Mito ed epica a Roma- I miti romani

Triade Capitolina (Giove tra Minerva e Giunone)

Introduzione

I miti romani

Se la gente dell’Ellade fu, come ben noto, la più fantasiosa, la più poetica del mondo mediterraneo, e non di esso soltanto, quella di Roma, senza volerle far torto e senza dimenticare i suoi grandi poeti, fu la più positiva, la più legata a interessi privati e politici, la meno disposta ad abbandonarsi ai sogni e alle illusioni della fantasia”[1].

Questa la tesi esposta da un noto scrittore di mitologia greca e romana, cui fanno eco le voci di molti altri studiosi ed eruditi del settore; Dumezil, in particolare, sostiene che “come tutti gli altri popoli indoeuropei anche i Romani, all’inizio, hanno ammantato di miti i loro dei e basato lo scenario periodico dei loro culti sulle avventure delle loro divinità. Ma poi hanno dimenticato tutto.

Capita tuttavia che sia possibile leggere ancora le tracce di quei miti nei rituali di cui essi davano a suo tempo ragione e che, con il passare del tempo, erano divenuti un rebus per gli stessi Romani”[2].

Dunque la mitologia, a Roma, “può essere considerata al massimo un segno, un’impronta lasciata sul rituale, alla maniera di una conchiglia fossile che, prima di dissolversi, ha impresso la sua valva sulla roccia. A Roma il mito si configurerebbe solo come una riemergenza dall’oblio collettivo”[3].

Questa concezione della mitologia romana è, in effetti, troppo ingenerosa nei confronti di un popolo che – pur non potendo essere paragonato a quello ellenico per l’afflato “epico” e il senso del meraviglioso (il mythos, appunto, che non a caso è una parola di derivazione greca) – elaborò anch’esso il suo patrimonio di leggende, favole e tradizioni.

I Romani, è vero, non svilupparono mai una vera e propria visione cosmologica e teogonica, come fecero altre culture più o meno coeve (si pensi, ad esempio, alla Torah della tradizione ebraica, alla Teogonia di ESIODO, all’Enuma Elish della Mesopotamia, ai papiri egiziani e ai grandi poemi scritti in lingua sanscrita).

All’inizio, erano un popolo semplice ed agreste, legato ad un territorio ricoperto di paludi e foreste: le loro divinità rispecchiavano questo stile di vita e vegliavano su ogni aspetto della vita quotidiana degli abitanti. Gli dei di questa fase primordiale (che MORPURGO definisce scherzosamente come “un Olimpo rusticano”) sono Giano, Saturno, Fauno, Tiberino…

A seguito dei contatti con culture allora assai più evolute, come quelle degli Etruschi e delle colonie della Magna Grecia, a Roma iniziò un processo di assimilazione delle divinità dei popoli limitrofi: in alcuni casi i numi vennero letteralmente – per così dire – “importati” nel pantheon romano, in altri casi ebbe luogo una sorta di sincretismo tra gli attributi della divinità romana e quelli dei numi di origine etrusca o ellenica.

Se in età regia si venerava la triade Giove, Marte e Quirino, in epoca successiva essa era stata superata per importanza dalla triade Giove, Giunone e Minerva (sul modello della religione etrusca, che venerava in modo particolare Tinia, Uni e Menrva).

All’esito di un processo lentissimo, che non siamo in grado di ricostruire in tutte le sue fasi, si arrivò ad una vera e propria identificazione tra le divinità dei Romani e quelle dell’Olimpo (“Graecia capta ferum victorem cepit – et arte intuit agresti Latio”, diceva ORAZIO, che può essere tradotto come segue: “la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore e introdusse le arti nel Lazio agreste”).

La mitologia romana, tuttavia, non conosce molte storie che abbiano come protagonisti gli dei; il patrimonio di leggende che sono giunte sino a noi riguardano soprattutto la fondazione della città, le figure dei primi sette reggitori di Roma e alcuni episodi della prima età repubblicana: si tratta, principalmente, di aneddoti aventi carattere didascalico, esempi di condotte da ergere a modello (positivo o negativo), strumentali all’insegnamento delle virtutes ai Romani.

A differenza della cultura greca, inoltre, le opere principali della letteratura latina ispirate all’epos e alla mitologia vengono composte in epoca relativamente recente. Se, infatti, i poemi di OMERO ed ESIODO appartengono all’età arcaica della civiltà ellenica e presuppongono una tradizione orale antica di secoli, a Roma le opere di VIRGILIO, OVIDIO, PROPERZIO e LIVIO vengono composte in Età Augustea (vale a dire, a cavallo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.), in un periodo storico decisamente “maturo” per la storia dell’Urbe.

Non si tratta, insomma, di storie appartenenti ad un passato mitico, ai primordi della civiltà romana, ma di raffinate rielaborazioni letterarie di tradizioni più antiche, ad opera di poeti vissuti in un contesto storico decisamente “civilizzato”, in un clima culturale ed artistico che aveva già assimilato e rielaborato quasi un millennio di poesia greca e di tradizione etrusco-italica: di tale circostanza occorre tenere conto, se si vuole comprendere appieno la differenza tra il suono “primordiale” dell’epos omerico e le eleganti metafore virgiliane.

Parte I

Gli Dei

  1. Le divinità principali

Giove

Giove (in latino Iupiter, Iuppiter o Diespiter) era la divinità suprema della religione romana; era il nume celeste per definizione: dio del sereno e delle tempeste, i suoi simboli erano il fulmine e il tuono.

Egli aveva numerosi appellativi, ma i più importanti erano: Giove Ottimo Massimo; Giove Statore (in quanto teneva lontani i nemici e manteneva saldo l’esercito romano); Lucetius, in quanto padre del giorno e della notte; Fidius, in quanto nume tutelare della fides, il rispetto della parola data.

Un tempio in onore di Giove era stato costruito a Roma sin dall’epoca regia, sul Campidoglio (Giove Capitolino). Il dio assimilò gli attributi di Tinia (divinità etrusca) e del greco Zeus, con il quale si identificò completamente.

Nettuno

Nettuno (Neptūnus) era la divinità delle acque correnti; in seguito venne identificato con Nethuns, il dio etrusco delle acque dolci e dei pozzi, e con il dio greco Poseidone. Veniva onorato con le festività dei Neptunali, a cui furono poi uniti i ludi Neptunialicii; il suo tempio si trovava all’interno del Campo Marzio a Roma.

Plutone

Plutone (Pluto, -onis) era una delle principali divinità della religione romana, nonché signore dell’oltretomba, sul quale regnava assieme alla dea Proserpina. Egli corrispondeva al greco Ades. Presso i Romani Plutone, pur associato al regno dei morti, veniva considerata una divinità benevola e generosa, in quanto dispensatrice delle ricchezze ricavate dalle miniere.

Giunone

Giunone era una divinità dei popoli italici primitivi, legata al ciclo lunare, al matrimonio e al parto; in seguito, ella assorbì anche il culto della Mater Matuta (la dea agreste del mattino e delle nascite) e venne gradualmente identificata con la dea Hera della mitologia greca, divenendo così la moglie di Giove. In onore della dea erano stati eretti vari templi, come quello di Giunone Moneta (“colei che ammonisce”) sul Campidoglio; Giunone Lucina proteggeva le nascite e i bambini: in suo onore venivano celebrate le Matronalia.

Cerere

Cerere (in latino: Ceres, Cereris; in osco: Kerri, Kerres o Kerria) era una divinità materna della terra e della fertilità; presente nel pantheon dei popoli italici preromani sin dall’antichità (specialmente tra gli Osco-Umbri), fu in seguito identificata con la dea greca Demetra. Un suo tempio a Roma era presente a Roma ai piedi del colle Aventino; in suo onore si celebravano le Cerealia.

Vesta

Vesta è una figura della mitologia romana, che corrispondeva alla divinità ellenica Hestia. Il suo culto a Roma assunse una grandissima rilevanza: era la dea del focolare domestico, venerata in ogni casa; le sacerdotesse legate al suo ordine (le famose Vestali) avevano il compito di custodire il fuoco sacro alla dea, acceso all’interno del tempio a lei dedicato, facendo sì che non si spegnesse mai.

Apollo e Diana

Apollo e Diana

I due figli di Latona (Leto, nella mitologia greca) erano due divinità molto venerate a Roma: Apollo venne acquisito nel pantheon romano dalla religione ellenica ed era onorato soprattutto con l’appellativo di Febo; del pari era oggetto di culto il figlio Esculapio (in greco, Asclepio), il dio della medicina. Le sue sacerdotesse (le Sibille) erano dotate del dono della profezia ed erano note in tutto il Mar Mediterraneo.

Diana, invece, era in origine una dea italica, signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne; venne poi identificata con Artemide.

Mercurio

Nella religione romana, Mercurio (Mercurius, nome latino del dio greco Hermes) era il nume dell’eloquenza, del commercio e dei ladri; era anche il messaggero degli dèi; il suo nome latino probabilmente deriva dal termine merx o mercator, che significa mercante: per questo era il nume degli scambi, del profitto e del commercio. Un tempio a lui dedicato era stato edificato sull’Aventino.

Marte

Marte (in origine il suo nome era Mavors o Marmar) era un dio agreste che i Romani evocavano durante gli Ambarvali, una festa primaverile che si svolgeva nei campi, affinché i numi concedessero la fecondità (famoso era, anche in epoca storica, il Carmen Fratrum Arvalium, che veniva cantato dai Romani durante questa festività). In seguito, egli divenne il terribile dio della guerra e si identificò con il greco Ares.

 

Venere

Venere (in latino Venus, Venĕris) era una delle maggiori divinità romane, associata all’amore, alla bellezza e alla fertilità: era l’equivalente della dea greca Afrodite. Veniva considerata l’antenata del popolo romano per via del suo leggendario fondatore, Enea, svolgendo un ruolo chiave in molte festività e miti della religione romana.

Bacco

Bacco (Bacchus) era il dio del vino e della vendemmia: il suo nome derivava dall’appellativo greco Bákkhos), con cui veniva nominato il dio greco Dioniso, nel momento della possessione estatica. Il suo culto giunse nella penisola italica nel II secolo a.C.; il nume veniva in genere raffigurato come un giovane con il capo cinto di pampini, con in mano una coppa di vino o il tirso.

Vulcano

Vulcano (Vulcanus, Volcanus o Volkanus) era il dio romano del fuoco terrestre e distruttore; era già venerato nella fase più antica della religione romana. La tradizione sosteneva che il dio derivasse il proprio nome da alcuni termini latini collegati alla folgore. In seguito venne identificato con il greco Efesto.

Minerva

Minerva era la dea romana della guerra e della saggezza, nonché la protettrice degli artigiani. Il nome fu probabilmente importato dagli Etruschi che la chiamavano Menrva; venne in seguito assimilata a Pallade Atena.

Tabella n. 1

Divinità latine Divinità elleniche
Giove Zeus
Nettuno Poseidone
Plutone Ades
Giunone Hera
Cerere Demetra
Vesta Hestia
Apollo Apollo
Diana Artemide
Mercurio Hermes
Venere Afrodite
Bacco Dioniso
Minerva Pallade Atena
Vulcano Efesto
Proserpina Persefone
Iuventas Ebe
Saturno Crono
Magna Mater Rea
Esculapio Asclepio
Fortuna Tyche
Silvano Pan
Eroi latini Eroi ellenici
Ercole Eracle
Ulisse Odisseo

Schema delle divinità latine ed elleniche

  1. Le divinità agresti e gli Dei minuti

Giano bifronte

Le divinità primigenie dei Romani appartenevano, come si è detto, al mondo agreste. La più importante di esse era sicuramente Giano, rappresentato sempre con due facce (“bifronte”), in quanto era il nume del principio e della fine, di tutto ciò che inizia e finisce, della guerra e della pace; a questa divinità era stato consacrato il mese di gennaio (Ianuarius) e il colle Gianicolo.

Nume tutelare dei Romani era il dio Quirino, in seguito identificato con Romolo, il mitico fondatore della città; figlio di Giano e della ninfa dei boschi Camesene era invece Tiberino, il dio del fiume che scorreva nella città di Roma: il Tevere (un tempo chiamato anche Albula o Rumon), che nell’antichità costituiva il confine tra il mondo etrusco e quello dei Latini.

Una divinità molto importante era Saturno, il quale giunse nel Lazio in un’epoca antichissima ed insegnò agli abitanti l’arte dell’agricoltura (il suo nome pare derivi proprio da satus, l’atto del seminare); egli stabilì un regno (i saturna regia) tanto felice da essere ricordato in seguito come una vera e propria età dell’oro;

il nume venne successivamente identificato con il dio greco Crono, che avrebbe riparato nella penisola italica dopo essere stato spodestato dal figlio Zeus/Giove (la regione in cui regnò sarebbe stata chiamata Latium dal verbo latere, nascondere, perché lì il dio si era nascosto dopo aver perso il dominio del cielo)[4].

In onore di Saturno venivano celebrate anche le licenziose feste dei Saturnalia, durante le quali erano sospese tutte le regole sociali consolidate. Si diceva che il nume avesse preso in moglie Opi, la dea latina dell’abbondanza.

Figlie di Giano, di suo figlio Fons ovvero del dio Tiberino erano le Ninfe (il nome originario era forse Linfe, in quanto spiriti delle acque): le più famose erano Iuturna (o Giuturna) e Lara; Postvorta e Antevorta, che potevano vaticinare gli eventi futuri e passati; Feronia e Albunea; Carmenta e le sue sorelle, che sapevano intonare i canti (carmina), come le Muse in terra di Grecia: tra di loro vi era Egeria, compagna e consigliera di uno dei re di Roma.

Un’altra divinità importante era Fauno, figlio di Pico e nipote in linea diretta di Saturno (nonché padre del mitico re Latino): egli era raffigurato come una creatura con la parte superiore del corpo di essere umano (anche se irsuto, villoso e dotato di corna), mentre la parte inferiore era quella di un capro; era considerato lo spirito buono della fertilità ed era anche dotato di un grido capace di suscitare terrore in chi lo udiva.

A Fauno venivano attribuite doti profetiche: egli era chiamato anche Fatuus, che ha la stessa radice del termine fatum, il destino; in suo onore veniva celebrata la festa dei Lupercalia, di origine preromana (da Lupercus, un appellativo di Fauno; si discute se derivi dal verbo luere, sacrificare, perché durante la festa veniva immolato un capro, ovvero da lupus arcere, ovvero tenere lontani i lupi, in quanto nume proteggeva le greggi dalle fiere).

Altre personificazioni mitiche di una certa rilevanza erano la dea Fortuna, la dea Febbre, Bellona (la dea della guerra) e Libitina (la dea della morte); e poi ancora Flora, la dea della primavera; Pale, la dea dei pastori (da cui prese forse il nome il colle Palatino); Termine, che consacrava e difendeva i limiti della proprietà rurale; Priapo, divinità deforme e dal fallo smisurato che proteggeva gli orti dai ladri e dalle belve, in seguito connesso ai riti legati alla fecondità e alla fertilità; ed infine Silvano, il patrono delle selve, in seguito confuso e identificato con il greco Pan.

I Romani, inoltre, avevano una schiera di divinità minori, che sovraintendevano ad ogni istante della vita quotidiana, chiamati per questo anche Dei minuti:

esisteva Carna, la ninfa che vegliava sui bimbi neonati; Numeries, invocata affinché il parto avvenisse velocemente; Lucina, che portava alla luce il bambino; Vitumnus e Sentinus: l’uno faceva cominciare la vita, l’altro donava le percezioni dei sensi; Fluviona aveva invece trattenuto il flusso mestruale della donna durante la gravidanza, mentre Alemona si era preoccupata di nutrire il feto;

Vaticanus dava il primo vagito; Fatua e Fabulinus insegnavano al bambino a parlare; c’erano ancora Rumina, che garantiva il nutrimento del lattante, Educa e Potina, che ne seguivano lo svezzamento;

e poi ancora Nundina, la dea del nono giorno, e Levana, che assisteva al rito del padre il quale levava al cielo il figlio riconoscendolo come proprio; venivano infine le dee del destino (Nona, Decima e Parca), ad assegnare a ciascuno il suo tempo, e la dea Cunina, che vegliava sulla vita del bambino proteggendolo dal malocchio; a difendere il bambino dalle creature malefiche pensavano anche Intercidona con la sua scure, Pilumnus con il pestello e Deverra con la sua scopa.

Anche l’agricoltura, attività fondamentale per la sopravvivenza della comunità, aveva la sua schiera di Dei minuti: esisteva Rusina, la dea della rus (la terra coltivata), e Semonia, la dea dei semi; poi vi era Imporcitor, che sovraintendeva alla attività di tracciare i solchi, mentre Vervactor vegliava sull’aratura; Sator curava la semina, Seia il frumento (quando stava sotto terra) e Segetia le messi.

Promitor era il dio dei germogli e Sterculinus quello della concimazione; a Nodutus era affidata la cura degli steli, a Volutina quella degli involucri dei gusci di frumento; Patelana aiutava la spiga ad uscire, Hostilina badava a che le messi raggiungessero la stessa altezza. Robigus proteggeva dalla ruggine, mentre Auruncus (o Averruncus) proteggeva dalle calamità. Di Pomona (dea della frutta) e del suo consorte Vertumno si farà cenno nel capitolo successivo.

I Romani avevano una particolare venerazione per i numi tutelari della casa e della famiglia. In particolare, i Penati erano gli spiriti della casa ed avevano un loro tempietto nell’atrio di ogni dimora, accanto al fuoco consacrato a Vesta.

Il Lar era lo spirito tutelare del capostipite della famiglia ed era oggetto di culto al pari degli altri antenati (i Lari). I Mani erano invece le anime venerate dei morti della casa; se trascurati, essi si trasformavano in Lemuri o Larve, lugubri ombre inquiete.

[1]   MORPURGO, Le favole antiche, Torino, 1953, p. 181.
[2]   DUMEZIL, La religion romain archaique, Paris, 1975, p. 65.
[3]   FERRO-MONTELEONE, Miti romani, Torino, 2010, p. VI (prefazione di M. BETTINI).
[4]   Proprio in omaggio alle figure mitiche più importanti della religione romana primitiva, le prime monete coniate a Roma (il nome originario era nummus: il nome moneta subentrò in seguito, perché il conio avveniva sempre nell’area sacra a Giunone Moneta, la dea che avvisa e fa ricordare: monere in latino) raffiguravano Giano e la prora della nave che aveva condotto Saturno.

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di Daniele Bello

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