Mito ed epica a Roma – Il poema di Roma: l’Eneide 1di4
Parte II
Il poema di Roma: L’Eneide
Quell’io che già tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l’umil sampogna,
e che, de’ boschi uscendo, a mano a mano
fei pingui e colti i campi, e pieni i voti
d’ogn’ingordo colono, opra che forse
agli agricoli è grata; ora di Marte
l’armi canto e ’l valor del grand’eroe
che pria da Troia, per destino, ai liti
d’Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l’insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l’ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi Dei
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de’ Latini, il regno d’Alba,
e le mura e l’imperio alto di Roma.
VIRGILIO, Eneide, Proemio – Libro I, vv. 1-10
(traduzione di A CARO)
Se in OMERO la sorte di Enea sembra essere quella di essere destinato a rifondare la città di Troia e a regnarvi, dopo la fine della stirpe di Priamo, in età ellenistica cominciò a diffondersi la leggenda secondo la quale il figlio di Anchise sarebbe fuggito dalla sua città natale per poi costruire una nuova patria nella penisola italica; i suoi discendenti avrebbero poi dato vita alla stirpe dei Romani.
Queste leggende vennero poi rielaborate dai poeti e dagli eruditi di lingua latina e greca; l’epopea della mitica fondazione di Roma trovò quindi la sua massima espressione in VIRGILIO, che alle vicende dell’eroe troiano dedicò il suo capolavoro: l’Eneide, il poema epico più celebrato della letteratura latina.
Il poema virgiliano ha inizio quando sono passati ormai diversi anni dal sacco di Troia: Enea aveva provato in qualche modo ad organizzare una resistenza ma, essendosi reso conto della imminente fine della sua città, era fuggito dalla città portando sulle spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlio Julo (che alcune fonti chiamano anche Ascanio); la moglie Creusa, invece, non riuscì a seguire i passi del marito e perì nel disastro generale del saccheggio acheo.
Il giorno successivo alla presa della città, Enea raccolse i pochi profughi sfuggiti al massacro e fece costruire delle navi, con le quali i Troiani sopravvissuti partirono alla ricerca di una nuova patria.
Cominciò così il viaggio dei Teucri nel Mediterraneo, che li condusse dopo tante peripezie in Sicilia. La dea Giunone tentò allora di far affondare le navi che componevano la piccola flotta di Enea, rivolgendosi a Eolo, il dio dei venti. Venne scatenata una spaventosa tempesta, che per poco non mandò a picco tutte le imbarcazioni; Nettuno, il dio del mare, intervenne a calmare i flutti permettendo all’eroe di approdare infine in Libia con i superstiti.
Venere, madre di Enea, andò incontro al figlio prendendo le sembianze di una vergine cacciatrice e lo informò che si trovava in una terra abitata da una comunità di Fenici, intenti a fondare una nuova città: Cartagine.
La loro regina, la famosa Didone (primogenita di Belo, re di Tiro), era la felice sposa di Sicheo; destinata a succedere al trono paterno, ella venne tuttavia osteggiata dal crudele fratello Pigmalione; questi le uccise il marito in un complotto e conquistò il potere assoluto sulla città.
Didone, a questo punto, lasciò la patria natia con un gruppo di seguaci e prese il largo, giungendo infine sulle coste dell’attuale Tunisia; qui la bella vedova di Sicheo ottenne da Iarba, il re del luogo, il permesso di fondare una città, prendendo tanto terreno “quanto ne poteva contenere una pelle di bue“.
Astutamente, Didone tagliò una pelle di bue in tante striscioline sottili e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il territorio della città di Cartagine.
“Questo è un regno fenicio, una città di Agenore
sorta in terra dei Libici, una razza indomabile in guerra.
Ne è regina Didone, partita un giorno da Tiro
fuggendo da suo fratello. Lunga a narrare sarebbe
l’ingiuria da lei patita, lunghe le sue peripezie:
te le racconterò per sommi capi. Sicheo,
il più ricco tra tutti i Fenici, era il suo sposo
amatissimo. Regnava su Sidone
il fratello di lei Pigmalione, malvagio
più di ogni altro. Ci fu una lite tra i due:
l’atroce tiranno, accecato dalla brama dell’oro,
sorprese Sicheo e lo trafisse davanti agli altari,
senza curarsi del grande amore di sua sorella.
Per molto tempo nascose il delitto ingannando
con vane speranze l’amante addolorata.
Ma in sogno la misera vide l’immagine del marito
insepolto: levando il viso pallidissimo, egli
le mostrò gli empi altari e il petto dilaniato dal ferro:
le rivelò il segreto delitto familiare.
Poi la persuase a fuggire, a lasciare la patria;
per facilitarle il viaggio le indicò gli antichi tesori
nascosti sottoterra, una ricchezza ignorata
in oro e argento. Didone, scossa da tali notizie,
si preparò alla fuga, scegliendo compagni fidati
tra quelli che temevano o odiavano il tiranno.
I congiurati salirono su navi già pronte a salpare,
caricandole d’oro: i beni dell’avaro
tiranno vennero tratti sul mare (ed una donna
era a capo dell’impresa). Poi giunsero nei luoghi
dove adesso vedrai innalzarsi le mura
gigantesche e la rocca della nuova Cartagine.
Comprarono tanta terra quanta una pelle di toro
potesse circondare. Per questo la città
ha pure il nome di Birsa. Ma ditemi, voi chi siete?
Da che paese venite? Dove pensate di andare?”.
VIRGILIO, Eneide, Libro I, vv. 338-370
La regina accolse benevolmente i profughi nella sua reggia e durante un banchetto in loro onore chiese a Enea di rievocare la tragica fine di Troia e le sue disavventure. Il principe troiano, con grande dolore, iniziò il suo racconto.
Tacquero tutti e tenevano attento lo sguardo.
Allora, dal posto d’onore, il padre Enea cominciò:
“Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile,
il modo in cui i Danai distrussero la potenza troiana
e il regno sventurato; tristissimi fatti dei quali
fui testimone e protagonista. Chi mai potrebbe trattenere
le lacrime a raccontarli, mirmidone o dolope
o soldato del duro Ulisse? E già scende l’umida notte,
dal cielo le stelle tramontando inducono al sonno.
Ma se desideri tanto conoscere le nostre vicende
e ascoltare brevemente l’estremo travaglio di Troia
(sebbene l’animo inorridisca al ricordo e sempre si
abbandoni al pianto), allora parlerò.
Stremati dalla guerra e respinti dai fati,
i capi dei Danai, trascorsi ormai tanti anni,
per divina arte di Pallade costruiscono un cavallo
simile ad una montagna e ne intessono i fianchi di abete;
simulano un voto per il ritorno (la fama si sparge).
Di nascosto, rinchiudono nel fianco oscuro guerrieri
scelti, designati a sorte, e riempiono di uomini armati
le vaste e profonde cavità del ventre.
Di fronte a Troia vi è Tenedo, un’isola famosa,
florida e ricca durante il regno di Priamo:
ora è soltanto una baia, approdo malsicuro per le navi;
qui, spintisi al largo, i Greci si celano nella riva deserta.
Pensammo che fossero partiti con il vento, diretti a Micene.
Allora tutta la Troade si scioglie da un lungo dolore.
Si aprono le porte; ci piace andare, vedere
il campo dorico, i luoghi deserti e la libera spiaggia:
“Qui vi era la schiera dei Dolopi, qui la tenda di Achille crudele;
qui era la flotta, qui usavano combattere schierati”.
Molti si stupiscono del fatale dono per la vergine Minerva
ed ammirano la mole del cavallo; per primo Timete
esorta a introdurlo tra le mura e a collocarlo sulla rocca
(forse era un inganno, oppure era questo
il destino di Troia). Ma Capi e quelli che hanno
un più accorto giudizio chiedono che si getti in mare
il dono sospetto dei Danai, che si dia alle fiamme,
che si forino le cavità del ventre e si esplorino i nascondigli.
Il popolo incerto si divide in due opposti pareri.
Seguito da una grande turba scende furioso
Laocoonte dall’alto della rocca, davanti a tutti,
e da lontano grida: “Sciagurati cittadini, che follia
è questa? Credete che i nemici siano partiti?
Credete che i doni dei Danai siano privi
di inganni? Non conoscete Ulisse?
Gli Achei si tengono nascosti in questo legno oppure
questa macchina è fabbricata a danno delle nostre mura,
per spiare le case e sorprendere dall’alto la città,
o cela un’altra insidia: Troiani, non credete al cavallo.
Di qualunque cosa si tratti, temo i Danai
anche se portano doni”. Così disse e scagliò con forza
la grande asta al fianco del cavallo, al ventre
dalle curve giunture. Quella si infisse vibrando e dal fianco
ne risuonarono le cavità, diedero un gemito.
Se i fati degli Dei non fossero stati contrari
e le menti non fossero state accecate, Laocoonte
ci avrebbe convinto a distruggere il nascondiglio
dei Greci; Troia si ergerebbe ancora
e tu, alta rocca di Priamo, ti leveresti ancora.
Intanto dei pastori troiani trascinavano
davanti al re, con grande clamore, un giovane
con le mani legate dietro la schiena: si era consegnato
ai pastori per tramare inganni ed aprire Ilio agli Achei;
risoluto nell’animo a ordire
inganni o a venire incontro a morte sicura.
La gioventù troiana accorre da ogni parte
verso di lui, da tutte le parti, fa ressa per vederlo,
fa a gara nell’insultarlo. Ora ascolta le insidie
dei Danai ed impara a conoscerli
dal crimine di uno solo…
Quando, inerme ed impaurito, si fermò nel mezzo, egli
volse lo sguardo alle schiere frigie e disse: “Quale terra,
quali mari potranno accogliermi? Che cosa mi resta,
me sventurato? Non ho un luogo dove stare, né tra i Danai,
né tra gli stessi Dardanidi che reclamano vendetta”.
Quel pianto frenò la nostra rabbia e ci calmò. Lo esortammo
a dirci chi fosse, da quale stirpe discendesse,
per quale motivo era lì, per quale ragione avremmo
dovuto fidarci di un Greco prigioniero.
Egli, deposto ogni timore, alla fine così parlò:
“Ti confesserò la verità, o re, qualunque cosa accada;
non negherò di essere di stirpe argolica;
la sorte maligna rese sventurato Sinone,
ma mai imbroglione e bugiardo.
Forse ti è giunta alle orecchie la fama e il nome glorioso
di Palamede, stirpe di Belo, che i Pelasgi misero a morte
innocente, con una falsa accusa
di tradimento, poiché si opponeva alla guerra;
ora che è morto, i Greci lo piangono. Il mio povero padre
mi mandò a combattere in questi luoghi sin dai primi anni,
legato a Palamede da vincoli di sangue;
finché egli partecipava da pari al potere ed aveva
influenza nei concili dei re, anch’io ebbi fama
ed onore. Dopo che, per l’invidia del perfido Ulisse
(parlo di vicende ben note), questi abbandonò il mondo
terreno, io mi ritirai in disparte, in lutto,
mi dolevo tra me e me per la sventura
dell’amico innocente. Non seppi tacere,
pazzo che fui! Promisi che, se la sorte lo avesse voluto
e se mai fossi tornato vincitore nella patria Argo,
lo avrei vendicato: suscitai odio
terribile con queste parole. E questo fu
il principio della mia rovina: Ulisse cominciò
a spaventarmi con nuove calunnie,
a spargere voci ambigue tra la gente,
a cercare di nuocermi, consapevole delle sue colpe.
Non si diede pace finché, per opera di Calcante…
Ma perché torno invano a narrare queste vicende
ingrate? E perché vi tedio se avete in odio
tutti gli Achei e vi basta sapere
che io lo sono? Mandatemi al supplizio;
è quello ce vorrebbe Ulisse, è quello che gli Atridi
pagherebbero con un ottimo prezzo”.
Noi bruciamo dalla voglia di interrogarlo e di sapere
il motivo della sua fuga, ignari della perfidia
e dell’astuzia dei Pelasgi. Tremando, egli prosegue
e con falso animo parla: “Spesso i Danai
desiderarono di fuggire, di abbandonare Troia,
di allontanarsi, stanchi per la lunga guerra.
Lo avessero fatto! Spesso vennero impediti
dall’aspra tempesta del mare: l’Austro terribile
li costrinse a fermarsi. Già il cavallo si ergeva,
fatto con travi di acero: allora le nuvole
risuonarono ancor di più per tutto il vasto cielo.
Incerti mandiamo Euripilo a consultare l’oracolo
di Febo ed egli riporta questo triste responso:
– Con il sangue di una vergine immolata placaste i venti,
quando veniste alle spiagge di Ilio, o Danai;
ora con altro sangue dovete implorare
un ritorno felice: con il sacrificio di una vita
di Argo -. Appena questa voce giunse
alle orecchie del popolo, un gelido tremore
percorse tutte le loro ossa: per chi i Fati preparavano la morte,
quale vittima avrebbe reclamato Apollo?
Allora Ulisse trascinò nel mezzo,
suscitando un grande tumulto, l’indovino Calcante:
gli chiede di conoscere il volere dei numi.
Molti mi predicevano il crudele misfatto
di quell’ingannatore, silenziosi prevedevano
il futuro. Calcante tacque per dieci giorni
chiuso in se stesso, rifiutando di nominare qualcuno
e di mandarlo a morte. A stento, infine,
spinto dai grandi clamori di Ulisse,
per accordo segreto mi destina all’altare
del sacrificio. Tutti assentirono, lieti,
permisero che avvenisse ciò che ognuno temeva
accadesse a se stesso. E già l’orribile giorno
si avvicinava; già per me si preparava
il sacrificio, le bende intorno alle tempie
e il frumento salato; fuggii dalla morte,
lo confesso, spezzai le corde e la notte
mi nascosi in un lago melmoso, oscuro tra l’erba,
aspettando che facessero vela, pregando che partissero.
Non avevo più speranza di rivedere la patria,
i cari figli, il sospirato padre, cui forse
gli Atridi faranno scontare la pena per la mia fuga,
ed essi espieranno questa colpa con la morte
degli sventurati. Ti prego, o re,
per i celesti e per i numi che sanno la verità,
per la fede (se ancora ne resta
tra i mortali), abbi pietà delle mie pene,
pietà per il mio cuore che soffre senza colpa”.
Commossi dalle lacrime, gli facciamo dono della vita.
Priamo per primo ordina che gli vengano tolti
i ceppi nonché gli stretti lacci alle mani e parla
in amicizia: “Chiunque tu sia, dimentica i Greci;
sarai dei nostri. Rispondi il vero alle mie parole:
perché questo cavallo? Chi fu l’inventore?
A che serve? È un’offerta ai numi o una macchina da guerra?”.
Sinone, esperto negli inganni e nell’astuzia pelasga,
sollevò verso le stelle le mani liberate
dai lacci e disse: “Chiamo a testimoni voi,
eterni fuochi, e la vostra inviolabile divinità,
e voi altari e spade nefande alle quali sfuggii,
e voi bende divine che portai come vittima:
posso rivelare le occulte decisioni dei Greci,
odiare quegli uomini e portare alla luce tutti
i loro segreti; non mi vincola nessuna legge.
Troia, mantieni le promesse ed io
ti salverò; dirò il vero, rendendoti un grande
servigio in cambio della vita:
rimani fedele alla tua parola sacra!
Ogni speranza dei Danai per la guerra intrapresa
si fondò sempre sull’aiuto di Pallade.
Da quando l’empio Tidide e Ulisse inventore di inganni,
volendo strappare dal sacro tempio il fatale Palladio,
uccisero le sentinelle della rocca, rapirono
la sacra effigie e con le mani insanguinate
osarono toccare le virginee bende della Dea,
da allora le speranze dei Danai vennero meno,
svanirono, le forze furono infrante, la mente della Dea
divenne ostile e avversa. La Tritonia Minerva
lo rese palese con prodigi manifesti.
Appena posero il simulacro nel campo,
fiamme d’ira arsero nei suoi occhi sbarrati,
un sudore salato percorse le sue membra;
per tre volte – mirabile a dirsi – la Dea
sobbalzò da terra brandendo lo scudo e l’asta vibrante.
Subito Calcante vaticinò che si doveva fuggire
per mare, che Pergamo non si poteva distruggere
con armi argoliche, se non si tornava ad Argo
a chiedere auspici, portando il Palladio
e trasportandolo sulle curve carene.
Ora, poiché veleggiarono con il favore del vento
alla patria Micene, cercheranno nuove armi,
divinità favorevoli; varcato il mare
giungeranno improvvisi: così interpreta
gli auspici Calcante; li convinse a lasciare
questa effigie al posto del Palladio,
per riparare l’offesa alla Dea ed espiare
l’infausto sacrilegio. Calcante ordinò di costruirlo
assai grande, con travi conteste,
di erigere una mole immensa sino al cielo,
perché non potesse passare tra le porte,
perché i Troiani non potessero condurlo
per proteggere la città all’ombra dell’antica religione.
Infatti se la vostra mano violasse i doni offerti
a Minerva, allora – prima gli dei volgano l’auspicio
su Calcante! – una grande rovina
ne verrebbe per l’impero di Priamo e per i Troiani;
se invece riuscirete a spingere il cavallo
sino alla cima della rocca, ne deriverà grande gloria,
porterete la guerra sino alle mura di Pelope:
e questi fati toccherebbero ai nostri nipoti”.
Grazie all’arte insidiosa dello spergiuro Sinone
tutti gli prestarono fede; e coloro che non furono
domati dal Tidide, da Achille e da migliaia
di navi, furono vinti dalla frode,
dalle lacrime finte di un Greco bugiardo.
Quindi, un evento molto più spaventoso
sopraggiunse a turbare noi infelici.
Laocoonte, tratto a sorte come sacerdote di Nettuno,
immolava un grande toro presso le are
solenni del nume. Ma ecco – inorridisco
a raccontarlo – due serpenti vengono da Tenedo
per le profonde acque tranquille, si levano
sull’oceano con spire immense e si dirigono verso la riva;
i loro petti svettano tra i flutti, le creste sanguigne
sovrastano le onde; l’altra parte del corpo
sfiora la superficie dell’acqua: gli enormi dorsi
si attorcigliano in cerchi sul mare che, frustato dalle
code, spumeggia fragoroso. E già approdavano
a riva, gli occhi iniettati di sangue
e di fuoco, lambivano con lingue vibranti
le bocche sibilanti. Fuggiamo di qua e di là,
pallidi a tale vista. I serpenti, senza esitare,
puntano su Laocoonte; e dapprima avvinghiano
con le spire i corpi dei suoi due figli piccoli,
straziano le loro membra a morsi; poi afferrano
Laocoonte che sopraggiungeva in loro aiuto brandendo le armi;
lo stringono due volte alla vita con i corpi,
con un nodo squamoso gli circondano la vita
e il collo; le due teste gli sovrastano il capo.
Cosparse le bende di sangue e di veleno
egli si sforza di sciogliere i nodi
con la forza delle mani e leva orrendi clamori
alle stelle: quali i muggiti di un toro ferito
che fugge dall’ara e scuote via dal collo
la scure incerta, che l’ha solo ferito.
Infine i due serpenti se ne vanno strisciando
sino ai templi più alti muovono verso la rocca
della crudele Minerva; si acquattano ai piedi
della Dea e sotto il cerchio dello scudo concavo.
Allora un nuovo timore si insinua nei petti tremanti
di tutti noi; dicono che Laocoonte giustamente
ha pagato il suo grave delitto, poiché
egli ha violato con la punta il legno sacro,
scagliando al fianco la punta scellerata.
Gridano tutti che si deve condurre il cavallo
a Troia, pregando la santità della Dea.
Apriamo una breccia nelle mura e spalanchiamo
la cinta della città. Tutti si accingono all’opera
e pongono sotto le zampe rulli scorrevoli,
gettandogli al collo lunghe funi. La fatale
macchina attraversa le mura, piena di armi,
mente intorno giovinetti e intatte fanciulle
cantano inni, felici di toccare per gioco
le funi. La macchina s’avanza,
scivola minacciosa in mezzo alla città.
O patria, o Ilio, dimora degli dei, o mura Dardanie,
rese famose dalla guerra! Quattro volte
si arrestò sul limitare della porta e quattro volte
dal ventre risuonarono sinistre le armi!
Noi non pensiamo nulla e andiamo avanti, accecati
dalla follia, e collochiamo il mostro infausto sulla sacra rocca.
Anche allora Cassandra aprì la bocca
– giammai creduta dai Teucri per volere di Apollo –
e ci predisse il destino fatale e imminente.
Quel giorno per noi doveva essere l’ultimo:
noi sventurati adornavamo con fronde festive
i templi degli Dei per tutta la città.
VIRGILIO, Eneide, Libro II, vv. 1-249
Durante la notte le navi degli Achei tornarono sulle rive della Troade, mentre i guerrieri greci nascosti nel cavallo di legno uscirono dal ventre e, con l’aiuto di Sinone, aprirono le porte della città ai compagni sbarcati. Cominciò così il sacco di Troia da parte dei Danai.
Ad Enea dormiente apparve in sogno l’ombra insanguinata di Ettore, che scongiurò il figlio di Anchise di fuggire, portando via i numi tutelari della città.
“Fuggi, figlio della dea” disse [Ettore], “scampa alle fiamme.
Il nemico occupa le mura; Troia precipita
dall’alto della rocca. Abbiamo dato abbastanza
per la patria e per Priamo: se un braccio mortale
avesse potuto difendere Pergamo, sarebbe bastato
il mio. Troia ti affida i sacri Penati:
prendili, compagni dei fati, e cerca con essi
le mura, che infine erigerai superbe,
dopo un lungo e faticoso viaggio per mare”.
VIRGILIO, Eneide, Libro II, vv. 289-295
Enea si armò e tentò di organizzare una disperata resistenza contro l’esercito acheo, pur consapevole della vanità dei suoi sforzi.
E’ giunto l’estremo giorno l’ora fatale ed inevitabile per Troia.
Fummo! Noi Troiani fummo, Pergamo fu, la grande
gloria dei Teucri fu! Ora più nulla: Giove
spietato diede tutto ad Argo; i Danai dominano
nella città incendiata.
[…]
Ecco la vergine Cassandra, figlia di Priamo,
con le chiome sciolte, tratta a forza dal tempio
e dal sacrario di Minerva; alzava invano al cielo
gli occhi ardenti, poiché le tenere mani
erano strette da ceppi.
VIRGILIO, Eneide, Libro II, vv. 324-327; 403-406
Nel tentativo di liberare Cassandra, molti dei Teucri caddero sotto i colpi dei Danai invasori. Enea si rifugiò nella reggia di Priamo, solo per assistere alla orribile morte del re Priamo ad opera di Pirro (Neottolemo), figlio di Achille.
Proprio davanti al vestibolo e al limitare della soglia
Pirro infuria, lucente di armi di bronzo scintillante.
Allo stesso modo torna alla luce, dopo essersi nutrito
di erbe velenose, un serpente che il freddo inverno
costrinse a nascondersi in una tiepida tana,
sotto la terra: nuovo e splendente di gioventù,
contorce il viscido dorso, perduta la vecchia pelle,
alto nel sole, il petto eretto, e vibra in bocca
la lingua triforcuta. Insieme a Pirro assaltano
il palazzo il gigantesco Perifante, il violento
Automedonte, l’auriga dei cavalli di Achille,
tutti i giovani sciri, scagliano sul tetto
torce accese. Pirro, tra i primi, afferra
una scure, fracassa la dura porta di bronzo;
spezza una trave, scava il legno robusto,
produce un vasto squarcio; gli appare
l’interno della casa, i lunghi corridoi,
le stanze segrete di Priamo e degli antichi re;
vedono gli armati sul limite della soglia.
L’interno del palazzo risuona di gemiti, di un tumulto
disperato; nelle stanze remote urlano
pianti femminili: un clamore che ferisce
le auree stelle. Le donne atterrite
corrono per le vaste sale, fuori di sé,
abbracciano gli stipiti e vi imprimono baci.
Pirro attacca con la furia degna del padre.
Né le sbarre, né le sentinelle riescono a resistere; la porta
vacilla ai fitti colpi dell’ariete, i battenti
crollano, divelti dai cardini. Gli Argivi
irrompono all’interno, si fanno strada con la forza,
distruggono l’ingresso e trucidano i primi
difensori, riempiono ogni luogo di soldati.
Un fiume straripante, che ha rotto argini e dighe
con il suo corso furioso, allaga i campi,
trascina sull’onda altissima gli armenti
con le loro stalle sarebbe meno spaventoso,
meno terribile. Io stesso vidi Pirro ebbro
per la gioia di uccidere, vidi sulla soglia
i due Atridi, vidi Ecuba insieme
alle sue cento nuore e Priamo, tra gli altari,
deturpare con il sangue i fuochi da lui consacrati.
Le cinquanta stanze nuziali, speranza
di nipoti, le superbe porte di oro barbarico
e di trofei crollarono; i Danai sono ovunque,
il fuoco occupa i luoghi dove non vi sono nemici.
Forse vorrai conoscere anche il destino
di Priamo. Come vide il disastro della città
conquistata, le soglie della reggia infrante
ed il nemico irrompere nelle stanze,
il vecchio si vestì le spalle tremanti per via
dell’età con armi da troppo tempo deposte;
cinse una spada inutile, deciso a morire tra i Greci.
In mezzo al palazzo, in cortile, all’aperto
sotto la volta del cielo, sorgeva un altare imponente
e un antichissimo alloro che dava ombra ai Penati.
Qui sedevano assieme, intorno agli altari,
abbracciate alle statue degli Dei, la regina
Ecuba e le figlie: sembravano colombe
fuggite a precipizio nella fosca bufera.
Ecuba, come vide Priamo vestito con le armi
dei giovani, disse: “Infelicissimo sposo,
quale funesto pensiero ti indusse a cingere
la spada e la lancia? Dove vai? Questo tragico
momento non richiede armi né braccia come le tue
– quelle di un vecchio -. Ettore stesso, se fosse
ancora vivo, nulla potrebbe. Vieni qui,
l’ombra dell’altare ci proteggerà tutti,
o moriremo insieme!”. Così disse e trasse
a sé il vecchio facendogli posto sull’altare.
In quel momento Polite, uno dei figli di Priamo,
sfuggito alla strage di Pirro, correva tra i dardi,
tra i nemici, fuggiva per i lunghi portici
e per gli atri deserti, ferito. Impetuoso, Pirro
lo inseguiva per colpirlo e quasi lo raggiungeva,
incalzandolo con la lancia. Infine giunse davanti
allo sguardo dei genitori: Polite cadde
in un lago di sangue, esalò l’ultimo
respiro. Allora Priamo, sebbene fosse nella stretta
della morte, non si contenne, non risparmiò la voce
e l’ira ed esclamò: “Tu che hai osato
un tale delitto! Se in cielo ancora esistono
pietà e giustizia, che gli Dei ti puniscano
per avermi costretto ad assistere alla morte
del figlio, tremendo e sacrilego spettacolo
per gli occhi di un padre. Achille, quell’Achille
del quale ti vanti di essere figlio, non fu crudele
come te verso il nemico Priamo; rispettò i diritti
del supplice, mi rese il corpo esangue di Ettore
per il sepolcro, mi rimandò nel mio regno”.
Così parlò il vecchio e lanciò un giavellotto
senza forza contro lo scudo bronzeo di Pirro,
che rimbalzò con suono rauco. L’innocua lancia
pendeva inutile dalla borchia dello scudo scalfito.
Pirro disse: “Vai dunque tu stesso da mio padre
a protestare; ricordati di parlargli di me
e delle mie atrocità, di Pirro degenere: e ora muori!”.
Lo trascinò sull’altare, tremante e malfermo,
sul viscido sangue del figlio; lo prese con la sinistra
per la lunga chioma e, sguainata la spada lucente
con la destra, gliela immerse nel fianco, sino all’elsa.
Questa fu la fine di Priamo; il Fato lo rapì
mentre vedeva Troia in fiamme e Pergamo
in rovina, lui che un tempo era il superbo
sovrano di molte genti e di tanti paesi dell’Asia.
Ora giace come un tronco grande sul lido
deserto della patria, una testa canuta
spiccata dal busto: un corpo senza nome.
Allora per la prima volta fui preso da terrore.
Raggelai: quando vidi il vecchio re
(coetaneo di Anchise) ucciso
dal ferro crudele mi sovvenne l’immagine
del caro padre, di Creusa sola, della casa
forse distrutta, la sorte del piccolo Iulo.
VIRGILIO, Eneide, Libro II, vv. 469-563
Resosi contro della ineluttabilità del destino di Troia (anche grazie all’intervento della madre Venere[1]), Enea cercò di mettere in salvo la sua famiglia; solo un prodigio del dio Giove, tuttavia, convinse il vecchio Anchise a seguirlo nella fuga.
Il padre Anchise sollevò lieto
gli occhi alle stelle e tese al cielo le mani
dicendo: “Giove onnipotente, se alcuna preghiera
ti piega, guardaci; questo solamente ti chiedo.
Se meritiamo la tua pietà, dacci ancora un segno,
o padre, e conferma gli auspici”.
Il vegliardo aveva appena parlato, quando un improvviso
fragore tuonò a sinistra e una stella caduta dal cielo,
tracciando con grande luce una scia, percorse la notte buia.
La vedemmo sfiorare il tetto di casa nostra
e scomparire luminosa nella selva dell’Ida,
segnando la via; quindi un solco risplendette
a lungo: intorno, si diffuse un odore penetrante di zolfo.
Vinto da questo prodigio, mi padre si protese
verso il cielo, salutò gli dei e la sacra stella:
“Non bisogna indugiare più; vi seguirò ovunque
mi porterete. Dei della patria, salvate la stirpe,
salvate mio nipote. Riconosco l’ augurio,
comprendo che ancora proteggete Troia.
Più non rifiuto di accompagnarti, o figlio!”.
VIRGILIO, Eneide, Libro II, vv. 687-704
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