Una volta sbarcato nell’isola, Enea dovette soffrire l’ennesimo lutto: anche se serenamente, si spense infatti il vecchio Anchise.
“Dopo aver superato
tante fatiche, tante burrasche del mare,
ahimè perdo mio padre, unico conforto
d’ogni sventura, d’ogni preoccupazione. Qui
tu mi abbandoni stanco, ottimo padre, ahimè
strappato invano a tanti ed estremi pericoli!
E l’indovino Eléno, che pure mi avvertì
di molte cose tremende, non mi aveva predetto
questo lutto; nemmeno la crudele Celeno
me lo aveva annunziato! Fu l’ultima mia prova,
la meta delle lunghe strade percorse. Un Dio
in seguito mi spinse fino alle vostre rive”.
Tra l’attenzione di tutti il padre Enea così
narrava i suoi viaggi, ripercorrendo i destini
fissati dagli Dei. Poi finalmente tacque,
pose fine al suo dire, stanco si riposò.
VIRGILIO, Eneide, Libro III, vv. 708-718
(traduzione di C. VIVALDI)
Tra Enea e la regina della nuova città nacque subito un sentimento profondo, che si trasformò ben presto in amore; il figlio di Anchise, rasserenato da quei momenti di felicità dopo anni di sofferenze (tra guerre e peregrinazioni), meditava di stabilirsi a Cartagine dove Fenici e Troiani avrebbero potuto fondare un nuovo popolo. Mirabili i versi di VIRGILIO che descrivono l’innamoramento di Didone:
Ma la regina, da tempo ferita da grave tormento,
dentro le vene alimenta la piaga e arde d’un cieco fuoco.
Torna la molta virtù dell’eroe nell’animo, il molto
pregio di stirpe, confitti nel petto stan volto e parole,
né il tormento concede alle membra il riposo che placa.
Con il seguente fulgore di Febo irradiava le terre
e scostava, l’Aurora, l’umida ombra dal cielo,
quando così, male in sé, alla concorde sorella si volge:
«Anna, sorella, che sogni mi tengono in ansia e terrore!
Questo ospite giunto da noi com’è straordinario,
come si porge nel volto, che forza nel petto e negli omeri!
Credo davvero, e non sbaglio, che sia di una stirpe divina.
Animi ignobili accusa il timore. E lui, ah, da quali
fati è stato vessato! Che guerre affrontate cantava!
Se non avessi nell’animo salda e incrollabile scelta
di non congiungermi più con patto di nozze ad alcuno,
dopo che il mio primo amore, morendo, mi illuse e deluse;
se non avessi ormai in odio le stanze e le torce nuziali
forse a quest’unica colpa avrei potuto soccombere.
Lo confesso, Anna, infatti, dal fato del misero sposo
mio Sichèo, e dalla strage fraterna che asperse i Penàti,
lui solo i sensi ha piegato, e ha colpito, sì che ora vacilla,
l’animo. Riconosco l’antica fiamma e i suoi segni.
Ma preferisco mi si apra profonda, piuttosto, la terra
o il padre onnipotente mi scagli col fulmine alle ombre,
pallide ombre nell’Èrebo, e ad una notte d’abisso,
prima che te, Pudore, io vìoli, o i tuoi vincoli sciolga.
Quello, colui che per primo a sé mi congiunse, i miei amori
si è rapito: lui li abbia con sé, e nel sepolcro li serbi!».
Detto che ebbe, affiorate le lacrime, ne riempì il seno.
VIRGILIO, Eneide, Libro IV, vv. 1-30
(traduzione di A. FO)
Gli dei avevano tuttavia in serbo un altro destino per Enea: il padre dei numi dell’Olimpo inviò così Mercurio, il suo messaggero, a ricordargli i suoi doveri; il figlio di Anchise, rassegnato, si apprestò quindi a partire con il suo seguito verso l’Italia. La regina Didone, quando scoprì che la flotta dei Troiani stava prendendo il largo, inveì contro il suo amante.
E già la prima Aurora lasciando il giaciglio di croco
di Titone spruzzava le terre di nuova luce.
La regina dalle vedette come vide biancheggiare la prima
luce e la flotta procedere a vele spiegate,
e s’accorse dei lidi e dei porti vuoti senza un rematore,
percuotendo il bel petto con la mano e tre e quattro volte
e sciolta nelle biondeggianti chiome: “Oh Giove. Andrà
costui, dice, e lo straniero si befferà dei nostri regni?
Gli altri non prenderanno le armi e inseguiranno da tutta la città
e strapperanno le barche dagli arsenali? Andate,
rapidi portate fiamme, date armi, spingete i remi.
Che dico? O dove sono? Che pazzia cambia la mente?
Infelice Didone, ora i fatti sacrileghi ti colpiscono?
Allora andò bene, quando davi lo scettro. Ecco destra e lealtà,
quello che dicono portare con sé i sacri Penati,
che dicono aver sostenuto sulle
spalle il padre logorato dall’età.
Non ho potuto strappare il corpo maciullato e spargerlo
sulle onde? Non sbranare i compagni, lo stesso Ascanio
con la spada e metterlo da mangiare sulle mense paterne?
Davvero era dubbia la sorte della battaglia. Lo fosse stata:
chi temetti, destinata a morire? Avrei portato le fiamme
nell’accampamento, riempito di
fuochi le tolde, estinto
il figlio ed il padre con la stirpe, e posto me stessa su quelli.
Sole, che illumini di raggi tutte le opere delle terre,
tu pure mediatrice e consapevole di questi affanni,
Ecate ululata nelle città nei trivi notturni
e Dire vendicatrici e Dei della morente Elissa,
accettate questo, volgete ai malvagi la giusta vendetta
e ascoltate le nostre preghiere. Se è necessario che l’infame
persona tocchi i porti e navighi su terre
e così chiedono i fati di Giove, questo traguardo è fisso,
però oppresso dalla guerra d’un popolo fiero e dalle armi,
esule dai territori, strappato dall’abbraccio di Iulo
implori aiuto e veda le indegne morti dei suoi;
né, consegnatosi sotto leggi di iniqua pace, goda
del regno o della luce desiderata, ma cada
prima del tempo ed insepolto in mezzo alla sabbia.
Questo prego, verso questa ultima frase col sangue.
Poi, voi, o Tirii, trattate con odio la stirpe e tutto
il popolo futuro, ed inviate alla nostra cenere questi
regali. Per i popoli non ci siano alcun amore e patti.
Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa
sì, insegui i coloni dardanii col ferro e col fuoco,
ora, in futuro, ed ovunque nel tempo si presenteranno le forze.
Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti,
armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti”.
VIRGILIO, Eneide, Libro IV, vv. 584-629
(traduzione a cura di S. CONTE)
Didone preparò quindi una pira funebre; invocando gli dei, ella maledisse Enea e i suoi discendenti, presagendo odio eterno tra la sua stirpe e quella dei Troiani; quindi, si trafisse con la spada, ponendo così fine ad una vita funestata da tanti dolori. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vide il fumo della pira e ne comprese il significato: pur con la morte nel cuore, egli aveva deciso comunque di seguire il richiamo del destino.
Allora Didone, tremante, esasperata
per il suo scellerato disegno, volgendo
attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse
di livide macchie e pallida della prossima morte,
irrompe nelle stanze interne della casa
e sale furibonda l’alto rogo, sguaina
la spada dardiana, regalo non chiesto per simile scopo.
Dopo aver guardato le vesti lasciate da Enea
e il noto letto, dopo aver indugiato un poco
in lagrime di pensieri, si gettò su quel letto
lunga e distesa e disse poche, estreme parole:
“O reliquie, che foste così dolci finché
lo permettevano i Fati e un Dio: ora accogliete
quest’anima, scioglietemi da tutti i miei tormenti.
Vissi, ho compiuto il cammino concessomi dalla Fortuna,
e adesso un’immagine grande di me se ne andrà sottoterra.
Fondai una grande città, vidi sorgerne alte le mura,
vendicai il marito, inflissi al fratello nemico
giuste pene: felice, ahi, troppo felice se solo
non fossero mai arrivate ai nostri nidi sabbiosi
navi dardiane!”. Disse e premé la bocca sul letto.
“Moriamo senza vendetta – riprese. – Ma moriamo.
Così, anche così giova scendere alle Ombre.
Il crudele Troiano vedrà dall’alto del mare
il fuoco e trarrà funesti presagi dalla mia morte”.
Tra queste parole le ancelle la vedono abbandonarsi
sul ferro e vedon la lama spumante di sangue,
vedono sporche di sangue le mani. Un grido si leva
per tutta la reggia, la fama s’avventa,
infuria per la città, le case fremano d’urla,
di lamenti e di gemiti di donne, l’aria suona
di grandi pianti, come se Cartagine o Tiro
invase dai nemici crollassero, e rabbiose
le fiamme s’attorcessero tra le case ed i templi.
La sorella sentì la notizia e atterrita
con una corsa affannosa, graffiandosi la faccia
con le unghie, picchiandosi i pugni contro il petto,
attraversa la folla chiamando la morente
per nome: “Sorella, per questo mi volevi? Che inganno
doloroso! Per questo che volevi il rogo, i fuochi
e gli altari? Che cosa dovrò pianger di più:
la tua morte o questo disperato esser sola
nella morte? Sorella, perché non m’hai voluta
tua compagna morendo? M’avessi tu chiamata
ad una stessa morte: un egual dolore
ed una stessa ora ci avrebbe colte entrambe.
Ed io con queste mani eressi il rogo, invocai
gli Dei patrii, per essere da te lontana nell’ora
della morte! Sorella, hai ucciso te e me
e il popolo e i padri sidoni e tutta la tua città!
Ma adesso lasciatemi lavare la ferita,
lasciatemi raccogliere con le labbra l’estremo
suo alito, se ancora le aleggia intorno un soffio
di vita!”. Precipitosa era salita sugli alti
gradini del rogo e abbracciata la sorella morente
la stringeva gemendo al seno e con la veste
tentava di asciugare il nero sangue. Didone
mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano
a stare aperti sviene; la ferita profonda
nel petto stride. Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,
tre volte ricadde sul letto: nell’alto cielo cercò
con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette.
Allora Giunone, pietosa del suo lungo dolore
e della straziante agonia, mandò giù dall’Olimpo
Iride, che liberasse l’anima che lottava
invano per svincolarsi dai legami del corpo.
Poiché lei non moriva di giusta morte, decisa
dal Fato, ma anzitempo in un accesso d’ira,
Proserpina non le aveva ancora strappato di testa
il biondo fatale capello e non aveva ancora
consacrato il suo capo all’Inferno e allo Stige.
La rugiadosa Iride con le sue penne di croco
brillanti contro sole di mille vari colori
volò attraverso il cielo e si fermò su di lei.
“Questo capello – disse – porto consacrato a Dite
per ordine divino, e ti sciolgo da queste
tue membra”. Con la destra strappò il capello: insieme
si spense il calore nel corpo, la vita svanì nel vento.
VIRGILIO, Eneide, Libro IV, vv. 642-705
(traduzione di C. VIVALDI)
I Troiani, quindi, sbarcarono nuovamente in Sicilia, dove Enea organizzò dei giochi funebri in memoria del padre Anchise.
Il giorno atteso giunse: i cavalli di Fetonte
portarono nel cielo sereno la nona Aurora;
dappertutto veniva gente, attratta dal nome
e dalla fama di Aceste[1]: tutti riempivano il lido,
allegri, per vedere gli Eneadi e per gareggiare.
Dapprima si mettono in mostra i doni in mezzo al circo:
tripodi sacri, verdi corone e palme, premio
per i vincitori; poi armi, vesti ornate di porpora,
talenti d’oro e d’argento; dall’alta tribuna
una squillante tromba diede l’inizio ai giochi.
[…]
Il pio Enea s’incamminò
verso una pianura erbosa circondata da boschi,
da ogni parte vi erano colli ondulati; una specie di circo
in mezzo alla valle. Qui giunto, l’eroe
si sedette con molte migliaia di spettatori
su una tribuna ed invitò chi voleva gareggiare nella corsa.
Da ogni parte si adunarono Troiani e Siculi,
Eurialo e Niso per primi: Eurialo, splendente
di bellezza e di verde gioventù, e Niso (amico
fedele di Eurialo); dopo di loro veniva
il regio Diore, della nobile stirpe di Priamo;
con lui Salio e Patrone, l’uno acarnese,
l’altro di stirpe arcade e di famiglia tegea;
poi Elimo e Panope, giovani siculi,
uomini avvezzi alle selve, compagni del vecchio Aceste;
ed altri ancora che l’oscura fama nasconde.
In mezzo a loro parlò Enea: “State a sentire
lietamente, nessuno se ne andrà via di qui
senza regali. Darò due giavellotti di Cnosso,
di ferro lucido, a tutti e anche una bipenne argentata.
Ma i primi tre vinceranno anche altri premi
e incoroneranno le tempie di scintillante ulivo.
Il primo avrà un cavallo ornato di Falere;
il secondo un turcasso delle Amazzoni, pieno
di saette Tracie, avvolto da una fascia
tutta d’oro, con una splendida fibbia gemmata;
il terzo sarà contento per questo elmo argolico”.
Subito prendono posto e, dato il segnale,
scattano veloci alla partenza come
un rapido nembo, gli occhi fissi verso la meta.
Niso è subito in testa ed è di molto
davanti a tutti, più veloce del vento
e delle ali del fulmine; lo segue a distanza
Salio; un poco più in là viene Eurialo; Elimo
segue Eurialo; a ridosso ecco che incalza Diore
e lo tallona alle spalle; ci fosse più pista
Elimo potrebbe essere avanti di un nulla.
Già arrivavano stanchi sul rettilineo d’arrivo,
quasi sotto il traguardo, quando il povero Niso
sdrucciola sul bagnato, poiché per caso il sangue
delle vittime uccise aveva intriso la terra
e l’erba verde. Il giovane, che era già applaudito
come vincitore, non riuscì a mantenersi diritto
ma cadde a faccia in avanti nel sangue sacro e nel fango.
Cadendo pensò soltanto al suo amico Eurialo
e alzandosi sul viscidume si oppose a Salio,
lo fece ruzzolare sull’arena spessa.
Così Eurialo saetta e vince con l’aiuto
di Niso, ottenendo un applauso fragoroso, fremente.
Lo segue Elimo, mentre Diore conquista il terzo posto.
Allora Salio fa risuonare di grida l’anfiteatro;
rivolto agli anziani reclama l’onore
toltogli con l’inganno. La simpatia generale
va ad Eurialo, che piange troppo bene: il valore
in un bel corpo è più gradito. E ci si mette
anche Diore, che parteggia per Eurialo e strilla a gran voce:
non avrebbe alcun premio, con Salio vincitore.
Allora interviene Enea: “I premi sono vostri, ragazzi,
nessuno vuol cambiare l’ordine d’arrivo;
ma voglio consolare un amico innocente”.
Così detto dà a Salio la pelle di un leone
di Getulia, dal vello spesso e dalle unghie dorate.
E Niso allora: “Se tali premi concedi ai vinti,
se hai tanta pietà per chi è caduto, a me
che darai? Avrei avuto la prima corona
senza la stessa sfortuna che è toccata a Salio!”.
Così dicendo mostrava il volto e le membra
bruttamente infangate. L’ottimo padre sorrise
e comandò che gli si portasse uno scudo,
opera di Didimaone, strappato dai Greci
al tempio di Nettuno, e gliene fece un bel dono.
VIRGILIO, Eneide, Libro V, vv. 104-113; 286-361
Quindi, la flotta fece rotta verso la penisola italica, lasciando in terra sicula quei compagni che, stanchi di tante peregrinazioni, avevano deciso di stabilirsi nell’isola. Durante la navigazione, il timoniere Palinuro vinto dal sonno precipitò in mare presso il Capo che prenderà il suo nome.
Tirarono tutti insieme le scotte, e ugualmente a sinistra,
poi sciolsero le vele a destra; insieme volgono e rivolgono
le erte antenne; favorevoli brezze sospingono le navi.
Primo fra tutti Palinuro guidava la folta
squadra; gli altri dovevano seguire la sua prora.
E già l’umida Notte aveva quasi toccata la meta
intermedia del cielo; i marinai rilassavano le membra
nella placida quiete, sotto i remi, sparsi per i duri banchi:
quando, disceso lieve dagli astri eterei,
il Sonno fendette l’aria tenebrosa e scosse le ombre
te, o Palinuro, cercando, a te incolpevole recando
funesti sogni; il dio si asside sull’alta
poppa, simile a Forbante, e dice queste parole:
«Iaside Palinuro, le acque portano spontanee la flotta;
le brezze spirano equilibrate: un’ora propizia al riposo;
adagia il capo, sottrai alla fatica gli occhi stanchi.
Per un poco posso subentrarti nel compito».
A stento sollevando gli occhi a lui Palinuro dice:
«Vuoi che ignori il volto del placido mare
e i flutti quieti? Che confidi in questo mostro?
Affiderei – come sarebbe possibile? – Enea alle brezze
fallaci, sorpreso più volte dall’inganno del cielo sereno?».
Rispondeva tali parole e, fisso e stretto alla barra
non si scostava d’un pollice, e teneva gli occhi alle stelle.
Ed ecco il dio gli scuote un ramo stillante rugiada
letea e imbevuto del potere soporifero stigio su entrambe
le tempie, e a lui che già vacillava rilassa le pupille oscillanti.
La quiete inattesa gli aveva appena allentato le membra;
e sopra incombendo, con una parte divelta della poppa
e con tutto il timone lo rovesciò a capofitto nelle onde
mentre invano chiamava più volte i compagni;
quello, alato, si levò leggero a volo nell’aria.
La flotta corre ugualmente un cammino sicuro sul mare
e va imperterrita per le promesse del padre Nettuno.
Già navigando si avvicinava agli scogli delle Sirene,
difficili un tempo e bianchi delle ossa di molti;
allora le rocce risonavano rauche lontano per l’assidua
risacca: quando il padre Enea s’avvide che la nave, perduto il
nocchiero, errava fluttuando; ed egli la pilotò nelle onde notturne.
O troppo fiducioso nel cielo e nel mare tranquillo,
nudo, o Palinuro, giacerai su un’ignota spiaggia.
VIRGILIO, Eneide, Libro V, vv. 830-871
(traduzione di L. CANALI)
Avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea prese il controllo dell’imbarcazione e condusse la nave sino alla città di Cuma, nella penisola italica. Il figlio di Anchise, memore dei consigli di Eleno, si recò quindi nel tempio di Apollo (nei pressi del lago di Averno), di cui era sacerdotessa Deifobe, meglio nota come la Sibilla Cumana, una delle veggenti più celebri del mondo antico: ispirata dal nume, ella vaticinava oracoli in una caverna (nota appunto come “Antro della Sibilla”) che trascriveva poi in esametri su foglie che venivano mischiate dal vento.
L’eroe troiano chiese alla Sibilla di poter fare ingresso nel regno dei morti e rivedere l’amato genitore Anchise, da poco scomparso. La sacerdotessa acconsentì ad accompagnarlo a condizione che Enea trovasse un ramo d’oro (forse, un ramo di vischio) nel bosco limitrofo, consacrato a Persefone; con l’aiuto della madre Venere, questi riuscì a procurarsi il ramoscello e, fatti i dovuti sacrifici rituali, iniziò la discesa nell’Ade.
Enea e Deifobe dapprima si inoltrarono nell’Antro della Sibilla, sino a quando non giunsero davanti al vestibolo del regno dei morti, dove hanno la loro dimora il Lutto e gli Affanni; qui stanno anche le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, la Fame, la turpe Miseria, la Morte, il Dolore, il Sonno e i malvagi Piaceri dell’animo; sull’opposta soglia alberga la Guerra portatrice di morte, i letti di ferro delle Erinni e la pazza Discordia con i capelli di vipere cinti con bende sanguinanti.
In mezzo, un ombroso ed immenso olmo stende i rami e le sue vecchie braccia, ove si annidano i Sogni fallaci. Numerose altre figure mostruose hanno inoltre dimora sulle porte: i Centauri e le Scille biformi, Briareo dalle cento braccia, l’Idra di Lerna, la Chimera, le Gorgoni, Gerione e le Arpie. Enea e la Sibilla si mossero quindi verso il fiume Acheronte.
Di là parte la strada che conduce alle onde
del Tartareo Acheronte. Il suo gorgo è un’immensa
voragine, che bolle fangosa e si riversa
nel Cocito. Custode di questi fiumi è Caronte,
spaventoso nocchiero dall’orrenda sporcizia:
bianco foltissimo pelo gli pende incolto dal mento,
gli occhi pieni di fiamme stan fissi, stralunati,
ha un sudicio mantello legato sulle spalle.
Spinge lui stesso la barca con un palo, e governa
le vele, traghettando i morti sul bruno scafo:
vecchio ma Dio, di fiera e vegeta vecchiezza.
VIRGILIO, Eneide, Libro VI, vv. 295-304
(traduzione di C. VIVALDI)
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